Lug 01

Le scarpe di Polifemo

( di DONATELLA LA MONACA)

C’era questo bambino enorme. Se sicuramente aveva un nome, l’avevano scordato tutti per sempre quando Pinuccio tornò trafelato da una lezione d’Omero per annunciare: -Polifemo!

Si modula sui toni dell’affabulazione fiabesca l’incipit del racconto che Roberto Alajmo elegge ad emblema della raccolta edita da Feltrinelli nel 1998, Le scarpe di Polifemo e altre storie siciliane.

Si addensa intorno allo scarto tra la monumentalità deformata delle proporzioni fisiche dello sventurato protagonista e la condizione minima, anzi infima, della sua squallida quotidianità, la prosaica epopea dei personaggi, inverosimili e verissimi, che si avvicendano in queste pagine. “Vere vite vissute” di ordinaria mediocrità si snodano infatti nell’omonima prima parte in cui è articolato il volume: gli ultimi guizzi di attività del vecchio borseggiatore palermitano, Lorenzo Basta, la strenua battaglia legale delle sorelle Testaverde contro la voracità mafiosa dell’abusivismo edilizio, il raptus di patetica insubordinazione del fattorino precario Picciòlo ad un sistema inveterato di umilianti provocazioni.

Ruotano invece intorno alla pornografia, alla sessualità mercenenaria come metafora tragicomica del ‘vuoto’ esistenziale, le vicissitudini del deforme Polifemo e del portinaio Rosario, vittime di una segregazione affettiva e relazionale violata soltanto dalla frequentazione di travestiti e prostitute o, nel caso del custode, dalla passione clandestina per il videonoleggio a luci rosse.

Si coagula nella ricerca del ‘piacere’ proibito un coacervo contraddittorio di tensioni opposte: fame compensatoria alla desolazione interiore e ribellione velleitaria all’asfissia della opaca, prevedivile routine quotidiana. Talvolta, infatti, la seduzione di terz’ordine è solo un espediente per imprimere almeno uno sprazzo di trasgressività al copione ormai consunto di esistenze già segnate. E’ una sorta di ‘carriola’ pirandelliana per prigionieri di trappole sociali inamovibili, come il trentaseienne Maresca, esemplare prototipico del borghese medio ‘perbene’, colto dallo scrittore mentre si destreggia in acrobatiche manovre per occultare alla giovane, attraente compagna di scuola incontrata per caso dopo anni, l’acquisto infamante di una davvero poco peccaminosa rivista pornografica.

Assecondando il piglio agrodolce di chi attraversa le miserie umane con lucido disincanto senza indulgere a compromissioni retoriche, tenendo vigile la tensione critica, la voce narrante scorta il lettore tra le mura di Villa Rosalma, “l’ospedale geriatrico in via di smantellamento” all’interno del quale si consumano gli ultimi giorni di tre anziane degenti. Prende corpo nei racconti minuziosamente dedicati ai tre ‘epiloghi’, il dramma dell’abbandono, della solitudine che costituisce l’unica norma di vita per le “tre superstiti ricoverate”.

Identificate solo dal cognome, Roccasecca, Alluisi e Richichi hanno creato intorno a sé un mondo alternativo fatto di piccole manie, ossessioni, futilità con cui riempiono gli istanti interminabili delle rispettive agonie. Ed è centellinando ogni singolo momento di cui si compone il fatale percorso dei personaggi che la scrittura di Alajmo si carica di surreale referenzialità, culminando nella mimesi della scorribanda con cui il “grumo di grasso”, responsabile della morte fulminante di Alluisi, viaggia inesorabile attraverso il reticolo intricato del suo sistema circolatorio. Una digressione visionaria giocata senza scosse tonali o virtuosismi stilistici, bensì nella più piana, paradossale ‘normalità’:

“Nello stesso preciso istante in cui Alluisi superò la soglia della porta, il grumo di zucchero e grasso fece il suo ingresso nel sistema circolatorio. Fu un momento molto confuso. Il grumo sentì una specie di aspirazione, un gran rutilare di elementi intorno a lui, poi una sospensione e infine un fluire più costante e sereno. Il tutto in meno di un secondo. […] Bastò provare a fermarsi un istante e subito gli arrivò addosso una valanga di piastrine e globuli e chissà che altro. Nel sistema circolatorio di Alluisi si procedeva molto rapidamente come a strappi.[…] Ogni tanto succedeva che qualche piccolissimo atomo di grasso e di zucchero che già si trovava in circolazione da chissà quanto tempo, finiva per aggregarsi a lui…Al terzo passo di Alluisi nel corridoio, il grumo si trovò più o meno all’altezza dell’ombelico. Il centro praticamente del corpo. I vasi che attraversava erano belli larghi e facilmente percorribili in un allegro flusso di globuli bianchi e rossi, piastrine e altro materiale che si trovava in circolo” (pp.143-145)

Sia che si tratti degli ultimi istanti di vita di una donna anziana e malata, come migliaia ne esistono nei ricoveri che popolano le topografie urbane contemporanee, o che si ricostruiscano i momenti conclusivi che separano i passeggeri di un aereo dallo schianto, è sempre della ‘cronaca’ che si nutre la scrittura di Alajmo e da essa attinge per ispessirsi in invenzione.

Sui destini fatalmente affini che segnano le sorti del passeggero Pavone Carlo e del passeggero Cravotta Giuseppe, entrambi diversamente superstiti del tragico volo AZ4128, si snodano i due racconti che chiudono la raccolta. Un dittico simbolico vita-morte, giocato sul filo esile della più pura casualità, che si configura come il palinsesto del successivo romanzo Notizia del disastro in cui la vicenda del DC9 precipitato nel 1978 nel mare di Punta Raisi si amplifica in ogni risvolto. Qui, la misura ‘breve’ del racconto consente di accostare in controcanto il ‘folle volo’ verso la morte di Pavone Carlo e la sua prodigiosa sopravvivenza con il folle delirio di Cravotta Giuseppe che, mai imbarcatosi su quell’aereo, si finge superstite del disastro per conquistare alla sua vita spenta un’impennata insperata di notorietà. L’intera tessitura narrativa dei due episodi, in particolare il resoconto inventivo dell’inabissamento del velivolo, scandito nel suo ‘divenire’ con una tecnica da rallenty cinematografico, si rivela esemplare della qualità stilistica della pagina di Roberto Alajmo.

L’elemento strutturante della sua scrittura è l’insistita, peculiare descrittività che pur doviziosamente aderente alla concretezza delle ‘cose’, si evolve in una costante, serrata auscultazione dei risvolti psicologici ed emotivi legati agli eventi narrati. Ci si trova dinanzi ad una sorta di verghiano artificio della regressione, nel senso che la voce narrante si eclissa sino a mimetizzarsi nella realtà narrata fingendo di assumerne, almeno in apparenza, la stessa prospettiva giudicante. Di fatto è proprio agli esiti di paradossale straniamento, che si generano dalla collisione tra l’anomalia degli eventi narrati e l’ostentata normalità del piano narrativo, che lo scrittore affida la vera chiave di lettura, disincantata e amara, di certe realtà umane e sociali in evidente degrado etico-morale.

Si realizza un effetto di integrata estraneità per cui quanto più gli ingranaggi espositivi appaiono referenziali, più il tono sfiora l’irriverenza ironica, tanto più il lettore riceve sollecitazioni ad acuire la vigilanza interpretativa, a ripristinare la corretta proporzione tra gli eventi. Così accade che il dramma vissuto da Carlo Pavone, “passeggero vittima probabile di un disastro aereo”, pur narrato con l’esorcistico distacco, persino irridente, di chi avverte in pieno tutta la precarietà dei destini umani, mantiene alta la tensione tragica. Un apologo giocato sul confine tra la riflessione esistenziale sull’imponderabilità della sorte e l’indagine giornalistica che schiude il suo sguardo critico sulle inadempienze e le presunte irregolarità istituzionali, sulle modalità dei soccorsi e sulle disfunzioni nell’assistenza ai sopravvissuti. Realtà e finzione, cronaca e narrazione si fondono nell’esercizio strenuo dello stile, nella tensione conoscitiva della letteratura.

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