Il capitolo si apre con una descrizione di Piazza San Pietro, in un giorno di udienza papale: siamo nel 1950, anno del Giubileo. Tutti i motivi presenti nel capitolo precedente sono ora ripresi. Le notizie a disposizione dell’autrice si mescolano sapientemente con la costruzione romanzesca.
Stracolma di gente, Piazza San Pietro ospita pure Vita e un gruppo di donne americane, sue compagne di viaggio. La descrizione della piazza che la Mazzucco ci offre, coglie Vita nell’atteggiamento di chi cerca “un ago nel pagliaio”. “E’ l’unica che volga le spalle alla Porta Santa”(p. 224). Vita è lì solo per rivedere il suo Diamante, e le compagne che non la troveranno, una volta preso posto all’interno della basilica, lo capiscono: sanno bene che quel viaggio ha per Vita un significato diverso da quello che ha per loro. Per Vita è il tentativo di ricostruirsi un’esistenza, di ritornare indietro nel tempo e ricucire lo strappo provocato dal suo allontanamento da Diamante. Mentre pensieri diversi si agitano nelle parole delle signore americane, Vita è già con Roberto, il figlio di Diamante. Lo ha riconosciuto non per una somiglianza spiccata con il padre, ma perché ha lo stesso “sguardo fuggitivo” (p. 225), le stesse “labbra troppo belle” (p. 225), la stessa timidezza. Nel momento in cui Vita vede Roberto si rende conto che quel Diamante da cui si era separata trentotto anni fa non è più un ragazzo ma un uomo di mezz’età.
Quando Roberto si scusa perché il padre è impegnato e non è potuto venire, Vita si fa accompagnare da lui. Non aveva attraversato l’oceano per nulla. Durante il tragitto Roberto racconta della sua vita a questa signora un po’ grassa, con degli arditi occhialini scuri a forma di farfalla, vistosamente vestita di nero.
I dettagli che la scrittrice mette a fuoco descrivendo il palazzo e l’appartamento di Diamante fanno scoprire al lettore una vita malinconica, una casa in penombra, un “corridoio, lungo, stretto e anonimo come un sogno” (p. 229). La descrizione, minuziosa ed espressiva, del Diamante che si offre allo sguardo di Vita ci permette di intravedere tutte le sconfitte, i dolori e i rimpianti che Diamante si porta dentro. Vita non ritrova il Diamante a cui aveva dato appuntamento nella scialuppa di salvataggio “i diamanti -sebbene preziosi, scintillanti e capaci di tagliare il vetro-brillano solo di luce riflessa. Al buio non servono a niente.” (p. 234).
La scrittrice tratteggia in questo capitolo una figura di Diamante forse troppo opaca, eccessivamente lontana da quello che Diamante è in tutto il resto del romanzo. Non è più un personaggio forte, determinato e innamorato della sua Vita; Diamante è adesso un pensionato triste, un vedovo che, pur continuando ad essere legato al ricordo della moglie, va in cerca della compagnia di donne per lui troppo giovani. Insomma, dalla Mazzucco, Diamante in questo capitolo, viene eccessivamente demitizzato, avvicinato ad una realtà autobiografica che sminuisce la figura del personaggio dell’intero romanzo. Emerge da queste pagine un alone di malinconia che investe in pieno Diamante, ma che sfiora appena la figura di Vita.
La Mazzucco ci fa poi conoscere la famiglia di Diamante, con piccoli ma precisi accenni ad Amedeo, il figlio primogenito, appassionato di teatro, sposatosi giovanissimo con “la prima ragazza che gli ha sorriso”(p. 226); a Vita, l’unica figlia di Diamante, che non vuole sposarsi e che non guarda mai la sua ospite omonima negli occhi, “perché il suo nome le ha sempre ricordato che non era chi avrebbe dovuto essere”(p. 231).
Si riaffaccia il tema delle parole, e nel silenzio che scende durante il pranzo “a Vita piacque pensare che [Diamante] avesse dimenticato le parole, e che avesse bisogno di riceverne altre”(p. 232). Ma, subito dopo pranzo, un fiume di parole sgorga dalla bocca di Diamante e travolge Vita. “Vita si chiese se parlando Diamante cercasse di trattenerla, o allontanarla definitivamente. Le parole erano sempre stata la loro moneta. Ma una moneta fuori corso, valida solo nel loro paese.”(p. 235).
Quando scendono in strada, dopo un pomeriggio trascorso nella penombra del tinello, seduti uno di fronte all’altra su poltrone consunte dal tempo, Vita propone a Diamante di raggiungerla a Tufo, però, a Diamante, “lei forse neanche se ne rende conto, ma gli ha spezzato in due la vita.” (p. 238) Vita, salendo sul taxi che la porterà in albergo, si ritrae, perché sa che “Diamante non sarebbe sopravvissuto al contatto delle sue labbra.”(p. 238) Diamante guardandola dietro il finestrino con l’ingranaggio bloccato “non aveva niente da aggiungere, e tutto da dirle ancora.” (p. 238). Arrivederci, promette Vita al suo Diamante, ma lui sa già che quella sarà l’ultima volta che si vedranno. A settembre Vita ripartirà per l’America. A gennaio riceverà un telegramma da Roberto: “DIAMANTE MORTO”(p. 239).
Questo capitolo è l’epilogo della storia di Vita e Diamante, posto dalla scrittrice alla fine della seconda parte, anticipando notevolmente la conclusione del romanzo. E’ un capitolo intriso di nostalgia, di ricordi. Il modo in cui Vita e Diamante tratteggiano le figure di Geremia e di Emma, i rispettivi coniugi deceduti, ci permette di cogliere i particolari della vita e dell’animo dei due, accomunati dallo stato di vedovanza, dall’amore reciproco che ancora non li ha abbandonati, ma oramai irrimediabilmente lontani. Le ultime parole del capitolo, che occupano appena tre righe, ci raccontano scarnamente della fine di un amore, della fine di un sogno e di una “Vita”.