Complice il dubbio (edito nel 1992 dall’editore Tropea, e divenuto nel 1999 soggetto cinematografico per il film Le complici di Emanuela Piovano) è un giallo, anzi a voler essere più precisi, un “giallo dell’anima” come lo ha definito la regista. Per il genere, quindi, il romanzo si discosta molto dalla tipologia narrativa usualmente adottata da Maria Rosa Cutrufelli affida, ovvero dal romanzo storico o dall’inchiesta.
La vicenda riguarda l’intricato rapporto tra due donne, molto diverse tra loro e, proprio per questo, irrimediabilmente attratte l’una dall’altra: Anna, medico quarantenne, donna borghese e convenzionale, e Marta, ventenne ribelle e spregiudicata.
Legate dalla misteriosa morte di un uomo, che sembrerebbe essersi suicidato davanti agli occhi di Anna, le due donne diventano complici, e questo legame indissolubile si trasforma, quasi inconsapevolmente, in una forte attrazione sessuale, tenacemente rifiutata dalla mente di Anna, quanto cercata dal suo inconscio.
Sospetto e attrazione costituiscono il clima generale della vicenda che, per altro, si svolge tutta in un breve lasso di tempo, in un’atmosfera sospesa e allucinata. Le 142 pagine della narrazione racchiudono, infatti, l’arco temporale di soli cinque giorni e sono, più che una catena di eventi, un susseguirsi di sensazioni, di moti dell’animo, di domande inquietanti che non trovano mai risposta.
Solo nel momento in cui le due donne arrivano a una reciproca confessione sull’accaduto e sui loro sentimenti, si potrebbe pensare a uno svelamento della verità, ma proprio a questo punto, invece che avviarsi verso una conclusione, la narrazione esplode: si aprono una serie di nuovi, inquietanti interrogativi nella mente della protagonista e in quella del lettore. La donna, in un momento di delirio notturno, rivive la notte in casa dell’uomo e capisce di non essere più in grado di ricostruire una verità univoca:
Ma una nuova inquietudine affiorò, minacciosa, terribile. La rivoltella. Dov’era la rivoltella quando lui era caduto? […] Di sicuro l’aveva toccata, la ricordava liscia e fredda al tatto. Ma c’era qualcosa di falso, di sbagliato nel suo ricordo. Si vide seduta sul letto, quell’uomo in piedi davanti a lei mentre le porgeva il minuscolo e sinistro aggeggio, le indicava qualcosa e spiegava con la cocciuta perseveranza degli alcolisti in preda al loro delirio. Anna diceva di no e ancora di no. Quasi con ripugnanza respingeva la rivoltella che lui si ostinava a ficcarle in mano per gioco. Solo per uno stupido, morboso gioco. Alfine cedendo alle sue insistenze l’aveva presa, appena sfiorata. E il colpo era partito. Di schianto.
Lei l’aveva ucciso. Sì questo spiegava tutto. Il tentativo di nascondere agli altri e, prima ancora,a se stessa…[…] Ma la verità possedeva sfumature ancora più vaghe ed evanescenti. […]
Poteva essere vero. C’era una possibilità che lo fosse. Ma poteva essere vero anche il contrario. Lei non era più in grado di dirlo. Era allucinazione quella certezza profonda di innocenza, e realtà quel tormento che si poteva spiegare solo con la colpa? Oppure era reale la sua innocenza, mentre la colpa che la torturava era ancora altro, un fantasma senza nome? (pp. 119-120).
Qui il lettore è chiamato in causa, si trova invischiato in questo dubbio soffocante e diffuso e deve da solo trovare le risposte che il testo scritto non dà.
Complice il dubbio, nonostante la sua atipicità rispetto alle altre opere della Cutrufelli, esibisce comunque degli elementi riscontrabili anche in altri luoghi della sua produzione; la terza persona qui adoperata dalla narratrice, ad esempio, attraverso un sapiente e ricorrente ricorso all’indiretto libero, in realtà si rivela un espediente per dar voce, ancora una volta, ai pensieri di una donna, alle sue ansie e inquietudini. Operazione che, pur con le dovute differenze, in fondo non si discosta molto da quella attuata nell’ultimo romanzo della scrittrice, La donna che visse che per un sogno, in cui la narrazione risulta tutta filtrata attraverso le varie ottiche femminili in campo.
Ci si imbatte quindi nell’uso di una terza persona ‘fittizia’ la cui voce coincide in tutto e per tutto con quella della protagonista, ne segue minuziosamente i pensieri, li registra quasi meccanicamente in una prosa paratattica e rapida. Una serie di situazioni si susseguono e vengono descritte seguendo il punto di vista esclusivo di Anna, senza nessuna intrusione esterna che ne tenti una razionalizzazione. Non vi è mai uno scarto tra la voce narrante e quella della scrittrice, proprio alla maniera dell’ultimo romanzo. Si legga, a scopo esemplificativo, il passo riportato di seguito:
Anna non riusciva a immaginare per quale maledetta coincidenza si trovasse rinchiusa lì, in quella stanza, proprio con quella ragazza. Ma una spiegazione doveva pur esserci e lei l’avrebbe trovata. Doveva sapere. Una simile coincidenza era e restava inverosimile. […] ma che cosa poteva sapere, in fin dei conti quella ragazza? Quali sospetti poteva nutrire nei suoi confronti E poi, aveva accettato il suo aiuto. Forse per avere più agio di spiarla, di cogliere una sua mossa o un passo falso e dar corpo in questo modo a dei semplici dubbi? Ma se l’aveva spinta verso di lei il sospetto non avrebbe reagito con tanta naturalezza, lasciandosi sopraffare dal sonno…(pp. 28-29).
La Cutrufelli, in tutto il romanzo, adotta uno stile molto sorvegliato, senza alcun cedimento a sperimentalismi linguistici, restando fedele, anche sotto questo aspetto, alla sua cifra stilistica di sempre.
Ma, al di là della resa formale, a rendere coerente questo romanzo con il resto della produzione della scrittrice è proprio il tema centrale, il filo rosso della sua scrittura: il narrare una delle tante ‘vite perdute’, l’esperienza di una donna alle prese con una trasformazione; il romanzo si configura infatti come un percorso di formazione, una ricerca d’identità femminile, in perfetta consonanza con molte altre sue opere.
Maria Rosa Cutrufelli si rivela un’ottima regista di tutta la vicenda, riesce perfettamente a mantenere l’intera narrazione su un piano di estrema tensione. Con un procedere serrato tiene desta l’attenzione, fa crescere l’aspettativa di una qualsiasi risoluzione finale, e, proprio per questo, ancora più accorta si dimostra la scrittrice quando elimina dal suo romanzo qualsiasi conclusione possibile.
Complice il dubbio è, infatti, un romanzo aperto: nelle ultime pagine si assiste alla rivelazione di Anna, a se stessa e a Marta, dei propri sentimenti, ma proprio a questo punto la narrazione si interrompe, un sonno “definitivo” e irresistibile sedurrà la mente spossata delle due donne e lascerà il lettore solo, con le sue domande, davanti alla pagina bianca.
30 Maggio 2005