(di CLAUDIA CARMINA)
“Quando ho soltanto intorno ad un argomento qualche dato, cerco di costruire con l’aiuto di questo, tutto il resto, pressappoco come Cuvier, che con un osso metteva insieme uno scheletro”. Così scriveva De Roberto in una lettera a Ferdinando De Giorgi del 15 settembre 1889, ed un’analoga istanza indiziaria è intenzionalmente sottesa alla strategia narrativa adottata da Melania Mazzucco nella composizione del suo primo romanzo, Il bacio della Medusa, pubblicato da Baldini&Castoldi nel ’96.
Infatti, proprio a partire dall’investigazione del dato minimo, dall’inchiesta sul dettaglio apparentemente trascurabile, eppur significativo, sfuggito, quasi inopinatamente, alla trama slabbrata delle tassonomie storiografiche, si sviluppa la quête romanzesca della Mazzucco, il cui metodo di inveramento inventivo e di integrazione fantastica, ma sempre verisimile, dell’accadimento cronachistico viene dichiarato apertis verbis sin dalle prime pagine del libro. Qui l’autrice, assimilando l’operare dello scrittore alla pratica del metereologo e del fotografo, afferma senza esitazioni che compito del narratore è quello di ricreare “tracciati partendo da un dato, un segno, un’idea, lottando coi fatti”, se necessario, costringendoli a rivelarsi, anatomizzando “le frattaglie dell’esistenza alla ricerca delle invarianti cicliche del Tempo” (pag. 10). Recuperando l’ “ironia metereologica” (Raimondi) dell’incipit dell’Uomo senza qualità, Il bacio della Medusa si apre sulla registrazione dell’andatura delle precipitazioni sui rilievi alpini in un inverno del 1905. Ed il rilevamento meteorologico non si esaurisce in un’innocente gioco enumerativo, giacché la decodifica delle campionature e dei cataloghi relativi ai fenomeni atmosferici subito si rovescia nella decifrazione e nella reinvenzione di un’epoca ed induce in chi scrive “lo stesso sgomento che attanaglia quando si contempla una pagina bianca che ci invita, ci chiama e insieme ci esclude” (pag. 9). Se dunque il romanzo prende avvio dalla descrizione di una pagina vuota, bianca come la coltre di neve che ricopriva le Alpi nel 1905, l’explicit, in antimonica simmetria, dà spazio ad una messa in scena della saturazione della scrittura, ad un accumulo calligrafico.
Così la morte – presumibile – dell’eroina, o comunque il dileguarsi dall’orizzonte percettivo del lettore della protagonista, che arranca a fatica sul passo innevato, si condensa in un’ultima e, questa volta, definitiva anamorfosi metaletteraria. Nella chiusa dell’opera, difatti, la vastità gelida e alpina dello sfondo romanzesco si riflette e si converte, per slittamento analogico, nello spazio speculare e ormai sovraccarico della scrittura, tant’è che la soglia dello scrivere viene a coincidere con l’estremo margine del vivere: “E poi apre gli occhi, il bianco diventa inchiostro, il nero dilaga ed è tutto finito” (pag. 507).
Tra l’uno e l’altro estremo della narrazione, si consuma la vicenda dolente di Norma e del suo amore travolgente, vitale, e tuttavia morboso, per la giovane Medusa. Nel tentativo di seguire le parabole, diverse ma comunque complementari, tracciate dai percorsi di vita delle due donne, la scrittura della Mazzucco, a sua volta, si sdoppia, si alimenta di antitesi e di contrasti, avanza tra improvvise accelerazioni e non meno sorprendenti rallentamenti del ritmo narrativo, in una continua metamorfosi dei toni e in un vorticoso mutare degli scenari del racconto. Di conseguenza, la struttura del libro, alla stregua di una stridente sinfonia, si frammenta in tre parti, ciascuna delle quali è, al suo interno, ulteriormente suddivisa in “movimenti”; di più, la conclusione stessa della fabula subisce un processo di parcellizzazione e di moltiplicazione, fino a scindersi in tre diversi possibili finali, tutti parimenti verisimili e, al contempo, ugualmente inattendibili.
Al frantumarsi delle unità di tempo e di luogo nella scena narrativa, che viene tripartita tra la Francia, Torino e l’esilio di Bersezio, corrisponde il variare della pronuncia stilistica. Ad esempio, in concomitanza con il passaggio tra il primo e il secondo movimento della parte prima, la scrittura abbandona le movenze liberty e patinate adottate nella descrizione del fidanzamento e poi del matrimonio di Norma con l’aristocratico narcisista Felice Argentero. Con un improvviso scarto tonale, la pagina si surriscalda e dà spazio all’inedito piglio stilistico, vigoroso e crudamente veristico, con cui viene raccontata l’avventura della piccola Medusa, venduta dai genitori a Peru, pedofilo e sfruttatore, e da questi trascinata tra le vie colorate della Costa Azzurra.
“Il resto è ciò che accade”, come recita un verso composto da Norma che significativamente fa da titolo al terzo movimento della parte seconda: dopo inaspettati avvicinamenti e casuali convergenze di rotta, le strade parallele di Norma e Medusa finalmente s’incrociano e le fila divaricate del romanzo si allacciano intessendo, così, una melodrammatica tramatura di amore e morte.
Una scrittura incandescente pedina da presso i personaggi, scruta e indaga l’accendersi della passione che travolge, con la sua verità, l’ipocrisia del mondo degli Argentero. Inoltre, all’esplodere della passione e al surriscaldarsi dell’intreccio si combina e si sovrappone la deflagrazione della scrittura, che si inarca nello sforzo di dar voce allo scandalo, infrange la barriera del naturalismo e si accresce di innesti, contaminado la forma romanzo attraverso l’immissione di brani poetici, pagine di diario, referti medico-legali e perizie psicanalitiche. In accordo con l’intensificarsi dello stile e nel continuo variare degli spazi scenici, anche il tempo romanzesco accelera bruscamente e precipita nel momento cruciale dell’omicidio di Norma. La donna infatti viene brutalmente uccisa dal marito, in una sequenza frenetica, cadenzata dal martellare delle anafore, che valgono a scandire la progressione dell’azione ed il parallelo intensificarsi della suspence narrativa. Ma si tratta – vale la pena di ripeterlo – solo di uno dei possibili finali del libro, cui immediatamente la Mazzucco fa seguire un “controromanzo” che prospetta una pluralità di scioglimenti alternativi della trama.
Il bailamme vertiginoso di temi, luoghi e personaggi, che connota la fiction romanzesca, sembra acquietarsi solo per un attimo e raggiungere un equilibrio, pur sempre precario, nella scena veramente centrale della gita di Norma e Medusa ad un anfiteatro abbandonato che diventa il “centro del centro”, lo spazio simbolico in cui si raccolgono le disiecta membra dell’intreccio, il “punto nel quale la forza centripeta annichilisce la fuga delle cose”, “l’attimo vero cui tutto franava, l’apice più alto della curva” (p. 362). Soltanto in questo tempo senza tempo, in questo limbo sospeso e come pietrificato dallo sguardo accecato di Medusa, le due donne dai nomi parlanti riescono a sfuggire alle pressioni del mondo esterno, a scardinare, per l’appunto, ogni ‘norma’ e ad accedere così alla “vita vera”. Soltanto in questa circostanziata occasione, dunque, l’estenuazione di Norma, figura di donna intellettuale e scrittrice mancata, il suo pallore, il suo garbo, la sua malattia vengono bilanciate e trovano un necessario completamento nella vitalità popolare, nella violenza ferina della bruna Medusa.
Alla voracità del gesto scrittorio della Mazzucco, all’ebbrezza e alla gioia del raccontare, che rendono Il bacio della Medusa un’opera intensa ed una riuscita prova narrativa, fanno tuttavia da contrappeso una forse sovrabbondante compromissione della scrittrice nei riguardi della materia narrata, una certa ridondanza di effetti e finanche un eccesso di pianificazione e di progettazione nel montaggio dei materiali romanzeschi. Allo stesso modo, le allusioni mitologiche, marcate dall’epigrafe dantesca tratta dal nono canto dell’Inferno e dal paratesto nella sua interezza, seppur certamente suggestive, rischiano però di risultare invasive e di rendere troppo esibito il gioco metaletterario.
Il bacio della Medusa resta comunque un romanzo estremamente leggibile ed appassionante, ed è davvero sorprendente la maestria formale con cui l’autrice compone le prime e più felici pagine del romanzo, dove si dà spazio alla descrizione della fotografia scattata il giorno del matrimonio di Norma: dietro le sagome immobili e i volti compunti degli Argentero s’intravede, per una strana combinazione del destino, il viso sporco e vivace di una bambina del popolo.
Non è in posa: anzi, al momento dello scatto deve essersi mossa e viene colta in un gesto qualunque che mantiene la naturalezza prodigiosa delle istantanee rubate all’insaputa dei protagonisti. Guarda in basso, alla sua sinistra; ha un braccio levato, forse sta chiamando qualcuno, comunque non sembra accorgersi della messinscena e la annulla. Il gesto imprevedibile della bambina rovescia il significato della composizione e tradisce la forzata immobilità degli altri […]. Si ha come l’impressione che il suo dito sia puntato (forse, maleducata, indicava) verso la sposa, e che la sposa, voltata casualmente verso di lei, la stia guardando – o meglio che si stiano guardando.
Nell’attimo bloccato dallo scatto del fotografo, che inquadra il gesto della bambina e lo sguardo furtivo della sposa, è fatalmente inscritto tutto il futuro di Norma, che non può restare indenne di fronte allo sguardo della medusa, “che se’l Gorgon si mostra e tu’l vedessi nulla / sarebbe di tornar mai suso”.
aprile 2004