Lug 06

“Palermo è una cipolla” di Roberto Alajmo

(di SIMONE GATTO)

Dopo che con il romanzo Cuore di madre (2003), e con le atipiche imprese classificatorie dell’Almanacco siciliano delle morti presunte (1997) e del Nuovo repertorio dei pazzi della città di Palermo (2004), Alajmo aveva provveduto a rilevare, dell’Isola e della sua città capoluogo, la peculiare dimensione antropologica, con Palermo è una cipolla (2005), lo scrittore e giornalista siciliano è giunto ad offrire della sua città una guida puntuale ed originale che, lontano dal presentarsi semplicemente come mappa o come itinerario alla scoperta dei principali luoghi cittadini, è prima di tutto un personale quanto intelligente contributo alla figurazione del suo volto più autentico.

Prendendo le mosse dall’invito rivolto dall’editore Laterza, a un gruppo di giovano scrittori italiani, perché si cimentassero nella non facile impresa di raccontare ciascuno la propria città (Aldo Nove, Milano non è Milano; Emanuele Trevi, Senza verso. Un’estate a Roma; Giuseppe Culicchia, Torino è casa mia), la guida a Palermo redatta da Roberto Alajmo riesce felicemente a coniugare le ragioni della committenza con il percorso di ricerca fino a quel momento intrapreso dal suo autore.

Così, dopo aver esemplarmente provveduto a circoscrivere, con le precedenti prove narrative, il perimetro esterno dell’isola, con questo nuovo libro, Alajmo arriva finalmente a raccontare in maniera più diretta il microcosmo del capoluogo, dal pulsante centro cittadino all’inedita antropologia dei quartieri marginali.

Una ricognizione per la quale lo scrittore palermitano da l’impressione di avere giocato contemporaneamente su due tavoli, considerando che nel mentre procedeva a tracciare i percorsi della sua guida, egli era pure impegnato nella scrittura del romanzo È stato il figlio (2005), con evidente catabasi, anche in questo caso, nel cuore di tenebra dei quartieri popolari. È alla Kalsa, infatti, nel quartiere di origine araba descritto nel penultimo e più denso capitolo di Palermo è una cipolla, che viene ambientato anche l’anticonvenzionale giallo dello stesso anno.

«La Città è alla Kalsa, e alla Kalsa tende sempre a tornare» (p. 107), è così, potrebbe pure dirsi di Alajmo, scrittore ossessionato dai motivi narrativi della morte e del disastro, che anche in questa guida paiono ciclicamente ripresentarsi a partire da alcune emblematiche figurazioni della città:

Per quanto cinico possa sembrare, buona parte del fascino della Kalsa – e della Città, in generale – sembra consistere nella sua disperazione. La sua migliore risorsa è il disastro […] Per molti versi la Kalsa è una metafora della città nel suo complesso. Qui si riconoscono tutte le sue contraddizioni. È una zona ad altissima densità mafiosa. Eppure in questo quartiere sono nati Falcone e Borsellino, che da piccoli hanno giocato a pallone nell’immenso campo costituito da piazza Magione. (p. 107)

Tra i capitoli del libro, il quarto, La morte non è poi così brutta come la si dipinge, è evidentemente dedicato al tema della morte. L’autore lo declina con ironia, e si sofferma sul rapporto che i siciliani vi intrattengono:

Le manifestazioni del lutto stretto e recente sono sempre tragiche e ostentate, come da copione meridionale. Tuttavia non appena il lutto si fa meno stringente affiora una vena di umorismo nero. Sui morti si scherza per esorcizzare la morte stessa.
[…] Come nella Macondo immaginata da Garzía Márquez, nella Città i morti sono morti solo fino a un certo punto. Interagiscono coi vivi, si presentano quando serve a dispensare giudizi e consigli. Ingeriscono nella vita di famiglia per dire la loro. I contatti vengono tenuti anche attraverso i moribondi; Leonardo Sciascia raccontava di un anziano parente agonizzante e consapevole di esserlo, attorno al quale parenti e amici si stringevano senza scrupoli per raccomandarsi di trasmettere messaggi di saluto ai congiunti trapassati. All’ennesima richiesta, il moribondo ebbe un moto di desolazione:
– Per favore, scrivetemeli su un foglietto tutti’sti cose, ché sennò me li scordo. (pp. 47-50)

Nei dieci capitoli che compongono la guida, Alajmo attraversa dunque i luoghi, la storia, i costumi e le tradizioni della città, riporta credenze e demistifica luoghi comuni, provando ogni volta a restituire di Palermo un volto non convenzionale, non scontato, lontano dalle semplificazioni e dalle banalità che l’informazione di massa ci ha spesso consegnato. A partire da uno spirito speculativo che sa nutrirsi del paradosso, va sottolineato, come non siano poche le frecce che egli mette a disposizione dell’arco della sua scrittura. Così a pagine in cui si manifesta, con uno spirito caustico e un’ironia tagliente, una sottile disposizione polemica, se ne accompagnano altre in cui una vivace tensione contestatrice emerge a partire da lucide considerazioni di ordine antropologico e sociale:

[…] gli sguardi della Città hanno qualcosa di diverso da quelli di altrove. Possono al limite somigliare ad altri sguardi che abitano il sud del mondo. Un sud che può essere benissimo anche oriente o occidente, purché si costituisca come periferia rispetto alle grandi capitali e al grande capitale. Gli sguardi della periferia del mondo hanno questo di particolare: esistono e bisogna farci i conti. (p. 58)

Sono un profondo sentimento di rivalsa, e una non rassegnata prospettiva rispetto alle dominanti logiche dell’omologazione globale, a emergere in queste considerazioni. Ed è in virtù di un personalissimo percorso di ricerca stilistica che Alajmo sa fornirne una formalizzazione inedita e originale: avvalendosi di una fortissima disposizione a depurare la lingua dai suoi residui di astrattezza e di indeterminatezza, egli riesce infatti a realizzare, dentro un processo di continua selezione linguistica, un percorso di progressiva acquisizione di senso e di realtà.

About The Author