Con il suo ultimo romanzo, Tommaso Pincio ha messo a punto un congegno narrativo formidabile, un meccanismo puntualissimo la cui perfezione paradossalmente risiede nella capacità dell’autore di concedersi tutte le libertà che la saldezza del patto leonino stretto con il lettore gli garantisce.
Si dirà subito che, come già nei precedenti lavori, anche in quest’ultimo romanzo, il realismo dello scrittore romano presenta dei caratteri del tutto particolari. Esso, infatti, non ha come referente immediato il reale, ma la serie infinita dei suoi archetipi, dei modelli di rappresentazione che la letteratura e il cinema ci hanno fornito nel corso dell’ultimo secolo. A partire da questi, lo scrittore imbastisce un consapevole gioco citazionistico che chiama in causa il lettore tutte le volte che si tratta di misurare la distanza che separa il modello di riferimento dai termini originali del suo riutilizzo e della sua reinvenzione.
E tuttavia, nel caso di Pincio, a scongiurare il rischio di un’operazione a freddo, di una sterile partenogenesi, intervengono tutta una serie di motivi e di temi ricorrenti – l’amore, l’infanzia, la nostalgia, la solitudine, il disadattamento – che facendo del dolore la cifra segreta di una calcolatissima operazione letteraria, come dei sottilissimi fili di acciaio, tornano ad agganciare quei modelli alla realtà più concreta, fino a costringere e a blindare l’artificio della “letteratura” dentro lo spazio della vita reale. Non si dà situazione, all’interno dei romanzi di Pincio, che per quanto filtrata alla luce di un precedente letterario o cinematografico, non sia in definitiva riscattata da un sottilissimo senso di nostalgia, da un dolore che è lancinante e privatissimo.
Nel caso della Ragazza che non era lei, specificamente, la serie dei temi che consentono all’autore di restare coerentemente fedele a se stesso viene dipanata nel corso di un viaggio reale e immaginario, onirico e “lisergico”, che tra America ed Europa, San Francisco e Amsterdam, coinvolge i protagonisti, il loro passato, il mistero della loro indecifrabile condizione presente. Laika Orbit, infatti, la ragazza del titolo, si trova ad essere coinvolta da uno sconosciuto in uno sconvolgente viaggio on the road all’interno di un Paese che pare avere definitivamente perduto i contatti con il nostro mondo. Realtà parallela, o degenerazione futuribile della nostra età, Laika si ritroverà, ad un certo punto, sola, del tutto abbandonata a se stessa, alle prese con un reale dai confini imprecisati, dove le strade, gli oggetti, i cibi sembrano avere smarrito la forma, l’essenza rassicurante della loro identità consueta. Nella luce rossa di un interminabile crepuscolo, dentro un paesaggio dominato dalla polvere, la ragazza finisce per smarrirsi:
Laika si è persa. Si è persa in tanti sensi. Si è persa nel senso più generale di ostinarsi a non voler considerare l’eventualità che il mondo intorno a lei sia davvero reale e in quello più particolare e immediato di non sapere dove diavolo è finito l’albergo. (p. 31)
Alla fine anche il ritrovamento della strada che conduce all’albergo rischia di essere un’acquisizione secondaria, tutto sommato inutile se ad essere messa in discussione è l’empiricità stessa della realtà che circonda la protagonista.
Ad una prima parte interamente narrata in terza persona e principalmente incentrata sul personaggio di Laika, fa seguito, il racconto in prima persona dello sconosciuto con cui la ragazza ha intrapreso il viaggio. Ha così inizio quasi un nuovo romanzo: la storia di Zxyz, del suo talento matematico e del suo insanabile disadattamento. Per più di cento pagine sono il racconto della sua nascita e della sua educazione a San Francisco, nella seconda metà degli anni Sessanta, in piena “Summer of Love”, ad occupare la narrazione. Quindi seguirà il racconto del suo trasferimento a Silicon Valley, della progressiva, dolorosa maturazione di un sentimento di estraneità rispetto al reale.
Pincio struttura la storia in maniera accortissima: sviluppa narrazioni parallele per poi sovrapporle, sospende il racconto per creare effetti di suspense, riannoda i fili della vicenda quando tutto pareva ormai troppo ingarbugliato per essere dipanato. In tutto questo si concede anche il privilegio dell’assurdo e dell’inverosimiglianza, prova a scardinare le regole canoniche della narrazione tradizionale e si spinge fino ad affidare il racconto ad una voce dall’aldilà.
Costruire una “storia” affidandole un andamento lineare, uno spazio e un tempo omogenei, non pare essere, in questo caso, la principale preoccupazione dell’autore; sondare la non verificabilità oggettiva del reale, postularne la non essenzialità, al contrario, pare essere la sua ossessione. “La realtà non è di questo mondo” ci avverte, di fatto, immediatamente, nella nota che introduce il romanzo.
La San Francisco degli anni Sessanta, il Golden Gate Park, il decennio della “Summer of Love”, del resto, non sono, per Pincio, i simboli di una possibile palingenesi collettiva che l’umanità ha inteso sprecare, ma i correlativi oggettivi di un personalissimo male di vivere. Nella sua ostinazione a non rassegnarsi alla normalità, nella sua personalissima ricerca di una valida alternativa alla prigione del reale, divengono le espressioni di una possibilità che lo scrittore egoisticamente avverte di avere irrimediabilmente perduto.
Nelle pagine conclusive del romanzo, quando il racconto di Zxyz è giunto ormai ai nostri giorni, è a Boom, anziano reduce di una lontana stagione di utopie, che lo scrittore affida queste riflessioni:
Vedi quei ragazzi? Sono esattamente come noi ai nostri tempi, desiderano le stesse cose e sognano lo stesso sogno ma è tutto più concentrato, più piccolo. Quando viaggiano per il mondo si confondono nel sistema e nell’esistenza di tutti i giorni. Nel loro bisogno di amore si sentono molto più soli di noi ai nostri tempi. Ma di tanto in tanto si radunano in un luogo segreto, al riparo dalla civiltà, e per qualche giorno vivono alla maniera in cui noi abbiamo vissuto per anni, ballando abbracciandosi e stordendosi alla luce della luna. Una buona parte di loro sa bene che si tratta di un sogno limitato nel tempo e nello spazio. Quelli che non ne sono consapevoli dovranno comunque guardare in faccia la realtà. […] Io non so più se un altro mondo è davvero possibile ma seppure lo è, prima bisogna trovare il modo di fuggire da questo. (pp. 290-291)
L’ossessione della realtà, il senso di malessere e di disadattamento che scaturiscono dalla difficoltà di accettarla, sono probabilmente i veri motivi dell’ultimo romanzo di Pincio. Con indefettibile coerenza, nel corso di questi anni, lo scrittore ci è sembrato impegnato a volere ribadire, anti-hegelianamente, il primato della “poesia del cuore” sulla “prosa del mondo”, quello dei sentimenti e degli stati d’animo sulla catena degli oggetti e dei dati materiali che compongono la prigione del reale. La nostalgia, il dolore, la malinconia, l’amore, dunque, prima di tutto, se vogliamo seriamente scongiurare il rischio che la realtà si trasformi in “un limbo incantato dove tutto è malinconicamente bello, anche quando ti violentano in un fosso o ti sparano in faccia senza motivo” (T. Pincio, Nostalgia (con stupro) del mondo senza di me, “Alias”, 11 gennaio 2003).
giugno 2005