(SIMONE GATTO)
Dopo la pubblicazione nelle edizioni del «Manifesto», nel 1985, del fortunato Ex cattedra, l’esordio di Domenico Starnone nel romanzo viene cronologicamente a coincidere con il volgere del decennio che, in Italia, aveva segnato una generale ripresa della narrativa. Ma se nelle sue manifestazioni più eclatanti e fortunate questo riscatto del romanzo aveva spesso finito con l’accompagnarsi a troppo consapevoli e virtuosistiche prove di ingegneria narrativa, si può invece sottolineare come con Il salto con le aste Starnone tentasse piuttosto di guadagnare il versante di un romanzesco ‘puro’, ‘spontaneo’, sostanzialmente estraneo ai calcolati processi di reazione a freddo delle officine narratologiche.
Non può, del resto, considerarsi priva di significato la circostanza che lo scrittore napoletano abbia dovuto attendere ben oltre i quarantanni prima di pubblicare, quasi che solo dentro il rinnovato clima degli anni Ottanta, egli avesse avvertito il profilarsi di una stagione favorevole alla sua idea di scrittura. Così come non è, probabilmente, senza ragione che il motivo narrativo degli esordi sia centrale nella trama del Salto con le aste e nella successiva produzione starnoniana, dove torna ad essere declinato con ricorrenza ossessiva fino agli esiti recenti di Labilità (2005).
Le aste cui si fa riferimento nel titolo sono i segni grafici con cui i bambini realizzano il loro apprendistato alla scrittura, il quotidiano allenamento all’alfabeto; per i due protagonisti del romanzo, l’io-narrante e il suo migliore amico, Michele Astarita, sono gli strumenti per «saltare» dalla realtà meschina e degradata che è loro toccata in sorte in un mondo di parole gentili e misurate, fatto di individui assennati e ben educati.
Assediati da parenti iloti, padri maneschi e compagnie violente, infatti, essi guardano alla scrittura come a una preziosa occasione di fuga, a una possibilità di riscatto sociale che li liberi dal soffocante abbraccio di una Napoli proletaria: con il suo dialetto fatto di inflessioni aggressive, toni violenti e dittonghi sguaiati, la città, non è semplicemente la quinta che fa da sfondo alle vicende, ma una coltre soffocante che si posa sulle persone e sui loro destini trasferendovi il suo grado di opacità. Sottrarsi a quel mondo, lasciarselo alle spalle, equivale per i protagonisti a conquistare la formula segreta in grado di trasformare i segni in scrittura, di neutralizzare il disordine del mondo dentro la sequenza ordinata dell’alfabeto:
Volevamo lasciare il mondo analfabeta in cui eravamo nati […]. Avevamo imparato tutto quello che capitava frettolosamente, da soli, con un’unica ossessione in mente: saltare in un mondo di gentilezze e cortesie ben formulate, dove eravamo perfettamente a nostro agio, non si soffriva nemmeno un po’ per la malvagità di pochi, nessuno ci faceva sentire inferiori, ogni parola era misurata (p. 24).
Ora, mentre per il più disincantato io-narrante questi propositi finiscono presto per dover fare i conti con l’assai prosaica prospettiva del reale, per Michele, invece, il sogno del riscatto attraverso la letteratura non pare infrangersi neppure di fronte al grado d’inerzia presente nelle cose, alla cruda materialità del mondo. Alle prese con un inesauribile esercizio di letteraturizzazione di tutte le esperienze, dalle più sublimi alle più ordinarie, egli non si stanca mai di procedere nella sua ostinata opera di trasfigurazione della realtà.
Quindi, con scatto comico quanto inatteso, privo all’apparenza di qualsiasi spiegazione razionale, egli individua in Calvino il suo ideale modello di riferimento: ad attrarlo in lui, ancor prima del valore e delle qualità della scrittura, sono infatti le pose ironiche e consapevoli che il narratore ligure sa consegnare alle foto pubblicate sulle quarte di copertina dei suoi libri, il sorriso largo e franco che riesce a dargli l’aria di sodale prossimo e possibile:
Fu alla fine degli anni ’50 che Michele scoprì l’esistenza di Calvino. La prima volta lo intravedemmo appena: distante, era lì a quattro passi come la statua di un santo taumaturgo che non si fa in tempo a toccare. Fu una gran delusione, ma Michele si appassionò a lui ugualmente, anche se non ne aveva mai letto una riga. Era il primo scrittore che vedeva e se ne invaghì come ci si invaghisce della mamma.
Poi ebbe modo di osservarlo meglio, su un libro in vetrina, e scoprì che questo Calvino rideva. Sembrava un giovanotto allegro, d’ampia fronte, scarno e spigoloso, con una bella risata senza artificio. Io gli dicevo: “Somiglia a Walter Chiari”, ma lui mi rispondeva: “Non capisci niente”. E provava a ridere allo stesso modo, senza motivo, come uno scemo.
[…] Imparò che questo scrittore se la sapeva spassare. Saliva sugli alberi, viaggiava, parlava di una cosa che si chiamava bitgenerèscion.
“Presto o tardi diventeremo così” mi assicurò agganciando gli indici per indicarmi che tra loro sarebbe nato un legame indissolubile (p. 11).
Quando, però, Michele decide di inviare a Calvino un racconto per averne un giudizio, lo scrittore affida le sue impressioni di lettore a un troppo smilzo e poco incoraggiante biglietto di risposta. Anna, la moglie di Michele, dopo avere intercettato la busta che lo contiene, si vede costretta a nasconderlo per evitare al marito una sicura e avvilente delusione.
È, a questo punto, che dalla complice collaborazione di Anna e dell’io-narrante, nasce la ben più lusinghiera lettera apocrifa che Michele si troverà a ricevere in luogo dell’originale biglietto calviniano, e dalla quale finiranno per essere condizionati i destini futuri dei protagonisti.
Nella Fondazione dagli incerti finanziamenti dove a distanza di anni Michele lavora, infatti, è stata a lui affidata la direzione di un bollettino: è alle sue pagine che, per riscattare un credito personale pericolosamente in ribasso, egli intende affidare, con la lettera, la prova inoppugnabile del suo nobile trascorso di letterato. È questa la circostanza, che a distanza di tempo, costringerà tutti i protagonisti della storia a confrontarsi con il loro passato per misurare con i diversi percorsi delle loro esistenze, le incomprensioni, i piccoli equivoci, le ingenue zone di silenzio che le hanno condizionate.
In un romanzo orchestrato facendo ricorso a tutte le risorse del narratore ispirato, Starnone attraversa, dopo il decennio Cinquanta, anche gli anni Sessanta e Settanta, consegnandoci il profilo ironico e compassionevole della sua generazione; arricchisce la trama del racconto di un numero notevole di personaggi assai riusciti (Olga, Loretta, Cristina, Liverano), dai tic spassosi e inconfondibili, e intreccia in brevi quadri narrativi le loro vicende a quelle dei protagonisti.
Con una scrittura veloce che procede per accumulo di dettagli, e un dialogato fitto, ritmato, lo scrittore campano conferisce alla narrazione un andamento sostenuto in cui si alternano registri diversi. Delineando, infine, situazioni di vera comicità e lasciandole attraversare da un senso sottile di malinconia, egli affida la costruzione del racconto a una lingua media e a una prosa cristallina e trasparente che esaltano, in omaggio a Calvino, le virtù capitali della chiarezza e della leggerezza.
3 novembre 2006