Le pagine che danno forma al diciassettesimo capitolo di Sgobbo, si aprono con la formula “Si capisce che sono soldati”, che per l’intero brano continuerà a riecheggiare grazie a un procedimento stilistico il cui esito è una ripetitività e una cadenza uniforme quasi da litania.
La descrizione dei soldati ricalca per molti aspetti quella precedente degli ex-detenuti: in entrambe è presentata un’umanità degradata, che ha quasi perso la consapevolezza del suo essere, che trova soddisfazione in maniera infantile negli autoscontri e, animalescamente, nel cibo e nel sesso. Non sono come i padri di famiglia che si vergognano delle loro avventure e che, incrociando Fiona per strada, “non tradiscono nemmeno una smorfia”; ad accomunarli, invece, è una tipica complicità da caserma, fatta di apostrofi per cognome, racconti delle proprie imprese, provocazioni e tafferugli. Sono puerili, e lo dimostra quella maglietta militare con la quale si puliscono la bocca dopo aver mangiato un’arancina, quella maglietta che dovrebbe renderli “più virili”, sostituendo “la canottiera tenera di lana d’ordinanza”.
Sul versante linguistico, questo episodio si presenta caratterizzato dall’intersezione di tre diversi campi lessicali: il lessico venatorio, il lessico militare, il lessico teatrale. Ad apertura infatti, i soldati sono definiti “animali adolescenti da battaglia che fanno le prove nella savana” (pp. 72-73), con una similitudine che si trasformerà nella metafora finale del “sentiero da caccia” dei “civili” (p. 74): per una sorta di “inconscia consapevolezza”, Fiona e le sue colleghe si rendono conto del ruolo di prede loro assegnato nel mercato della carne di cui sono vittime.
Questo è possibile solo grazie ad uno slittamento di piani tra scrittore e protagonista, che permette a quest’ultima di esprimersi in particolari situazioni in una maniera teoricamente non verosimile: è il caso de “la verità vorace della loro fame” (p. 73), “l’apocalisse del loro desiderio” (p. 75), o ancora “la palude delle paure felici dell’infanzia” (p. 78). Inoltre, emerge anche in questo capitolo, come negli altri, l’immagine del palcoscenico sul quale questo “coro tragico” di buttane si trova a recitare. La teatralità dell’azione è resa da un lessico che richiama lo spettacolo: si apre “il sipario della notte”, i soldati siedono “sui muretti da platea”. Ma questo “spettacolo” sarà presto scalzato da una scenografia ancor più maestosa: quella del Festino.
È appunto la trasformazione del “palcoscenico della notte in scenografia di teatro” (p. 76) l’argomento delle prime pagine del diciottesimo capitolo, incentrato sulla festa in onore della Patrona. Le immagini con cui si apre questo episodio sono quelle di una Palermo frenetica e luccicante, che stride decisamente con l’atmosfera lugubre e putrida delle scene precedenti; una patina che scende a coprire le sordidezze in cui il lettore si era immerso fino a questo momento, in una sorta di ridicolo “teatro nel teatro”. Ma ben presto il clima tornerà ad essere quello di sempre, e paradossalmente verrà scoperta anche nel volto della Santa di cartapesta la “vocazione al meretricio”, evidente nei suoi occhi semichiusi, nello sguardo estatico e nei brividi che sembrano scuoterla: insomma, non solo non c’è redenzione ma, in una sorta di bestemmia, tutto il creato viene assorbito dal mondo dell’antimurale e, a conclusione di questo decadimento, ecco la decapitazione della statua della Patrona.
Sullo sfondo di questa scenografia, come tante comparse, si affacciano personaggi squallidi e quotidiani, a partire dai “vecchi che obbligano la famiglia al rito non credendoci più”, per finire con gli autisti che, chiacchierando “delle maleparti del capoturno, dell’accumulo dei riposi inevasi, dei riccioli d’oro dell’impiegata dell’ufficio cassa” (p. 83), non si rendono conto del gesto blasfemo che stanno compiendo mozzando inavvertitamente il capo alla Santa. Minimi dettagli conferiscono alla “rappresentazione” una verosimiglianza scenica: “i secchi dello straccio riempiti con scorce di mellone”, infestati dalle mosche e le pericolanti abitazioni con i sigilli del tribunale perché riscoperte “gioielli medioevali”; l’esercito di boy-scout; il cardinale alla ricerca di quella testa di cartapesta decapitata; la torre di Babele di “fedeli colorati”; i seguaci di Visnù che “hanno ritagliato un angolo di rispetto per la patrona dell’esilio sul comodino accanto al letto, fianco a fianco di Dei millebraccia che vegliano sul sonno dei pagani” (p. 77), esito questo di un sincretismo religioso stupefacente. E ancora una volta le immagini si richiamano l’un l’altra, come nel caso della ricerca della testa della santa sotto le automobili parcheggiate, e un’altra frenetica e appassionata caccia al tesoro, quella dell’anello dell’amica cara cercato tra i binari della stazione “carponi, con i nostri culi nell’aderenza dei fusò a gobba di cammello” (p. 29).
Nonostante la declinazione di tutti i gradi di depravazione possibili, non mancano scene di intensa liricità. Una di queste è il ritratto della Santa che “contempla il mistero del mare”, con l’umidità che forma sulla sua pelle di vernice gocce che sembrano lacrime, mentre, accanto a lei, due cani, “in una chiavata lunga di solitudine”, guardano la strada che entrambi vorrebbero percorrere per fuggire. È una vera e propria prefigurazione del finale: Fiona, nell’ultima pagina del romanzo, vede la “nave redenta” e immagina di essere lì, a prua, finalmente sganciata dalle brutture della sua condizione. È proprio in questo clima che si percepisce l’affiorare dell’umanità di queste donne, prima nella solidarietà manifestata all’amica cara per aiutarla a ritrovare l’anello perduto “che indicava la strada della salvezza” (p. 78); poi, nel tenerle nascosta la verità riguardo alla sorte infelice della Patrona dal capo mozzato, che per lei sarebbe stata una palese “promessa di martirio”, un vero e proprio cattivo auspicio che di lì a poco, però, si realizzerà.