“Quand che parlèva, / e’ parlèva ad scatt, / tott un brandèll / da in chèva fina i pi, / se brètt cun la visira arvòlta indri, / che l’era avstéid da chéursa / Silvio e’ matt”. Si tratta dell’inconfondibile pronuncia romagnola di Tonino Guerra, poeta sulla pagina e insieme sulla pellicola, autore del Viaggio e della Capanna. Poeta dialettale, ma, ben inteso, di un dialetto che sa come diventare lingua. Una lingua non abusata, che consente di dire cose che in italiano penosamente si sgonfiano, quasi si disintegrano. Come nel caso dei versi in questione: “Quando parlava, parlava di scatto, tutto un brandello da capo a piedi, e il berretto con la visiera voltata indietro, ch’era vestito da corsa Silvio il matto”.
Le pagine di Guerra, quelle delle raccolte poetiche e quelle dei romanzi, sono spesso popolate da strambe figure di matti, portatori quasi sempre di una loro mite e disarmante insensatezza. Tutto questo, per dire che messi assieme, gli scritti di Tonino Guerra danno forma a uno stravagante e insieme divertente repertorio dei pazzi, sullo sfondo però di una realtà popolare, di paese, intesa come luogo ai margini della storia. E la forza dei matti di Guerra sta tutta nella velocità, nel cortocircuito linguistico, nel dinamismo della scrittura, nel gioco di assonanze e nel ritmo. Cosa, questa, di non poco conto: anzi, aspetto essenziale, imprescindibile.
Perché quella che potrebbe essere una condizione abnorme del carattere, una situazione parossistica e umorale, diventa inopinato guizzo poetico in virtù di uno scatto linguistico, di una soluzione stilistica azzeccata. Ed è quello che pressappoco succede nel repertorio dei pazzi di Roberto Alajmo, recentemente aggiornato dal suo autore (Nuovo repertorio dei pazzi della città di Palermo, Mondadori, pagine 106, 7 euro). Perché va detto, una volta per tutte, che della stramberia a tutti i costi dei siciliani, della corda pazza di pirandelliana memoria, della loro bizzarria ed eccentricità, ne abbiamo sino al collo. Chi lo ha detto che i siciliani sono (siamo) diversi, stravaganti, insoliti?
Stefano Malatesta, tra gli ultimi, ha dato alle stampe una curiosa raccolta di ventinove storie, dal titolo Il cane che andava per mare e altri eccentrici siciliani (Neri Pozza), le cui pagine introduttive sono a questo proposito un vero e proprio manifesto programmatico:
“Gli italiani non hanno mai avuto fama di essere particolarmente stravaganti. Nel corso dei secoli sono stati definiti con una moltitudine di luoghi comuni: geniali, trasformisti, menefreghisti, artisti, estroversi, simpatici, brava gente, impareggiabili amatori e attori nati, anarchici e poco osservanti delle leggi, straordinari nelle avversità e deludenti nel benessere, traditori, poco affidabili, mandolinari e tutto il resto. Nessuno ha mai pensato di chiamarli eccentrici, con una sola eccezione in un paese eccessivamente dedito al realismo mediocre e al buon senso cinico: i siciliani sono gli unici eccentrici italiani. E la differenza starebbe in quella forma mentale che si chiama insularità, un atteggiamento dello spirito, un carattere, un modo di vedere le cose per estremi, prima ancora di essere un dato geografico.”
Proviamo per un attimo a spostare il nostro sguardo, dalla Sicilia, o nella fattispecie da Palermo, verso l’Inghilterra: lì i pazzi quasi li vendono nei supermercati. C’è sempre stata, in Inghilterra, una follia invasiva, endemica, da mettere in scacco almeno i siciliani di cinque generazioni. Per averne conferma, basta sfogliare il celebre libro della poetessa Edith Sitwell Eccentrici inglesi: uno straordinario repertorio di stravaganti britannici, per lo più di estrazione nobiliare. Per non parlare poi dell’Irlanda, fucina senza fondo di folli e strambi.
Ma torniamo al repertorio di Alajmo, mettendo da parte qualsiasi lente sociologica e antropologica, per concentrarci esclusivamente sulla pagina dello scrittore palermitano, sulle sue capacità rappresentative e rabdomantiche. Perché lì, per dirla con Goethe, è la chiave di tutto. Se no, dei pazzi di Alajmo non sapremmo davvero cosa farne. E forse questo elemento di non poca importanza è sfuggito all’attenzione di Andrea Di Consoli, il quale su “Stilos” di martedì 11 gennaio 2005, recensendo il libretto di Alajmo, ha tirato fuori alcune lagne di ordine moralistico sull’uso improprio fatto dall’autore di Cuore di madre dei poveri dementi panormiti.
Sulla ridicolizzazione attuata da Alajmo, ai danni dei suoi folli, inermi e inconsapevoli. “Qual era il progetto di Alajmo nel momento in cui ha scritto questo libro? Quale visione del mondo esprime?”. Questi interrogativi radicali, mossi da Di Consoli, ci sembrano un tantino fuori luogo. Invece che impantanarsi in seriose e paludate elucubrazioni, che investono i massimi sistemi, occorre invece individuare il passo narrativo di Alajmo, la sua strategia di scrittura, e di conseguenza capire in che modo e a che punto scatta la risata, e se a un certo momento non entra in gioco la compassione, il sentimento del contrario.
Innanzitutto va detto che, in questo nuovo repertorio, il primo pazzo della serie è proprio lui, l’autore, come si apprende dall’incipit: “Uno faceva collezione di storie eccentriche. Ne trovò una e la mise da parte. Poi ne trovò un’altra, e così via. Quando ne raccolse un certo numero, ne fece un libro. Ma l’uscita del libro fece sì che altre persone venissero a raccontargli le storie che conoscevano. Fu così che il collezionista ne ebbe presto parecchie altre”. Ora, questo primo stralcio dà la misura dello stile di Alajmo, della sua trovata narrativa, che sembra procedere seguendo lo schema del sillogismo aristotelico, ossia di quella forma di argomentazione logica nella quale, a partire da due proposizioni, o premesse, si trae necessariamente una conclusione. Fu proprio Aristotele a evidenziare, del sillogismo appunto, il carattere di deduzione necessaria. Esso consiste di due premesse e una conclusione nelle quali entrano in gioco tre termini; nelle due premesse è presente un termine medio che consente di connettere fra loro gli altri due termini.
Così accade nella maggior parte dei brevissimi, fulminei ritratti di Alajmo: “Uno aveva un negozio di videocassette ma odiava i clienti. Vendeva e affittava, ma solo i film che piacevano a lui: film d’autore o cassette porno, sulle quali sapeva dare consigli. Se il cliente insisteva per una via di mezzo, magari un filmetto da vedere il sabato sera in famiglia, veniva cacciato fuori dal negozio”. Ancora: “Una giovane con la faccia impeciata di rossetto entrava nei negozi di ogni tipo chiedendo: “Che fa, avete rossetto?”. Le rispondevano sempre di no, tanto che una volta perse la pazienza e sfasciò un negozio a colpi di ombrello”. E poi: “Uno lasciava la domenica, prima di ogni partita, un’immaginetta sacra sul cancello della villa dove abitava Barbera. L’aveva fatto una volta e il presedente gli aveva dato mille lire. Da allora in poi era tornato ogni settimana, anche quando la squadra giocava in trasferta”. E così via.
Siamo in presenza, dunque, di una logica dell’assurdo che, grazie alla penna al vetriolo di Alajmo, nuovo e bizzarro Plutarco dell’incongruo, diventa una sorta di cannocchiale rovesciato, attraverso il quale osservare una città, Palermo, teatro di stralunate avventure, palcoscenico di epopee quotidiane capovolte e insignificanti.
Una Palermo riconoscibilissima, più vera della città che noi tutti conosciamo. In cui l’allucinazione è quasi sempre il frutto di una deduzione contraddittoria e inammissibile.