A conclusione delle attività di laboratorio, lo scrittore Paolo Di Stefano incontra gli studenti:
DOMANDA: Durante il laboratorio abbiamo analizzato i suoi romanzi e abbiamo potuto constatare l’esistenza di una tema comune: quello dell’adolescenza turbata. Io volevo chiederle che influenza hanno potuto avere la componente autobiografica e la sua attività giornalistica in questa scelta tematica.
RISPOSTA: Io giro sempre con dei piccoli quaderni e, proprio oggi, sull’aereo, ho preso un quadernetto in cui avevo degli appunti riguardanti delle presentazioni che dovevo fare di Baci da non ripetere. Sfogliando le pagine ho trovato, in data 17 Ottobre 1996, una parte manoscritta che comincia così: “Ieri sera ho chiesto al papà perché vi siete lasciati con la mamma? Mi ha risposto che ci vuole tempo per raccontare tutto”. Ho guardato bene la data…è proprio il 17 Ottobre 1996 che io ho cominciato Aiutami tu, quasi dieci anni fa quindi! Ho dedicato quasi un decennio alla creazione di questo romanzo, io credo, infatti, che le cose, una volta nate, debbano sedimentare a lungo. Ci sono, poi, degli scrittori (più bravi di me) che lavorano in modo più sistematico, si fanno delle scalette, sanno da dove partono e sanno già dove arriveranno. Io, invece,comincio così, con un appunto di questo genere, magari autobiografico, e poi non so bene dove vado a finire. Il 17 Ottobre del ‘96 ho scritto questa frase, ma probabilmente non sapevo che ne sarebbe nato un libro, e la dimensione autobiografica per me è fondamentale. Già il mio primo libro, Minuti Contati, che è una raccolta di poesie, è un’opera strettamente autobiografica. La prima parte parlava di mio figlio, che era appena nato, e in essa ho anche provato a riprodurre alcune parole dette da un bambino di due, tre anni: “Mangi rotto il biscotto il risotto/ forse è scotto, un pinguino sette otto”. Poi, naturalmente, ci sono anche dei pensieri miei, che da padre rifletto su queste strane formazioni di parole che andavano crescendo. La seconda parte, invece, è dedicata alla vicenda, per me molto dolorosa, della morte di un mio amico. Qui c’è, all’opposto, tutto un rapporto con la parola che si disfa, non è più presente quindi la parola che nasce e cresce con la conseguente gioia di questa filastrocca, ma, al contrario, c’è un lessico sfatto quasi, che sta morendo, che riflette su se stesso mentre muore. La mia impronta quindi è strettamente autobiografica, il mio pensiero primo era quello di raccontare la vicenda, che riguarda mio padre e la morte del mio fratellino. Lui morì nel 1963 di leucemia (io avevo 10 anni) e mio padre, un anno dopo, decise di prendere il corpo e portarlo giù in Sicilia. L’immagine di questo viaggio da nord a sud per riportare al suo paese il corpo di mio fratello, è un’immagine che mi ha molto segnato, tant’è vero che a 18-20 anni io mi sono quasi intestardito nel voler scrivere questa vicenda, anche per rielaborarla. M’ha fatto piacere infatti quando Natale Tedesco ha parlato di ‘vibrazione emotiva’ che per me è fondamentale; inoltre ‘vibrazione’ è una bellissima parola perché dà anche l’idea di qualcosa di musicale, e la musica è l’emozione e l’emozione è la musica, questa è letteratura. Insomma a 18-20 anni mi sono messo a scrivere questa vicenda che poi di fatto ho narrato in Baci da non ripetere. E’ stato lo scotto di un tragico pegno che io ho pagato ma evidentemente questo scotto autobiografico non passa, non è una cosa che tu elabori una volta per tutte e poi te ne dimentichi ed inizi a scrivere libri felici. Tra l’altro non è detto che il dolore autobiografico debba portare ad un libro tragico. Con quest’ultimo libro, infatti, ho voluto fare qualcosa di diverso e giocarmi un po’ la carta della comicità, non so se si vede, se il lettore è in grado di vederlo e ha voglia di vederlo, se il libro lo dice oppure no, ma, insomma, io ho voluto inserire anche questa nuova nota, anche se poi nella mia scrittura c’è sempre questo nodo, vero, di un’adolescenza straziata. Il mio tema ricorrente è sì questo, ma anche quello della coincidenza drammatica tra l’inizio e la fine, e questa è una tematica che mi sta molto a cuore. In Azzurro troppo azzurro, c’è questa bambina che aspetta il momento della sua fine; in Tutti contenti questo tema è moltiplicato per mille, perché ci sono tantissimi ragazzini, ex ragazzini, che hanno a che fare o che hanno avuto a che fare, con la morte; e, in Aiutami tu torna lo stesso argomento, che ho voluto prendere un po’di petto, più frontalmente, dando la parola a un ragazzino. Questa volta ho affrontato il problema, per me fondamentale, del riuscire a restituire la voce di un ragazzino attraverso la parola scritta e non solo attraverso un monologo, un monologo interiore, ma proprio attraverso la lettera, quindi mi sono imposto una doppia camicia di forza: mettermi nei panni di un ragazzino che scrive, sforzandomi di renderlo credibile.
Su questo io ho lavorato moltissimo. Ho fatto soprattutto un lavoro di sottrazione. A un certo punto il giornalista ha imposto come una svolta allo scrittore. Io ho riascoltato una mia intervista che ho fatto molti anni fa per un mio amico, ora morto, Viviano Gramigna; in essa lui diceva: «Mai fare il giornalista e lo scrittore insieme: sono due cose che non hanno nulla a che vedere… sono due cose diametralmente opposte. Solo in apparenza hanno qualcosa a che vedere perché lavorano entrambe sulla scrittura ma sono due tipi di scrittura totalmente diverse che non hanno nulla a che fare l’una con l’altra». E in effetti è vero: ha ragione. Io ho sempre tenuto a separare nettamente le due cose, però a un certo punto mi sono dovuto ricredere. C’è stato un momento in cui mi sono detto che il giornalista ha comunque qualcosa a che fare con lo scrittore, ma, soprattutto, ha la stessa attitudine che deve avere lo scrittore rispetto alla realtà; poi naturalmente lo scarto diventa abissale quando si scrive: un giornalista non può scrivere come uno scrittore e viceversa.
D.: Nell’analisi dei suoi romanzi ho notato che lei conferisce grande rilievo al tema della solitudine ma in particolare dell’alienazione. Volevo chiederle perché ha deciso di trattare questo tema in maniera così ricorrente e inoltre, con Aiutami tu, ha scelto d’introdurlo nella vita adolescenziale. Ritiene che ciò permetta d’analizzare meglio la struttura della realtà? Infine volevo chiederle se su questa scelta tematica potevano aver influito alcune reminescenze letterarie, come la lettura di Pirandello, che lei ha più volte citato nelle interviste che abbiamo letto.
R.: Sì, è vero; io lavoro sul tema che chiamerei ‘spaesamento’, in modo abbastanza ossessivo. Lavoro su nodi mentali, psicologici, esistenziali. Indago le situazioni di spaesamento causato dalla solitudine. In Azzurro troppo azzurro, ad esempio, quest’alienazione esplode, e lo fa in modo insensato; l’atteggiamento di Rizzo, infatti, ci fa chiedere perché accadano determinate cose, senza darci una risposta. Io, tra l’altro, credo che la letteratura non debba mai dare delle risposte; se le dà, è una letteratura ideologica che io non amo molto. Scrivere è un percorso attraverso il dolore, la conoscenza, ma è un percorso che lo scrittore stesso non sa di dovere operare. E’ un cammino che va’ seguito dal lettore più che dallo scrittore. “Volevo dire questo” è un verbo coniugato al passato; non bisogna mai dire “voglio dire questo” non ci dev’essere intenzionalità, almeno per quanto mi riguarda. Lo spaesamento, come mi accorgo dopo aver letto i miei libri, è davvero uno dei nodi fondamentali per quanto mi riguarda. È anche questo, inutile negarlo, un motivo autobiografico: riguarda la vita di un uomo che ha vissuto all’estero con un padre che non voleva stare lì. Mio padre per anni ha continuato a dire che presto saremmo tornati in Sicilia . Così, anno dopo anno, per trent’anni. È stato uno sfinimento, uno spaesamento mentale e anche una specie di incapacità di vivere nel luogo in cui si vive. E questo è dunque un tema che ritorna. Anche Pietro ha questa incapacità di vivere nella casa in cui lo costringono a vivere, in cui magari potrebbe anche stare bene: in questo libro abbiamo esclusivamente il punto di vista di Pietro. Tutto quello che lui ci racconta potrebbe essere totalmente inventato, anche se poi c’è questo artificio della cornice che a un certo punto legittima le cose raccontate da lui. Quindi c’è questo scatto da una finzione possibile ad una realtà urgente. Io potrei anche stare qui a fare discorsi filosofici, che non mi piacciono per niente, quindi accenno soltanto che lo spaesamento dei miei romanzi è quello dell’uomo ed anche del bambino globale che non riescono più a comunicare, che si ritrovano a vivere in un mondo estraneo, che non amano. È chiaro che questa condizione, vista dal punto di vista di un ragazzino, diventa qualcosa di ingigantito o, a secondo dei casi, di rimpicciolito, ma è comunque la condizione dell’uomo di oggi. È una condizione che io ho cercato di raccontare, anche senza volerlo, già con Nino Motta, dove lo straniamento si ha già con la sua amnesia che lo porta fuori di sé finché, a un certo punto, acquisisce quel tanto di consapevolezza che basta per abbandonare la famiglia e andare a fare questo viaggio a ritroso nell’inferno della sua infanzia. In questo, certo, soprattutto Pirandello c’è, ma di questo mi accorgo dopo. Il fu Mattia Pascal, che è un libro che io ho amato moltissimo, è uno dei primi libri che ho letto. Inoltre c’è anche Verga, ma c’è soltanto per quanto riguarda l’aspetto fonico, musicale, al fine di dare un ritmo profondo alla narrazione. Quando non so come andare avanti nella scrittura, infatti, apro una pagina di Verga e riprendo tranquillamente perché Verga per me è una musica di letteratura.
D.: In diverse interviste che lei ha rilasciato dice che ha iniziato a scrivere per dare un ordine alle sue emozioni; la stessa cosa accade a Pietro che scrive le lettere, non tanto per ricevere delle risposte, ma per dare una forma al caos della sua vita. C’è qualcosa di analogo tra lei e Pietro? E poi volevo chiederle anche qual è il suo rapporto col personaggio della Mocciosa.
R.: Ho cominciato questo libro nel ’96 ed ho convissuto con Pietro per nove anni e, parlandone con voi, continuo ad avere accanto questo ragazzino, che parla, si agita, si angoscia, si muove. Il rapporto coi propri personaggi a un certo punto si e volve e diventa come una relazione tra due persone. Quando ho scritto la prima edizione di Aiutami tu e ho visto che il libro non mi piaceva, ho abbandonato Pietro per quattro anni e, quando l’ho ripreso, mi sono accorto che la sua era una storia che aveva lavorato dentro di me più di altre, più di storie che, magari, risultavano più complicate nella scrittura, ma meno complesse sul piano emotivo. Per me questo è stato un libro emotivamente importante. Vi dicevo che quando ho ripreso il romanzo per cercare di rielaborarlo, Pietro era inaspettatamente cresciuto: nella prima edizione, quando il libro era un diario, lui aveva solo nove anni, mentre ora ne ha tredici. È cresciuto insomma. Io non sapevo che Pietro potesse continuare a vivere una vita nascosta, segreta, clandestina, sua, ma è stato così. Io non potevo più raccontare Pietro, a un certo punto, se non il Pietro tredicenne. Quindi c’è un rapporto di simbiosi molto profonda, per cui, secondo me, a un certo punto l’autore si accorge che il proprio personaggio comincia a camminare sulle proprie gambe, a parlare, a dire cose che lo scrittore non prevedeva. Il personaggio si muove e parla tu devi soltanto stare ad ascoltarlo e a seguirlo. Questo è il rapporto che io ho coi miei personaggi per cui non saprei mai dire all’inizio che cosa faranno.
Ho anche gradito il riferimento fatto, nella domanda, alla Mocciosa, perché per me lei è un personaggio importante del romanzo, insomma direi quasi il personaggio che mi piace di più, perfino più di Pietro. Ho iniziato ad abbozzarlo senza sapere cosa ne sarebbe venuto fuori. Sì, è vero che il libro è nato da un fatto di cronaca, riguardante due fratelli che uccidono i nonni, (tant’è vero che nella prima edizione non ci sono i Nespola ma i nonni), però non avrei saputo dire bene come sarebbe andata a finire. Col personaggio si cresce insieme e poi non resta che seguirlo con pazienza e scrivere ciò che egli stesso suggerisce. La prima stesura del libro era diaristica e quando l’ho ripreso in mano ho sentito l’esigenza di dare a Pietro una possibilità in più, la possibilità di parlare con qualcuno, con un interlocutore, anche muto, ma che avesse un orecchio enorme, che fosse capace di ascoltarlo, di ascoltare le sue inquietudini. Ovviamente questo personaggio con un orecchio enorme è Marianna.
D.: Rifacendomi alle funzioni proppiane mi sembra di poter dire che Marianna svolga la funzione di aiutante. Propp evidenzia inoltre come spesso, nelle fiabe russe, uno degli aiutanti principali è il Gelo, non a caso Marianna, in una lettera, viene soprannominata Volstock, che è appunto il luogo in cui si è registrata la temperatura più bassa. Qui però la figura dell’aiutante interviene alla fine, quando già la vicenda è conclusa. Perché?
R.: Quella di Marianna come aiutante è una definizione che mi piace. Se non sbaglio Bonura, in una recensione, ha parlato del libro come di una favola moderna: a me questa definizione piace moltissimo. Io prima di consegnare i miei lavori all’editore, di solito li dò a qualche amico fidato e, in questo caso, il mio primo lettore mi ha detto che, a suo avviso, i Nespola erano un po’ troppo orchi e privi di sfumature intermedie.. Io volevo proprio questo. Volevo che i Nespola fossero proprio gli orchi della fiaba, di conseguenza la vostra lettura in chiave proppiana mi interessa molto. Scopro soltanto adesso la coincidenza fra la funzione dell’aiutante e il Gelo e in effetti nel mio libro esso ha una funzione precisa, perché si trova proprio a metà della storia quando il testimone dell’aiutante viene passato da Marianna a Blerina. Questo passaggio lo intendo come uno sdoppiamento di Marianna; Blerina rappresenta l’amore concreto. E ciò che in Marianna è una proiezione inventiva, in Blerina è reale. La fisicità finalmente presente, con le ginocchia che si sfiorano, è il segno d’u na maturazione da parte di Pietro che acquisisce via via confidenza con l’altro sesso.
D.: Ho notato che nel romanzo la figura della Mocciosa acquista sempre più rilievo, infatti, mentre nella prima parte Pietro parla sempre usando la prima persona singolare, nella seconda il soggetto cambia in “noi”. Allora mi chiedo se il personaggio della Mocciosa è nato così fin dall’inizio o se è andato maturando col tempo.
R.: La Mocciosa cresce nel romanzo. Vi è in effetti una maturazione di questo personaggio che, poco per volta, prende consapevolezza di sé e riesce anche a interagire con Pietro. Non va dimenticato che si tratta, comunque, di due bambini che, come tali, hanno momenti di grandissima lucidità, perfino eccessiva ed esasperata, e momenti di ingenuità infantile che lascia interdetti. Paradossalmente, in certi casi, la lucidità della Mocciosa prende il sopravvento rispetto alla psicologia di Pietro, nonostante egli sia il fratello maggiore. Al rigore un po’ freddo di Pietro la bambina contrappone un’ironia più coinvolgente per il lettore. E quindi il passaggio dall’io al noi è la presa di consapevolezza da parte dello scrivente, cioè di Pietro, che comincia a capire di potere anche contare sulla sorellina, che prima pensava fosse una nullità.
D.: Volevo chiedere se, nella costruzione dei personaggi, lei oltre a focalizzare l’attenzione sulla psicologia di Pietro, si è anche immedesimato nel personaggio di Marianna, destinataria di lettere che non sa neppure se sono vere o false?
R.: Anche questa è una bella domanda. I lettori spesso si dividono in chi si immedesima i n Pietro e chi in Marianna. Quest’ultima però, anche se la vediamo solo attraverso la lente deformante di Pietro, agisce anche concretamente nel romanzo: in qualche modo Marianna ascolta, che è la funzione fondamentale, perché la carenza più grande avvertita da Pietro, ciò che gli impedisce di vivere una vita normale, è proprio la mancanza dell’ascolto. Non ha genitori in grado d’ascoltarlo, c’è un padre evanescente, che non dà mai risposte, c’è una madre che si comporta sempre in modo assurdo o eccessivo. Marianna è un punto d’equilibrio in tutto questo: è l’ascolto distante. Marianna dunque è un personaggio sostitutivo dei due genitori e li contiene in questa facoltà dell’ascolto. Però non dimentichiamo che è anche un personaggio attivo: noi non capiamo cosa fa, ma qualcosa fa evidentemente.
D.: Mi ha molto incuriosito il modo in cui lei ha costruito questo romanzo: per tutto il corso della vicenda il lettore rimane in bilico riguardo alla veridicità dei fatti narrati. Pietro è l’unica voce narrante e c’è nessuno che possa smentire ciò che lui dice. A un certo punto però lei inserisce questo documento finale, che da lettrice, mi ha anche un po’ disturbato, in cui svela ogni mistero e toglie al lettore il piacere della congettura. Perché ha incluso un finale tanto perentorio al suo romanzo?
R.: Nel romanzo c’è un gioco voluto: io volevo che il lettore si interrogasse su questa vertigine causata dal rapporto ambiguo tra finzione e realtà; tra la dimensione della realtà raccontata da Pietro (il non sapere fino a che punto il personaggio dice la verità e fino a che punto mente) e quella che a poco a poco acquisiamo come realtà data. È verissimo quello che lei dice: non c’è nessuno che possa smentire quello che Pietro racconta.
Ma arriviamo a questo documento. Io devo dire, onestamente, che il romanzo non aveva né un inizio né una fine. L’ho consegnato all’editore senza la cornice. Quando ho visto le copie mi sono trovato a ripensarlo. Ripensare è una cosa che mi capita spesso, evidentemente sono una persona molto incerta! In Tutti contenti mi era successa invece una cosa molto bella che risolveva il tutto. Avevo già dato il titolo al libro tempo prima; stavo lavorando su Dante per il “Corriere della Sera”, apro il 24° canto del Purgatorio e trovo i versi “molti altri nomò ad uno ad uno e del nomar parean tutti contenti” … Dante mi diceva in quel momento (questa è una mia presunzione ovviamente) cos’è che avrei dovuto fare dando quel titolo. Io nominavo i personaggi che incontravano Nino Motta e solo il fatto di nominarli, di nomarli, li rendeva tutti contenti. Mi sentì quindi obbligato a mettere quei versi come epigrafe, che hanno dato un significato in più al libro. Per Aiutami Tu il problema era un altro: io venivo fuori da questa mia convivenza molto affettiva e partecipata con Pietro e quando ho finito di leggere le bozze, mi sono chiesto cosa volessi dire con questo romanzo. La mia partecipazione emotiva ai destini di Pietro e della Mocciosa mi ha imposto d’inventare un escamotage per tirarli fuori da quel labirinto giudiziario in cui si sarebbero cacciati. Ho voluto quindi inventare una storia per cui tutte le colpe sarebbero ricadute su qualcun altro. Ma si badi che, comunque, permane nel romanzo un fondo d’incertezza, non sono infatti molto d’accordo con quello che lei dice a proposito d’imporre al lettore un’interpretazione univoca dell’accaduto. È vero che questo finale chiude il libro e potrebbe sembrare anche non rispettoso nei confronti del lettore, però apre anche, improvvisamente, dei nuovi interrogativi, perchè, in fondo, non dice chi è che ha commesso il delitto. Io personalmente non lo so. Naturalmente non lo sa Pietro e non lo sa la Mocciosa. Forse lo scopriranno in futuro, ma bisognerebbe interrogare Pietro, scrivere un altro libro, forse la seconda puntata potrebbe dirci chi è che ha commesso questo delitto. Quindi non sono così d’accordo di quest’irritazione… e mi spiace un po’. In fondo la cornice non ci svela tutto, ci dà soltanto dei dati di realtà in più rispetto al momento finale della vicenda. Sulla realtà e sulle invenzioni di Pietro non sappiamo né più né meno che se il romanzo si fosse concluso prima, per fortuna l’unico dato in più che viene fornito è che Pietro non è colpevole. Quindi io l’ho preso all’ultimo momento per i capelli e l’ho salvato dalla condanna fatale…Anche se nelle fiabe gli orchi e le streghe potrebbero tranquillamente essere uccisi ed eliminati. Ma il gioco è sempre un po’ tra giallo e fiaba.
D.: Ho notato che il romanzo, dopo una crescita del ritmo con il racconto del sequestro, viene interrotto con l’omicidio… perché non ha continuato il racconto approfondendo la sfera emotiva?
R.: Per quanto riguarda il calare della tensione, nel libro, mi dispiace. So che c’è una stasi in questo romanzo, però questa stasi impone un martellamento ossessivo; le immagini di Pietro che ritornano, è un martellamento sull’intensità del suo dolore che a poco a poco si gonfia e diventa incandescente al punto tale da lasciare presagire al lettore che accadrà qualcosa di esplosivo. È chiaro che, come tutti i martellamenti, conferisca al libro un andamento sordo, statico e, magari, fastidioso, ma io volevo che il risultato fosse proprio questo. E’ come se questa stasi fosse il preannuncio di un’esplosione finale. Se questo non è riuscito, evidentemente ho sbagliato qualcosa. Questo martellamento ha un ruolo fondamentale nei miei libri e di questo mi rendo conto
D.: Volevo chiederle se nel passaggio dalla forma diaristica alla forma epistolare c’è l’espressione d’una esigenza di comunicazione e se avverte anche lei quest’esigenza di comunicazione col suo pubblico?
R.: Io mi penso un po’ Pietro. L’attitudine di Pietro rispetto alla scrittura è un po’ la mia: il bisogno d’essere ascoltati, che è poi il bisogno un po’ di tutti gli scrittori, di trovare una Marianna che ci ascolti nella vita. I lettori sono come tante Marianne per me. C’è l’attesa di Pietro che non sa mai come reagisce Marianna e c’è l’attesa da parte dello scrittore perché non sa come reagirà il pubblico. È per questo che occasioni come queste sono splendide, perché fanno capire che infine qualcosa si è davvero realizzata; lo scrittore trova la sua ragion d’essere in questi incontri, nel fatto che i lettori dicano cose inaspettate che lui non poteva immaginare. La possibilità di stabilire un contatto con gli altri è proprio quello che noi, che io spero di fare attraverso la scrittura.
D.: E’ stato difficile rendere sulla pagina il linguaggio di un tredicenne? Non ha avuto paura di dare l’immagine di un ragazzino troppo acculturato?
R.: Per la scelta del linguaggio mi ha aiutato moltissimo il lavoro di giornalista. Io ho ascoltato parlare tantissimi ragazzini e li ho trascritti sul mio taccuino. Questo lavoro di ascolto, trascrizione e riproduzione sulla pagina è qualche cosa che impone un continuo aggiustamento. È come una lente attraverso la quale tu non vedi la realtà ma qualcosa che assomiglia alla realtà attraverso una correzione. Riprodurre la lingua di un tredicenne, quindi, mi è venuto facile, o meglio più facile magari rispetto ad altri che non avevano mai avuto esperienze giornalistiche simili alla mia. In parte è stato anche un lavoro pesante perché mi sono documentato su tanti libri, non solo per quanto riguarda la scrittura, ma anche riguarda alla psicologia dei ragazzi. Un testo che per me è stato importantissimo e che leggevo proprio in quel 17 ottobre 1996 è un libro di Ballard che narra, in maniera scherzosa, una vicenda altrettanto clamorosa che lascia disorientato il lettore. È una terribile storia, ambientata in una zona residenziale di Londra, nel 1988, in cui 16 o 17 ragazzini, una mattina, decidono di far fuori i loro genitori e tutti i parenti. Tutto è descritto in modo così puntuale, preciso, che a un certo punto io ho sentito l’esigenza telefonare alla redazione del “Corriere della sera”, per chiedere se potevano inviarmi il dossier preciso di quel fatto accaduto a Londra nel 1988. Senonché dopo 10 minuti mi hanno ritelefonato per dirmi che in realtà quell’episodio non si era mai verificato. Ballard, quindi, è riuscito a gestire in modo agghiacciante, visionario e realistico insieme, una vicenda di questo genere. Altri libri sono stati importanti, poi, come Il giovane Holden, o un libro pubblicato da Garzanti, Il Macellaio.
D.: Lei ci ha presentato Pietro come un ragazzino molto colto ed intelligente rispetto alla sua età, tanto da paragonarsi a Telemaco. Questa soluzione del ragazzino colto è stata una sorta d’escamotage per non allontanarsi dal suo essere costitutivo di scrittore?
R.: Il mio intento è stato quello di riprodurre la voce del ragazzo. Qui non c’è nessuno sforzo mimetico ma uno sforzo di credibilità. Il ragazzino che scrive dev’essere un ragazzino credibile, per questo ho dovuto utilizzare l’artificio della genialità per giustificare alcuni pensieri o delle espressioni di Pietro; d’altra parte la letteratura è piena di ragazzini che fanno cose mirabolanti e sono comunque credibili. Io non so se ci sono riuscito ma intanto vi dico che anche la vita in fondo è piena di ragazzini che ci sorprendono ad ogni piè sospinto e dicono cose che ci lasciano allibiti, sia per forza poetica, sia per capacità di guardare lucidamente la realtà.
D.: Nel suo romanzo ho trovato dei passaggi che mi hanno ricordato dei libri di Italo Calvino: ad esempio, la situazione tragica di un tredicenne potrebbe ricollegarsi a quella del protagonista del Sentiero dei nidi di ragno. Un altro riferimento potrebbe celarsi nella frase che Pietro scrive a Marianna: “vorrei vivere sugli alberi”, che ricorda la condizione di Cosimo nel Barone rampante. Quanto Italo Calvino ha contribuito alla sua formazione?
R.: Amo tantissimo Calvino. Lo amo molto, eppure non c’è nessuna coincidenza consapevole nella mia scrittura.
D.: Pensavo a questa data fatidica del 17 ottobre 1996 come data d’inizio della gestazione di Aiutami Tu. Il 1996 è anche l’anno di Azzurro troppo azzurro. Leggendo questo romanzo mi è sembrato di sentire delle assonanze fortissime, a livello formale, tra il monologo epistolare di Roberta, che ad un certo punto si innesta nel tessuto narrativo, ed il monologo epistolare di Pietro. Sia per le esigenze liberatorie dalle paure che muovono le lettere di Roberta e per il genere diaristico autoconoscitivo e quindi autoanalitico, che, anche, per la consapevole assenza di destinatario. Vorrei sapere se si tratta solo di fortuite coincidenze.
R.: È verissimo. Io sento questo libro molto vicino ad Azzurro troppo azzurro. Una cosa formidabile è la vicinanza fra Pietro e Rizzo e la rabbia esplosiva che hanno tutti e due, ma c’è anche una somiglianza di ritmo. Non avevo pensato alla somiglianza tra le lettere di Roberta e quelle di Pietro, però è anche vero che nei miei libri ricorre spesso la forma epistolare. Sotto tale aspetto Aiutami tu è un libro atipico rispetto agli altri, perché i miei libri sono un po’ ‘sporchi’ in quanto introducono lettere che vanno, ritornano, spariscono, poi riemergono, qui, invece, la lettera diventa proprio strutturante. Una certa claustrofobia è in Azzurro troppo azzurro come in Aiutami tu. Ovviamente in quest’ultimo romanzo tale sensazione è moltiplicata, perché è quella di un bambino ed è anche una claustrofobia mentale. Pietro dice a Marianna: «fammi uscire dalla mia testa», è come se la sua testa fosse un bunker da cui deve uscire. Ovviamente in Azzurro troppo azzurro il lettore si trova di fronte a una situazione già conclusa, il personaggio è in una situazione claustrofobica, però ne parla a posteriori, quando ormai ha deciso la sua fine, ha fatto fuori quelli che doveva far fuori; mentre in Pietro c’è una rabbia che cresce ed esploderà.
D.: Mi è sembrato di notare, nel frequente utilizzo delle pareti come schermi sui quali Pietro proietta sogni e paure, una similitudine con la tecnica cinematografica, dove le immagini della fantasia prendono forma sul bianco telo vuoto. È questo il pensiero che l’ha ispirata nell’utilizzare questo continuo riferimento alle pareti? O forse ha subito l’influenza della descrizione dei non-luoghi di Marc Augè?
R.: Qui siamo davvero in luoghi chiusi. A parte qualche scena, per esempio quando Pietro racconta il suo viaggio in Puglia. Però mi piace molto l’idea di queste pareti bianche che danno la possibilità di una proiezione fantastica, e del pensiero di Pietro che, come una cinepresa, proietta delle immagini su uno sfondo quasi cinematografico. Ma si può, di certo, parlare anche di non-luoghi: non sono questi i luoghi in cui un ragazzino si può riconoscere, infatti. Del resto, secondo me, girando le case degli italiani ci si ritrova spesso ad avere a che fare con stanze che sono davvero dei non-luoghi. Io ricordo d’essere stato, per il “Corriere della sera”, a Biella in casa di un ragazzino che si era appena buttato giù dalla finestra. Una mattina stava arrivando la polizia per portarlo via perché avevano scoperto che lui trafficava in siti pedofili e questo ragazzino, capita la situazione, alle 6 del mattino si era buttato giù dal secondo piano. Sono arrivato lì nel pomeriggio e la madre mi ha portato a visitare la stanza del figlio, che ha definito “una centrale nucleare”. In effetti era piena di computer, di apparecchi per cd, masterizzatori, etc…: un non-luogo, insomma. Si tratta di posti in cui non ci si può ritrovare. Forse Pietro vive questa condizione anche perchè non si trova proprio a casa sua: a un certo punto lo deportano in una sorta di lager, rappresentato dalla casa dei Nespola.
D.: Quanto coscientemente la Morfologia della fiaba di Propp ha agito sulla stesura di Aiutami Tu?
R.: Propp a me interessa molto sul piano critico. Una volta all’Università decisi di fare una tesina su di lui, cioè di cose di cui non sapevo assolutamente nulla. Mi caricai, così, di un grosse mole di lavoro, ma ho provato un amore smodato. Se Propp entra così trionfalmente in Autami tu non posso che esserne felice.
D.: Nei suoi libri è frequente il tema del ritorno alla terra d’origine: la Sicilia. È una necessità che sente anche lei?
R.: Non so, mi piacerebbe tornare in Sicilia ogni tanto, ma, forse, mi sono liberato da quell’angoscia del ritorno di mio padre e da quella nostalgia per cui bisognava tornare assolutamente perché non si poteva vivere in nessun altro posto se non in Sicilia e, non in Sicilia, ma ad Avola e, non ad Avola, ma in quella casa precisa di Avola. Adesso mi piacerebbe tornare in Sicilia in modo libero e leggero. Ogni volta che ci torno mi sento un po’ me stesso. Magari un giorno ci tornerò a vivere, magari non definitivamente ma per più tempo rispetto ad adesso.
D.: Blerina rappresenta tutto quello che Marianna non è: reale, concreta. Secondo lei qual è il più grande aiuto che Blerina offre a Pietro?
R.: Blerina è per me una fonte di comicità, lei è sorella della mocciosa in questa possibilità comica. Ma Blerina rappresenta anche, come dice lei, il passaggio di Pietro da una facoltà di parlare a distanza, di proiettare a distanza i propri desideri, le proprie angosce, alla presa di coscienza che esiste una vita reale, fisica, ma anche una certa normalità. Blerina è la normalità. C’è questa opposizione strana, per cui Marianna è un nome comune che però non si riferisce a una persona comune, mentre Blerina è un nome esotico, attribuito però a una figura molto vicina. C’è questo rapporto quasi di opposizione tra le due figure ma è una cosa che mi piace e che forse ho anche voluto. E’ come se l’esoticità potesse farci conquistare una dimensione di normalità.
26 aprile 2006