A conclusione delle attività di laboratorio, la scrittrice Maria Rosa Cutrufelli incontra gli studenti:
DOMANDA: Vorrei riallacciarmi al discorso sul romanzo ottocentesco, non parlando del Manzoni autore dei Promessi sposi, ma di un altro Manzoni. Prima bisogna fare, però, delle precisazioni: abbiamo scoperto, facendo delle ricerche, che Michelet ha definito Olyme “pazza e isterica”. C’è tutta una storiografia che cerca di censurare Olympe e sostituirla con una caricatura. Volevo sapere cosa può rappresentare per lei un tipo di scrittura e di letteratura in grado di tornare indietro nel tempo, di riscrivere la storia per ristabilire la verità riguardo a un personaggio come Olympe, che era stato posto in ombra. Tutto questo mi fa pensare molto al Manzoni del Conte di Carmagnola piuttosto che a quello dei Promessi sposi. Poi un’altra cosa: sempre in base alle nostre ricerche storiche, abbiamo scoperto che molte fonti parlano di Olympe come di una vera e propria analfabeta: vorrei sapere se queste fonti le risultano.
RISPOSTA: Olympe de Gouge è un personaggio storicamente molto controverso, perchè era una donna particolare, forte: le donne forti, con forti passioni pubbliche, non hanno mai goduto di buona “stampa”, né nel passato, né, io sospetto, nel presente. E in particolare una donna come Olympia, che per la prima volta nella storia rivendica per tutte le donne il diritto di cittadinanza, che era una cosa allora neanche pensabile. Infatti, su questo Olympe si sofferma molto, ha tutta una sua teoria, ma si trattava di un pensiero che neanche gli uomini più rivoluzionari osavano accarezzare, a parte pochissimi s’intende, come non a caso il suo amico Condorcet, che aveva scritto un libro sopra i diritti delle donne. Però era ancora un pensiero storicamente impensabile. E quindi una donna non solo che osasse formularlo ma che addirittura osasse farne oggetto di battaglia pubblica. Chiaramente era una donna che i suoi contemporanei e, per molto tempo, quelli che sono venuti dopo di lei, non potevano che considerare come eccentrica, meglio come una pazza. Perché appunto era al di là di ciò che la società in quel momento poteva pensare. Del resto, dopo il Settecento, dopo il grande rivolgimento della rivoluzione, arriva l’ottocento, che è un secolo assolutamente misogino, un secolo che vuole restaurare l’ordine, soprattutto per quanto riguarda le donne; anche se poi non ci riuscirà, perché i movimenti femminili nasceranno appunto nell’Ottocento. Ma ai tempi di Olympe non esisteva la parola femminismo, esistevano delle singole passioni di donne che approfittarono della rivoluzione, per rivendicare qualcosa che fino ad allora non era mai stato rivendicato. Come il diritto di cittadinanza per le donne. Quello era un tempo in cui l’uomo soltanto veniva chiamato cittadino, perché godeva di diritti civili. Se le donne venivano chiamate cittadine, era solo perchè abitavano in città. Il che mi sembra una cosa assolutamente inconcepibile. Allora è chiaro che su Olympe si è come concentrato un odio insolito, una voglia di diffamazione. Che è a tutt’oggi, se voi fate una ricerca su internet, verificabile: ma si tratta di una serie di sciocchezze, che non hanno assolutamente alcuna verità. Io ho voluto studiare, prima di scrivere di lei, ho letto anche: Olympe è stata una donna straordinaria perché aveva la passione della scrittura: da dove arriva, mi chiedo dunque, il mito dell’analfabetismo? Deriva dal fatto che lei era una donna del Sud della Francia. Per un parigino, l’occitano era una lingua barbara. Si stava cominciando allora a costruire la lingua nazionale francese, e quindi, dal momento che lei parlava l’occitano, e i suoi scritti erano infarciti di occitanismi, chiaramente veniva giudicata poco colta. Lei era invece molto orgogliosa della sua lingua, pur adottando ovviamente il francese. Ed era molto orgogliosa della sua scrittura, niente affatto paludata, come quella che andava di moda allora, eccessivamente ampollosa. Non a caso erano sempre i segretari a scrivere e elaborare. Allora la scrittura era un’attività manuale che veniva giudicata con sufficienza dai signori. Nessun signore avrebbe fatto mai la fatica fisica di scrivere. E quindi c’erano i segretari che scrivevano ciò che i grandi signori dettavano. Anche Olympe usava i segretari, però li usava proprio perché il francese non era la sua lingua madre. E quindi il segretario le serviva anche per correggere i suoi occitanismi. Insomma, ci sono tutta una serie di miti su di lei, nati da un odio storico. Io le chiamo le molestie storiche: Olympe infatti è diventata il capro espiatorio di un’insofferenza per questo emergere della soggettività femminile, per questo venir fuori di una voglia delle donne di conquistare una propria presenza sulla scena pubblica.
D.: Uno degli aspetti in cui l’identità femminile si rivela, nel suo romanzo, è il rapporto delle madri con i figli, dei figli con le madri. Però, a una esaltazione del sentimento della maternità, si alterna poi, sia per Madelaine che per Olympe, il tentativo di un congelamento di questo forte sentimento. È così?
R.: Il discorso rapporto madri e figli è molto complesso. Intanto, nel Settecento, la sua dinamica era del tutto diversa rispetto a quanto accade oggi. Sono stati scritti tanti libri che mostrano come il sentimento materno così come noi oggi lo conosciamo sia una costruzione storica che ha preso corpo soprattutto nell’Ottocento, in cui c’è la costruzione di questo rapporto così viscerale tra madre e figlio. Nel settecento, ad esempio, nessuna aristocratica allevava i propri figli. Il rapporto era qualcosa di completamente diverso da quello che noi oggi conosciamo. E tuttavia io penso che sia giusta l’osservazione, perché quando Olympe parla di questo suo ipotetico figlio, lo fa prima che vada alla ghigliottina. Quando va incontro alla morte, sono altre le passione che predominano in lei. Perché è una donna che non ha solo passioni private: ha anche passioni pubbliche e le sue passioni politiche sono così forti che la conducono alla ghigliottina. Lei dà differenti spazi, diverse scansioni alle sue tante passioni. Quando va alla ghigliottina, ciò che l’agita è appunto il motivo per cui lei ci va, il motivo per cui ha sacrificato la vita. Che è un motivo appunto pubblico, che la porta in qualche modo a dimenticare tutto il resto. Il cruccio di Pierre è poi questo: sapere che la madre, con queste battaglie, si stia giocando la vita e il suo problema è che si gioca anche la vita sua e dei nipoti in qualche modo. Tanto è vero che Pierre è costretto in qualche misura a rinnegare la madre per poi però chiedere la sua riabilitazione negli anni successivi. Però Olympe in quel momento non può pensare a suo figlio. Lei è una brava madre perché è una madre diversa, una madre nuova, che non può dimenticare la sua dignità di persona, la sua voglia di essere cittadina a tutti gli effetti, di non essere un’eterna minorenne come erano allora tutte le donne. È questo ciò che la porta alla ghigliottina, e per questo suo tragitto lei in qualche modo diventa un modello per suo figlio. Si propone come esempio di giustizia vera, e non può sottostare al ricatto affettivo, non può rinnegare se stessa, la sua dignità individuale e personale, neanche per l’affetto verso un figlio. Si propone una forma nuova d’amore che non è un amore egoistico, centrato solo sul privato, ma basato sopra la dignità della persona, e in primo luogo sulla sua dignità di donna. Lei è andata incontro alla morte dicendo in qualche modo quello che io le faccio pensare: “Hanno abbattuto prima i rami, adesso abbattono anche l’albero”. Si riferiva all’albero della rivoluzione. Cioè il suo pensiero era per la rivoluzione tradita, per la rivoluzione che mandava a morte quelli che l’avevano voluta, pensata con altri intenti. Erano queste le cose che ha detto, in base alle testimonianze. Io penso di non averla tradita troppo, di non aver travisato il suo pensiero.
D.: In che termini, in questo suo romanzo, prende corpo il rapporto tra verità e finzione?
R.: Il rapporto tra verità e finzione, in un romanzo, è sempre molto complicato. Mentre in un romanzo di pura finzione c’è un rapporto tra la finzione e la verosimiglianza, in un romanzo storico invece il problema è la verità e la finzione. Però la verità della storia è un concetto molto problematico e relativo, perché ciò che tu offri al lettore, sia tu narratore, ma anche lo storico s’intende, è sempre un’interpretazione. Quindi, il rapporto tra verità e finzione, in questo mio romanzo, mi è difficile dipanarlo; però vi posso dire due o tre cose: intanto vi svelo un giochetto che ho fatto per me stessa, di cui voi non ne sapreste mai niente: ho l’occasione di renderlo noto solo in circostanze del genere. Allora, dovete sapere che nel libro tutto è vero, nel senso che se dico che in quel giorno pioveva, è vero che pioveva. Se dico che in quel giorno c’era un eclissi, è vero anche questo. Se dico che le candele costavano tanto, è vero che costavano tanto. Come faccio a sapere tutte queste cose? Perché per fortuna sulla rivoluzione francese esistono una quantità sterminata di diari ed epistole. C’è un diario di un borghese di cinquecento pagine, scritto nel bel mezzo della rivoluzione francese: mentre veniva decapitato il re, e così via. Questo signore, in tutti questi anni, ogni giorno scriveva: “Oggi piove; il vento viene da sud-ovest. Oggi ci sono quaranta gradi. La mia cameriera mi ha fatto la zuppa con i piselli in questa maniera. Mi fa male la gotta e ho fatto un impacco in questo modo. Il prezzo delle candele è aumentato”. E poi ogni tanto scriveva: “Oggi ne hanno decapitati ventiquattro”. Il tutto, tra una zuppa di piselli e un nubifragio d’estate. Va comunque detto che raccontare la storia comporta sempre un’interpretazione: è l’occhio di chi legge la storia che vede ciò che vuole vedere.
D.: A me è sembrato che le protagoniste del suo romanzo abbiano tutte la stessa pronuncia stilistica. È così?
R.: Per quanto riguarda il discorso del registro linguistico, il mio non è un romanzo in cui si vuole fare del mimetismo linguistico. Ci sono molti romanzi, penso a quelli degli scrittori contemporanei, in cui si fa uso di un gergo giovanilistico. Il mio non è un romanzo del genere. In realtà io non credo che le protagoniste della storia che narro abbiano tutte lo stesso registro. Hanno un registro diverso, a seconda della loro psicologia. Del resto, non poteva essere comunque mimetica la pronuncia, per tanti motivi: intanto perché sono troppi i personaggi; per il lettore, sarebbe stata una vera faticaccia leggere il romanzo, cambiando da una pagina all’altra il registro stilistico. Già così credo che l’opera sia abbastanza faticosa. Essendo un libro non lineare, in cui i personaggi sono tanti e i loro volti si accavallano, tutto questo richiede al lettore, soprattutto all’inizio, quando ancora non è entrato nella storia, richiede insomma una forte attenzione. Un giornalista siciliano, nell’intervistarmi, mi ha detto: “Cu tutti ddri fimmini, mi cunfunnivu”. Se a questo avessi aggiunto una differenza di registro troppo grande, il romanzo sarebbe diventato davvero per il lettore troppo complicato.
D.: Come mai lei è passata dal monologo della Briganta alla polifonia di questo romanzo? Ma a fronte di questa diversità di registro, c’è un filo rosso che lega le due opere: l’attenzione alla scrittura come mezzo di fuga.
R.: La briganta era il mio primo romanzo: il monologo mi è venuto più semplice da utilizzare. Si tratta poi di un libro più breve, rispetto a quest’ultimo. Il monologo lì era più adatto. Di contro, penso che per trecentocinquanta pagine, un monologo possa diventare ‘mortale’, eccessivamente monotono. Allora, per un libro di cento cinquanta pagine, il monologo è giusto, per trecentocinquanta no. E però vi ho spiegato all’inizio come è avvenuta questa mia scelta, questa forma così strana, che appunto ha sconvolto quel nostro giornalista, che si è confuso. Riguardo al secondo aspetto della domanda, ossia alla scrittura come mezzo di fuga. Non penso sia così: la scrittura per me è l’arma migliore per la costruzione di un’identità. Anche se la scrittura, oltre a essere un mezzo, un modo di costruzione del sé, è anche un modo per aprirsi alle altre identità. La scrittura ha questo doppio movimento, di apertura e di chiusura. Di costruzione del proprio io, ma anche di abbandono. Hai però ragione nel dire che sia nel primo romanzo che in questo sono dei libri che narrano della scrittura, che raccontano la scrittura.
D.: Ci vuole parlare del ruolo degli uomini all’interno del romanzo?
R.: In questo romanzo, chi dice io sono le donne, perché è un romanzo sulle donne della rivoluzione francese. È una scelta lecita, così come è lecito scegliere di scrivere un libro tutto costruito sugli uomini della rivoluzione francese. Nel mio romanzo gli uomini non dicono io, e quindi non sono alla ribalta, nonostante siano dei grandi personaggi: basti pensare a Robespierre, ad esempio. Questo succede per un motivo molto semplice: che gli uomini in questo libro sono raccontati dalla parte delle donne. C’è una donna che racconta delle donne, che a loro volta raccontano gli uomini. Quindi è chiaro che gli uomini non sono alla ribalta. Per la verità i lettori non sono abituati a questo, perché i romanzi, nell’ottanta per cento dei casi, sono scritti con una prospettiva maschile, potremmo anche dire maschilista. C’è poi un’abitudine secolare, forse più che secolare, a vedere le donne raccontate dagli uomini. Nessuno si è mai posto il senso di questa operazione. Invece oggi succede molto più spesso che siano gli uomini a essere raccontati dalle donne: questo rappresenta una scossa all’abitudine secolare. Tutto ciò viene avvertito dalla gente, e vuol dire che la scrittura è un potente mezzo di trasmissione, una potente struttura patriarcale, che solo adesso viene erosa, traballa, perché ci sono sempre più sguardi di donne che raccontano gli uomini. Però, ancora nel 1950, c’era un professore, un critico letterario importante (Pancrazi) che, scrivendo di Gaspara Stampa, una delle più grandi poetesse italiane, faceva questa considerazione: quando una donna viene raccontata dall’uomo, sembra davvero lei. Sembra davvero una donna. Quando la donna racconta un uomo, non sembra più uomo. Perde la sua virilità. È un’osservazione interessante, perché significa appunto una cosa molto semplice: che la letteratura, vi ho detto prima la storia del romanzo è sempre un’interpretazione, è una visione. La visione delle storie, della narrazione, è una visione fatta nel tempo e attraverso sguardi maschili. Oggi, per fortuna, sono anche le donne che guardano. E questo, in qualche modo, fa traballare l’impalcatura, che però è vecchia di secoli e piena di tarli. È precaria, di per sé, ma paradossalmente ancora molto robusta. Per questo gli uomini, in questo romanzo, sembrano così distanti. Addirittura sono visti attraverso due sguardi femminili: la narratrice che racconta di donne, che a loro volta raccontano degli uomini. Ma perché, mi chiedo, non ci dovrebbe sembrare distante la madame Bovary raccontata da Flaubert? Infatti, alcune donne han detto che forse Flaubert è stato eccessivamente cattivo, con la povera madame Bovary, e forse si voleva vendicare di qualcosa, anche se non si sa ben cosa…
D. (Prof. Tedesco): Consegnare uno statuto morale alla donna voleva dire rompere un poco le frontiere dei sessi, ma penetrare meglio in quella psicologia generale dell’umanità che è stato uno dei compiti straordinari di Giovanni Boccaccio. Riguardo al romanzo storico: noi continuiamo a usare questo termine, quando nel corso di due secoli ormai, le cose si sono trasformate. Se voi collocate il romanzo storico nel periodo del romanticismo, o del realismo romantico che dir si voglia, il discorso è legato al contesto ottocentesco, dove i due sentimenti dominanti della letteratura erano il senso della storia e il prorompere del sentimento. Allora viene fuori il rapporto tra storia e invenzione e tante altre cose. Ma per esempio, già io, se mi permettete, ho stravolto l’interpretazione dei Viceré di De Roberto, romanzo pubblicato più di un secolo fa, in cui di romanzo storico, nel senso dell’accezione del romanzo storico ottocentesco, non c’è proprio nulla. Non è il racconto di una fetta di periodo storico, cosa che fa il romanzo storico. È assegnare al romanzo storico un compito sociale, oltre che letterario. Attraverso il romanzo storico, la società in generale, e la società letteraria in particolare, si riconosceva, ricostruendo le proprie origini. Non per nulla il romanzo storico, di solito, non tanto quello di Manzoni, ma quello di altri scrittori, riguardava episodi del Medioevo. Che è tutt’altra cosa. Quando noi arriviamo a romanzi come I Viceré o Il Gattopardo, ci accorgiamo di un fatto: che i libri in questione non hanno nulla del romanzo storico. Ci si trova innanzi, invece, a una rilettura del romanzo storico: insomma, è tutta un’altra storia. Una cosa che però per strada si è persa, in questa nostra discussione, e che mi sembrava molto importante dire, ricordare, detta per prima dalla Perrone e poi ripresa dalla nostra scrittrice, è il fatto che questo romanzo si presenti come una pluralità di monologhi. Pluralità che ci fa subito dopo parlare di polifonia. Ci troviamo davanti a quel discorso per il quale le categorie cui dobbiamo fare riferimento sono quelle di Bachtin. Tra il grande romanzo di Tolstoj e quelli di Dostoevskij c’è una grande differenza, proprio per questo diverso rapporto della polifonia, e del fatto del saggismo, che entra nel romanzo. Ora io penso che il romanzo della Cutrufelli sia particolarmente importante perché c’è dentro la lezione del Novecento, che è quella per la quale nei personaggi, oltre la verità storica, c’è la verità dell’acquisizione conoscitiva e psicologica. Se no, la nostra autrice avrebbe fatto un lavoro passatista. Cosa che succede anche in pittura. Ci sono alcuni pittori che rivisitano il passato, non facendo altro che copiarlo. Ci sono altri che in questa loro rivisitazione, vi innervano le inquietudini del proprio tempo. E allora la cosa completamente cambia. E non c’è più il quadro oleografico che riprende il passato, ma c’è un’interpretazione. Per quel che riguarda la storia, dovete stare molto attenti anche a un altro aspetto. In Spagna, pochi giorni fa, ho letto un passo di Sciascia, del Consiglio d’Egitto, dove si dice che la Storia è un’impostura, perché noi la vediamo raccontata sempre attraverso i grandi fatti, i grandi personaggi. Lui diceva: ma se ci mettiamo a raccontare la Storia delle foglie, degli alberi, dei piccoli personaggi, allora abbiamo delle microstorie, che sono una ben diversa, e ci consentono una più completa e approfondita cognizione storica. Quando una scrittore contemporaneo racconta una storia che affonda nel passato e che vuole darci una nozione di quel passato, non può che raccontarci anche il giudizio che lui dà su questo periodo storico. C’è una verità che è solo la verità della Storia, e poi c’è una verità più vera, che è quella che attraverso elementi particolari della storia. La Cutrufelli ci dà un’autentica esperienza umana, un’autentica figura umana. Se lei avesse voluto raccontare la Storia, stando vicino a quella che poteva essere una realtà minuta della storia, non avrebbe né creato un personaggio da romanzo, né ci avrebbe dato la sua verità. Perché la verità che lei ci vuole consegnare è la verità del personaggio come lei lo giudica e del personaggio che giudica se stesso. È una verità superiore. È un’altra cosa. Olympe è una donna coinvolta politicamente, ma è anche un’artista, una letterata: e forse è questo l’aspetto della sua personalità che più appassiona…
R.: L’essere artista è uno degli aspetti di questa donna che mi ha affascinato di più, perché la passione per la scrittura la condividiamo io e lei. Di lei mi ha affascinato soprattutto questo insistere sul fatto che lei era una donna consapevole e non una dilettante. Alla sua epoca, ma anche ai nostri giorni, vige questa differenza: gli uomini scrivono e le donne scribacchiano, alle donne allora non veniva ufficialmente riconosciuta l’attività letteraria. Le donne non avevano uno statuto professionale. Le donne non potevano esercitare le professioni, figurarsi quella di scrittrice. Oltretutto, Olympe fu un’autrice di testi teatrali, alcuni di grande successo. Esisteva una corporazione, un sindacato un’organizzazione professionale degli autori di teatro, composta da amici suoi, tutti rigorosamente uomini: lei chiese di iscriversi a quest’ordine e i suoi amici le dissero che è fuori di testa. Quindi, il fatto che lei rivendicasse la scrittura come una passione e come una professione, la rende estremamente moderna. Lei mostrò un coraggio e una consapevolezza molto moderni. Questo sospetto che le donne scribacchiano e gli uomini scrivono non è cancellato del tutto. Non esisterebbero ancora delle donne che violentano l’italiano e si dicono scrittori invece che scrittrici. Io sono donna e quindi debbo dirmi scrittrice. Se no lo faccio, è perché penso che essere scrittrice non sia una cosa di secondo ordine. Per essere veramente bravo, seguendo la logica dominante, devi rinnegare il tuo sesso e diventare uomo. Devi dunque violentare le regole basilari della grammatica italiana. Attenzione però, non si tratta solo di un problema linguistico, ma politico. Di politica dei sessi.
D.: Il suo stile, se guardiamo all’intera produzione, è segnato da una irrequietezza, da una voglia di percorrere nuove strade…
R.: È vero: a me piace sperimentare la lingua in tutte le sue possibili strutture, forme, generi. Raccontare storie in modo diverso, perché altrimenti mi annoio. Ho provato tanti generi, dal noir al romanzo di formazione al romanzo storico. Nel futuro lontano, mi piacerebbe tantissimo, ma non so se ne sono capace, scrivere un romanzo di fantascienza.
D.: In che modo lavora Maria rosa Cutrufelli? Quali gli strumenti della sua officina letteraria?
R.: Se il nostro giornalista si è confuso, in mezzo a tutte quelle donne, in realtà lo stesso rischio lo corre lo scrittore. Ho dovuto fare, per rendere il romanzo un testo coeso, coerente, in cui la storia si snodasse senza intoppi, delle scalette ferree, e farne più di una. La mia casa era invasa da foglietti con tutto l’elenco dei nomi. Poi cambiavo idea, per cui era importante capire quando un personaggio doveva uscire, e entrarne un altro. Questo l’ho fatto cento volte. In casa mi hanno detto: scusa, Maria Rosa, cosa sono tutti questi elenchi di nomi? Cosa sono? Rappresentano il vero svolgimento della storia. Man mano, raccontavo a me stessa la storia e cercavo di capire le varie dinamiche. Quindi, il mio libro non ha richiesto solo un lavoro di documentazione, ma mi ha costretto ad approntare una struttura ferrea. Io vengo dalla scuola degli strutturalisti: la struttura per me, in questo romanzo in particolare, è una parte importante della immaginazione, un qualche cosa importante quanto la scelta lessicale, quanto la forma sintattica, quanto il registro delle voci. In Italia noi siamo più abituati a guardare la bellezza della lingua, alla prosa artistica, e si guarda meno alla struttura del testo, alla sua architettura. Una storia è una casa, e se tu la costruisci con le fondamenta fatte male, il libro crolla.
Palermo, 24 maggio 2005