“Sono nata davanti alle acque del golfo e per istinto amo ciò che è semplice e grandioso” (p. 140): così si presenta, in La donna che visse per un sogno, Madeleine de Kolly, la ricca figlia del direttore del Compagnie delle Indie e moglie di un esattore generale che, dopo aver visto salire sul palco della ghigliottina il marito e poi il giovane “padre naturale di quel figlio che le duole in grembo” (p. 137), si ritrova anche lei in prigione in attesa dell’esecuzione.
Olympe, incontrando la sua nuova compagna di cella, non sa ancora che la condizione di condannata in gravidanza sarà anche la sua:
Madeleine porta in grembo un figlio e sarà questo figlio, nascendo, a rendere esecutiva la condanna a morte della madre (p. 136).
Il presagio di ciò che le accadrà impedisce ad Olympe di stabilire una certa intimità con la compagna di cella:
…io ascolto lei e lei ascolta me,ma non andiamo oltre. Nessuna delle due ha l’animo che occorre per concedersi una maggiore intimità. A lei restano due mesi e a me? (p. 137).
Madeleine è il personaggio che veicola una tematica ricorrente in tutto il romanzo della Cutrufelli: il senso della maternità, una linea sottile che percorre tutta la narrazione. In un romanzo scritto da una donna, che ha come protagonista una donna, raccontato per mezzo di una coralità di voci femminili autonome anche se legate le une alle altre, non stupisce come sia presente la valorizzazione dell’essere donna.
La donna che visse per un sogno è dunque la ricerca dell’affermazione dell’identità femminile, specifica ed esclusiva della donna. E’ questo il senso del femminismo di Olympe, diverso da quello estremista ed asessuato di Mary Wallstonecraft, è il femminismo di una donna che rivendica la propria dignità in nome di una differenza sessuale ed intima, in nome di una corporeità che supera la ridicola e vuota voglia di uniformarsi all’universo maschile.
Il sentimento della corporeità è vissuto profondamente nell’intimità di un rapporto esclusivo ed unico,nella dipendenza reciproca di due vite che prendono respiro l’una dall’altra:
Devo respirare. Ho un dovere, sì, da portare a termine. Un compito. Far crescere la mia pancia e guidare il mio bambino,condurlo al giorno della sua nascita. E’ per questo che mi si lascia sulla terra. Io sono la conchiglia fedele,che verrà svuotata e spezzata (p. 141).
La piccola vita che cresce inesorabilmente, che scandisce le ore ed i giorni della vita della madre, oscilla tra elargizione gratuita d’amore ed egoismo involontario. Il bimbo sollecita il desiderio della madre di vederlo, di toccarlo, di amarlo, ma la sua vita fuori dal grembo coincide crudelmente con la morte della madre:
Mi lasceranno qualche minuto per guardarlo sgambettare quando sarà nato? Il tempo di sentirlo piangere, non chiedo di più. E chi verrà dopo di me a cullare il pianto di mio figlio? Una nutrice giacobina? (p. 141)
Tuttavia, la drammaticità dei pensieri di Madeleine viene congelata dalla preoccupazione politica, dal fatto che possa essere una giacobina a cullare il figlio. L’osservazione può essere giustificata dall’angoscia che può persino arrivare ad annebbiare la ragione ed il sentimento stesso della donna. Al dolore di Madeleine per l’inevitabile condanna si aggiunge quello per l’abbandono forzato del piccolo figlio; quel magnifico rapporto fatto di silenziosi scambi di carezze e di palpiti leggeri viene avvelenato dall’angoscioso sentimento del tempo che trascorre e dirige Madeleine verso il patibolo. Il suo corpo che si trasforma finisce per far corrispondere la vita e la morte:
…quindi torna a sedersi sul pagliericcio, la mano abbandonata sulla coperta, gli occhi fissi sul ventre che cresce, cresce. Mancano due mesi al parto (p. 136).
Sono queste le parole di Olympe, che osserva la sua compagna di cella con un senso di commiserazione per la sorte che tanto somiglia a quella che presto travolgerà lei stessa, aggiungendo dolore al dolore. Da una a due condanne: la doppia condanna che sentenzia la morte per Madeleine e per il figlio a dover crescere senza la madre; la doppia condanna di Olympe che porterà sul patibolo una creatura di poche settimane, ma già col cuore che pulsa dentro di lei e non le lascia dubbi sulla sua presenza viva e reale, fragile e vera come le roselline donatele dal giovane amante attaccate alla cintura, poggiate delicatamente sul suo grembo fecondato.
Un giorno è finito e comincia l’altro. Comincia con un urto impercettibile, con qualcosa che guizza dentro il mio ventre e batte prima di acquietarsi.
Di già? Impossibile. E tuttavia… Anche tu, bisbiglio, hai fretta di farti sentire, di bussare almeno una volta alla mia attenzione. Ma non ne hai bisogno, io lo so che ci sei. Sono stata madre. Riconosco questa tensione del corpo, la stessa che tanti anni fa mi inorgogliva. Anche questo senso di nausea è lo stesso della prima gravidanza e della seconda, quando aspettavo un’invenzione del mio corpo, allora so il momento preciso in cui è successo: quando ho fermato in cintura questo bouquet e l’ho difeso con la forza della nostalgia, per un Julie […]. No, non mi sbaglio: ti sento. E non mi sbaglierei neppure se tu fossi un sogno o una mia invenzione, come ha decretato il tribunale. […] Ma se davvero ritrattasse di rimpianto di mani che si sfiorano, di sguardi che si cercano, di guance facili al rossore (pp. 138-139).
Olympe arriva così a credere che quella presenza che prima sentiva con certezza sia solo un desiderio ed un sogno al quale è costretta a rinunziare. Forse il tentativo di rifiutare la forzata separazione dal figlio spiega perché sia Madeleine che Olympe alla fine frenino ulteriori slanci affettivi verso i figli in grembo; l’inesorabilità della separazione gela la spontaneità dei loro sentimenti, ed il pensiero di entrambe corre agli altri figli. Come spiega Madeleine alla cugina nella lettera scritta per lei da Olympe: “…è per i figli,esclusivamente per loro, che ha cercato di prolungare un’esistenza tanto crudele e rivelato una gravidanza che non avrebbe dovuto rivelare mai” (p. 137). Dice ancora Madeleine:
Io non la volevo questa duplice attesa. Una nascita, una morte. E’ stato mio marito, è stato lui, il signor de Kolly, a insistere, a supplicarmi di dichiarare il mio stato, di cercare la salvezza anche a costo della reputazione. Nove mesi di vita e nel frattempo la Repubblica può crollare… (p. 141).
Queste parole di Madeleine deludono, perché sembrano sostituire all’amore per il figlio la preoccupazione di salvare la propria vita, anche se è spinta a questa scelta dal marito e dall’amore per gli altri tre figli. Per l’istinto di sopravvivenza, Madeleine supera il senso dell’onore, tanto importante per lei, rivelando il tradimento della fedeltà coniugale. Lo stesso avverrà ad Olympe, che alla fine consegna al figlio Pierre la sua eredità di donna e di madre, l’unica che le rimanga! Olympe è la tomba per il figlio che si attendeva di trovare nel suo grembo una soffice culla. Infatti, la regola che meraviglia per la sua modernità, quella che impediva di eseguire la condanna a morte di una donna gravida anche solo al secondo mese di gravidanza, rivela la sua crudeltà e, basandosi sul forse di una levatrice, i ginecologi aggirano il riconoscimento della dignità dell’embrione con il non riconoscerne affatto l’esistenza.
Alla fine delle due vicende non rimane nulla di quel misterioso legame col figlio, che viene prevaricato dall’angoscia per la condanna. Le ultime parole di Madeleine esprimono il suo orgoglio ferito dalle indecenti voci che deve udire dalla sua cella; mentre Olympe, sul patibolo non pensa più al figlio nel suo grembo, ma alla libertà di scelta, al sogno di essere qualcuno.
Quello che sembrava essere il filo conduttore del romanzo, la femminilità espressa nella maternità ed i diversi rapporti tra madre e figli, rimangono solo degli elementi come altri, esprimono solo uno degli aspetti della femminilità, e non più l’elemento distintivo della donna: il privilegio di essere madre. Ma del resto già nella lettera a Pierre, Olympe aveva dichiarato che nemmeno l’amore per il figlio le avrebbe permesso di tradire la sua coscienza (p. 81).
Anche per Madeleine c’è un sentimento che supera ogni altro, è il disgusto per la vicinanza per le donne di facile costume della stanza vicina; l’orgoglioso rispetto per la propria dignità, il pudore o, forse ancor più l’orgoglio, le rendono la prigione ancora più insopportabile:
…posso sopportate perfino la duplice attesa di una nascita e di una morte, qualsiasi cosa, ma non questa vicinanza che mi agita il polso e mi corrompe i sensi (p. 139).
Il senso dello scandalo, il giudizio sulla morale imperfetta, la corruzione dei costumi è ciò che rimane nei pensieri di Madeleine. Dunque, è forse questo per lei il carattere distintivo della donna: il senso del pudore ed il sentimento della vergogna, il rispetto per il proprio corpo e per il proprio spirito.
giugno 2005