Giu 14

Elena Ferrante – I giorni dell’abbandono

Olga ha trentotto anni, da quindici è sposata con Mario, e da lui ha avuto due figli, Gianni e Ilaria, di dieci e sette anni. La sua è un’esistenza serena, scandita dai ritmi della vita domestica, soprattutto da quando, lasciata Napoli, vive a Torino, e ha deciso di dedicarsi a tempo pieno alla famiglia. Per questo, ha lasciato il lavoro, un impiego presso una piccola casa editrice, e sebbene, dieci anni prima, avesse pure pubblicato “un lungo racconto d’ambiente napoletano”, da tempo ormai non scrive più. È un pomeriggio d’aprile, di un giorno qualsiasi, uguale a tutti gli altri, quando il marito le annuncia la propria intenzione di lasciarla.

Il tempo, probabilmente, è il vero protagonista di quest’ultimo romanzo di Elena Ferrante: gli anni, con il loro succedersi veloce che segna inesorabile le stagioni della vita, gli attimi, con il loro procedere lento che dilata lo spazio, la sua percezione, che apre interstizi profondi di rievocazioni lontanissime e, nel deposito della memoria, rende più struggente la cognizione dolorosa dei giorni dell’abbandono.

È sul piano formale, soprattutto, che si riscontrano i pregi autentici del libro: la lingua, vigile e controllata, non cede alla disperazione, al dolore, all’angoscia e al disorientamento che la percezione dell’assenza e dell’abbandono provocano nella protagonista, ma registra, in maniera sorvegliatissima, tutti gli scollamenti e le fratture che l’esperienza di quella condizione hanno determinato sulla realtà, fino al senso di vuoto e di dissipazione che sfonda la superficie delle cose:

I sensi erano ottusi, tra i timpani e il mondo, tra i polpastrelli e le lenzuola forse c’era dell’ovatta, un feltro, un velluto. Cercai di raccogliere le forze, mi sollevai sui gomiti cautamente per non lacerare il letto, la stanza, con quel movimento, o lacerarmi io, come un’etichetta strappata a una bottiglia. (p. 98)

Il sentimento di precarietà che assedia Olga, la sua fragilità, l’angoscia con la quale si rapporta al reale, sono dati facendo ricorso a un dettato realistico, a un linguaggio neutro che nomina le cose, oggettivandole, prima che la trasfigurazione, operata dai sensi della protagonista, provveda a modificarle, a dilatarle fino a renderle impalpabili:

Di solito aprivo le porte con gesti naturali, non sentivo l’ansia dell’inceppo. A volte però […] le mani dimenticavano, le dita non avevano memoria della presa giusta, della pressione corretta. (p. 154)

Tutta la parte centrale del romanzo, come in un estenuante ralenti, è occupata dal racconto di una sola giornata, quella decisiva che fa da snodo all’intera vicenda, quando la crisi di Olga tocca il suo apice. Poi, il verificarsi di un nuovo evento doloroso, la morte del cucciolo domestico, la contemplazione dell’agonia dell’animale, provvedono a dissipare il limo del dolore originario, preludendo alla rimozione di quella condizione di labilità, di distonia, che nella protagonista era venuta a maturare rispetto alla realtà:

Quella prossimità di morte reale, quella ferita sanguinante della sua sofferenza, di colpo, insperatamente, mi fece vergognare del mio dolore degli ultimi mesi, di quella giornata sovratono di irrealtà. Sentii la stanza che tornava in ordine, la casa che saldava insieme i suoi spazi, la solidità del pavimento, il giorno caldo che si distendeva su ogni cosa, una colla trasparente.
Come avevo potuto lasciarmi andare a quel modo, disintegrare così i miei sensi, il senso dello stare in vita. (p. 163)

I momenti decisivi della saldatura degli oggetti, degli spazi, rimandano a una più intima e sofferta ricomposizione degli affetti, a una, finalmente serena, riappropriazione dell’identità smarrita.

Nelle pagine conclusive del romanzo, anche il rapporto controverso con Carrano, il musicista, vicino di casa, cui Olga si era inizialmente avvicinata spinta da una quasi morbosa curiosità, e a cui era quindi rimasta legata da un contrastante sentimento di attrazione e repulsione, trova un esito assolutamente felice. Infatti, mentre nei giorni difficili dell’abbandono, la protagonista aveva vissuto il sigillarsi del suo incontro con Carrano nella meccanica fredda di un amplesso meschino e ridicolo, ora, nel momento della definitiva riacquisizione di se stessa, ella si ritrova, più serenamente, a valutare la prospettiva di una nuova vita insieme a lui, a calcolare con fiducia – ma pure con più smagata consapevolezza – le dinamiche ineffabili che presiedono alla costruzione di un amore:

Mi abbracciò, mi tenne stretta per un po’ accanto a lui, senza dire una parola. Stava cercando di comunicarmi in silenzio che lui sapeva, per un dono misterioso, irrobustire il senso, inventare un sentimento di pienezza e di gioia. Finsi di credergli e perciò ci amammo a lungo, nei giorni e nei mesi a venire, quietamente. (p. 211)

Con I giorni dell’abbandono, Elena Ferrante ha scritto, in tempi in cui l’assillo, il precipitare degli eventi, ci inducono a privilegiare l’interrogazione sui destini collettivi, un romanzo intimo, introverso, privatissimo, che ci costringe a riscoprire le ragioni, il significato, l’importanza autentica del destino individuale.

giugno 2005

Elena Ferrante, I giorni dell’abbandono
Edizioni E/O, 2002

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