A conclusione delle attività di laboratorio,lo scrittore Domenico Starnone, introdotto dal professore Natale Tedesco, incontra gli studenti:
DOMANDA: «Scrivere è vivere fino a morire di scrittura». È una frase che mi ha particolarmente colpito durante la lettura del romanzo e su cui mi sono ritrovata con insistenza a riflettere anche dopo aver concluso il libro. Che significato attribuisce lei all’espressione? È davvero possibile «morire di scrittura», considerando che lo stesso protagonista sembra accettare l’elementare consistenza dell’esistenza quando, nel colloquio con la moglie Clara, che chiude il romanzo, dichiara: «È questo che rende imperfetto ogni gioco ma va bene così»? E inoltre, considerando che il protagonista di Labilità vive patologicamente il suo rapporto non solo con la scrittura, ma pure con la lettura, possiamo affermare che anche «leggere è vivere fino a morire di lettura»? Fino a che punto la lettura condiziona la vita dello scrittore nel libro, e fino a che punto ha influito sulla sua?
R: Innanzitutto vi ringrazio per aver letto il libro, so che ci avete lavorato sul serio. Ringrazio la professoressa Perrone per il suo invito, e il professore Tedesco per la sua presentazione di Labilità, davvero molto bella. A questo proposito, devo complimentarmi perché il riferimento che fa a Bontempelli è fondato. Amo molto Bontempelli e sono convinto che ha esercitato un’influenza molto forte su parecchi scrittori italiani. C’è un racconto di Bontempelli, Quasi d’amore, a cui che Labilità deve sicuramente qualcosa. Invito, voi ragazzi, a leggere Bontempelli, ci sono non poche storie che hanno molto da suggerirci. Quasi d’amore, ad esempio, è un racconto di grande forza inventiva e vicino al sentimento del reale che abbiamo oggi. «Scrivere è vivere fino a morire di scrittura, leggere è vivere fino a morire di lettura» sono proposizioni che hanno una lunga e complicata tradizione. Sono convinto che noi siamo tutti, scrittori, lettori, persone comuni che si muovono nel grande circo di oggi, ancora dentro un unico grande libro, che è il Don Chisciotte di Cervantes. Don Chisciotte è un uomo che legge fino a morirne. Si ricorda di uscire dalla lettura – dal suo inscriversi nella scrittura – solo in punto di morte. In genere noi usiamo la figura di Don Chisciotte per farne una metafora del personaggio che combatte con coraggio secondo valori che il mondo che non capisce più. Trascuriamo, in realtà, che la grande invenzione del Chisciotte è: un signore entra nei libri e non sa più uscirne; un tale, cioè, comincia a leggere e lentamente perde il senso del reale per entrare in un diverso altro reale, quello costruito dalla parola scritta.
E’ un’invenzione che frutta molto nel tempo. Dal Don Chisciotte si può saltare a Madame Bovary. Madame Bovary ha lo stesso problema: è una signorina che legge romanzi d’amore e vi si perde al punto che il mondo che la circonda non le interessa se non rimodellato dalla finzione. Il tentativo di far aderire la realtà al romanzo porta verso la morte, e la morte di Madame Bovary è una delle più terribili che siano mai state raccontate in letteratura. C’è stato chi ha sottolineato che quando Madame Bovary, dopo essersi avvelenata, comincia a vomitare nero, beh, ciò che sta vomitando è proprio l’inchiostro dei caratteri a stampa che ha assimilato attraverso gli occhi: in pratica, prende a vomitare se stessa lettrice. Faccio un altro esempio: Conrad, Lord Jim. Il protagonista ha letto romanzi d’avventura e ha pensato di poter essere come gli eroi di quei romanzi; ma poi è salito su una nave e, quando si è trattato di fare l’eroe senza macchia e senza paura, ha scoperto che eroe non era, si è macchiato, ha avuto paura. In tutte le sue scelte future Jim è condizionato dai libri che ha letto: essi sono diventati più potenti della realtà dentro cui vive, più potenti del suo stesso corpo, della sua struttura psicofisica. Sente il bisogno di essere come nel libro, e quando non ci riesce si disprezza. Un ultimo esempio (ma se ne possono rintracciare molti altri, fino ad arrivare alla letteratura fantascientifica, al gioco sempre più ingarbugliato tra mondi veri e mondi falsi del cinema d’oggi) è un lungo racconto di Henry James, Giro di vite. È uno dei libri più complessi che io abbia letto e qui perderemmo troppo tempo a esaminarlo: certo la protagonista, un’istitutrice che legge libri, finisce nella vicenda di fantasmi che attraversa il romanzo e agisce come agisce proprio perché all’origine è una lettrice. Se si dimentica che l’istitutrice di James è una filiazione estrema del Chisciotte, secondo me si perde molto di Giro di vite. Ma torniamo a noi. Io sono stato un lettore totale, da ragazzino nei romanzi ci cadevo e facevo molta fatica a venirne fuori, molte letture mi sono rimaste attaccate addosso per sempre. Noi oggi diciamo che è importante leggere, e sicuramente lo è, ma guardate che i libri hanno anche un loro versante guasto, rischioso, così come anche un versante guasto e rischioso ce l’ha la scrittura, così come ce l’ha la parola stessa, di cui noi siamo un po’ tutti prigionieri. Io credevo alle storie, lo scrittore per me era uno che le cose raccontate le aveva viste con i suoi occhi, le aveva vissute direttamente. Lo scrittore era dentro la scrittura, insieme ai suoi personaggi, non fuori. Sono stato (e forse sono) un lettore ingenuo, anche uno scrittore ingenuo, che crede cioè alla verità delle storie come se quella verità fosse ancora garantita dalle muse, da un dio..
Il piccolo libro Labilità, che viene alla fine – ma proprio alla fine – dei grandi libri che vi ho citato, in qualche modo è come se fosse una parodia della parodia: il Don Chisciotte è già una parodia, un po’ tutti i grandi romanzi della modernità, è stato detto, sono parodie. Noi, che miserabilmente scriviamo oggi, probabilmente facciamo parodie di parodie. Lo scrittore giovane e lo scrittore anziano – protagonisti della vicenda – sono scrittori di un’epoca che sta mettendo una pietra sopra alla figura del narratore così come è stata idealmente vissuta, diciamo, fino agli anni sessanta del Novecento. Essi sono una sorta di esito degradato di una funzione che si è andata sempre più consumando: dallo scrittore-vate allo scrittore-voce dello spirito del tempo. L’io di Labilità, il giovane Gamurra, dovete sentirli sì drammatici ma anche un po’ comici; sì carichi dei problemi dello scrivere, del leggere, della relazione tra il mondo reale e quello della finzione, ma anche invischiati dentro una tradizione consumatissima da cui non sono capaci di uscire per aderire a una qualche figura nuova, audacemente adeguata ai tempi correnti, che sono tempi di messinscena, di recita, tempi non dell’essere ma del fare come se si fosse. Quando il protagonista dice «scrivere è vivere fino a morire di scrittura» confessa, in sostanza, la sua ambizione di voler essere scrittore assoluto, senza scollatura, non uno che recita un ruolo, ma che è fino in fondo quel ruolo con dedizione e coraggio. «Uno scrittore vero», diceva Fitzgerald, «deve essere imprudente». Io aggiungerei, per quel che riguarda il personaggio del mio libro: «uno scrittore vero deve essere imprudente e impudente», deve darsi allo scrivere senza prudenza e senza pudore. Lo scrittore anziano di Labilità è uno che per tutta la vita ha tentato di essere, nelle sue smanie creative, imprudente e impudente, ma c’è riuscito veramente solo da cucciolo, quando è arrivato lì, davanti ai suoi compagni di scuola, con lo sgorbio del Boniperti e ha detto “Questo è il Boniperti: o mi seguite dentro i segni, alla cui potenza io credo più che alla potenza del banale mondo vero, oppure, se restate coi piedi per terra come Sancho, non avrete mai nessuna figurina. Voi perderete nella vostra realtà, e io invece vincerò, ho già vinto nel mondo dei segni, sto tutto dentro i segni”. Ha avuto, dunque, da bambino, quella audacia donchisciottesca di entrare pienamente nella fabbrica delle finzioni, ma ciò gli ha causato una tale ferita – il compagno vede lo sgorbio-Boniperti, lo butta via, e con quel gesto spazza via ogni illusione – che non ha avuto più la forza della stessa imprudenza, della stessa impudenza. Da allora il bambino è come se fosse lentamente decaduto come scrittore potenziale. Labilità è parodia anche in quanto è un racconto alla rovescia: in genere la punta alta di una evoluzione si registra nella maturità; invece qui la punta alta si verifica a cinque-sei. Il resto è un continuo decadere, è nostalgia di un’adesione che per un attimo si è avuta e che poi si è persa.
D: Durante il laboratorio mi sono interessato alle citazioni manifeste del libro. Mi sono accorto che molti momenti topici della formazione del personaggio sono legati indissolubilmente alle letture fatte nelle varie fasi della sua esistenza. Volevo sapere se i libri citati nel romanzo sono appartenuti realmente alla sua autobiografia di lettore.
R: Ci sono alcune citazioni esplicite nel romanzo, ce ne sono anche altre più segrete. Chi scrive, in genere, ama molto citare i libri che più lo hanno colpito, in maniera più o meno evidente. I testi che sono esplicitamente citati fanno parte della mia autobiografia di lettore. Io venivo da una famiglia non agiata, nella mia casa non c’erano libri. Qualche giallo ha cominciato a circolarvi solo quando io avevo ormai quattordici o quindici anni. Di fatto, la mia passione di lettore comincia con letture minime, di alcune non ho conservato neanche vera memoria. In Labilità, ad esempio, è citato L’ultimo dei Mohicani, devo averlo letto in una edizione per ragazzi degli anni cinquanta. Martin Eden è un altro libro della mia infanzia. Ma ancora più importante, per me, e per lo scrittore del libro, è stata la lettura di «Annabella», una rivista che comprava mia madre, e che per molto tempo è stata l’unica cosa leggibile che arrivava a casa mia tutte le settimane. Oltre a sfogliarla per vedere le immagini delle bellissime ragazze che facevano da modelle, presi a leggere anche i racconti che venivano pubblicati a puntate. Uno scrittore di non poco per il mio apprendistato di lettore di dodici tredici anni è Giorgio Scerbanenco, non quello rivalutato in quanto romanziere ‘nero’, ‘giallo’, ma quello che scriveva romanzi d’amore e violenza, che a me sembravano bellissimi. C’è n’è uno che nel libro non ho citato, ma che per me è fondamentale: si intitolava Uomini e colombe, c’erano rudi personaggi maschili a cui aderivo totalmente. Poi ci fu la lettura a puntate di Marjorie Morningstar, che allora io pronunciavo Mariòrie Morningstar, e tutt’oggi, se devo sentire la forza seduttiva del personaggio, non posso dire Margiori ma Mariòrie. È un libro mediocre ma all’epoca mi sembrò meraviglioso, ci trovai dentro un mondo. I lettori forti si formano non solo sui grandi libri. Voi non dovete pensare che il lettore si formi leggendo Kafka, quello è un punto d’arrivo, non di partenza. All’origine bisogna essere colpiti intensamente dalla magia dei segni. Il vero lettore, quello che dura nel tempo, è il lettore che – mettiamo – si blocca incantato davanti alla parola USCITA, quando ha otto anni, e ne sente la potenza, ne avverte la magia. È da lì che parte il lettore, non da Dostojevsky, Kafka, etc. Solo se vi accade quella cosa lì, voi diventerete lettori che non possono più fare a meno della lettura, d’intrattenimento o complessa che sia.
D: In Labilità c’è un doppio legame con Calvino: da un lato Calvino è citato esplicitamente attraverso un fine gioco di matriosche (Calvino, probabilmente, scrive a Domenico Starnone come l’autobiografico scrittore protagonista di Labilità scrive a Nicola Gamurra prendendo a modello una lettera che, nella finzione della narrazione, Calvino avrebbe scritto allo stesso protagonista); dall’altro lato lo scrittore usa una serie di tecniche ad incastro: inizia una serie di narrazioni mai finite (il dottore Spallanzani e la teoria della ricrescita delle teste delle lumache, il Boniperti, il compagno di scuola Silvestro) che fanno un po’ pensare a Se una notte d’inverno un viaggiatore; ma quale è il vero e più profondo legame con Calvino nella sua esperienza letteraria?
R: Il primo libro che ho letto di Calvino, all’inizio degli anni sessanta, fu la raccolta dei Racconti, del ‘58. Mi sembrò un modo di scrivere straordinario. Verso i diciassette-diciotto anni sentii che era, per me, una possibilità per uscire dalla gabbia della scrittura meridionale. Essendo un giovane piccolissimo borghese, sognavo di spogliarmi definitivamente del dialetto napoletano, della gestualità napoletana, della cadenza napoletana, della città di Napoli, delle urla che sentivo per casa, e diventare uno scrittore del Nord, uno scrittore settentrionale ed europeo come Calvino. Quando avevo venti anni mi vantavo con una mia fidanzata di essere un grandissimo scrittore e una volta le feci leggere un mio racconto. Questa fidanzata doveva essere accecata al punto da pensare che il mio racconto fosse meraviglioso: lo mandò di sua iniziativa alla casa editrice Einaudi, e Calvino mi rispose mandandomi una letterina di pochissime righe firmata I.C. Diceva grossomodo quello che il protagonista-scrittore di Labilità scrive a Gamurra: “Non è male, ma si vede che sei uno che legge Gogol’, il giovane Ceckov, che insomma fai cose che sono un po’ un frutto fuori stagione. Però se sei convinto che questa è la tua strada, scavaci dentro etc.”. Come credete che possa reagire un giovane ventenne napoletano, timidissimo e insieme di grande superbia, di fronte a questa risposta? Reagii dicendo: “Calvino non capisce nulla”. Ma il legame con i suoi libri restò e dura ancora. La conseguenza è che, pur non avendo conosciuto mai Calvino, con questo scrittore, su uno spazio di pura fantasia, ho stabilito un rapporto intenso, molto forte, che ho provato a mettere in scena in alcuni miei libri. Calvino compare, infatti, nel Salto con le aste, riappare in Labilità, e molte formule di Calvino, sotterraneamente citate, sono presenti un po’ in tutti i miei libri.
D: In un’intervista rilasciata nel 2001 confessava di non avere mai avuto con Napoli il tipico rapporto con la città natale che ognuno poi porta con sé per tutta la vita. Non a caso diceva che a venti anni sentiva l’esigenza di spogliarsi della sua napoletanità e di tutto ciò che aveva a che fare con le sue origini. Con Via Gemito, dopo una serie di romanzi che non lasciavano pensare a lei come a uno scrittore meridionale, comincia quel ritorno alle origini che poi è pure presente in Labilità. Il dialetto, così importante per il protagonista, nel rievocare momenti passati, è anche la spia di una sua personale e totale riconciliazione con il passato e le origini?
R: Come molti napoletani, ho un rapporto di profondo amore, e insieme di repellenza, per la città. In realtà, il luogo dove noi nasciamo è un luogo di cui non possiamo più sbarazzarci. Una città come Napoli poi è addirittura una città che ti si incolla in profondità e non si leva più. Quando ero ragazzo pensavo che la grande letteratura fosse quella del centro Europa o quella americana, e mi pareva che fare quella letteratura a Napoli fosse sostanzialmente impossibile. La mia riconciliazione con la città comincia tardi. Sono andato via da Napoli piuttosto presto, ho vissuto in altre città e ho cercato di lasciare dietro di me l’esperienza della mia infanzia, della mia adolescenza. È successo, però, che quest’esperienza è diventata col tempo sempre più forte e sempre più urgente. Era un’esperienza tutta coagulata intorno alla mia famiglia e, dal punto di vista emotivo, intorno alla figura di mia madre. La sentivo troppo intima e per lungo tempo l’ho menzionata lateralmente, con cautela, travestendola. Solo con gli anni, e molto lentamente, mi sono riavvicinato cercando una via per farne racconto. Sentivo anche, diciamo, un ostacolo linguistico. Le esperienze che per noi contano avvengono per la prima volta in una determinata lingua e sembra che non possono essere raccontate a pieno se non in quella lingua. Poiché la mia famiglia e io stesso eravamo tutti integralmente dialettofoni, mi pareva che poter parlare di quell’esperienza significasse necessariamente scrivere un romanzo in napoletano. Ma il napoletano è oralità, la scrittura lo evoca assai pallidamente. La scrittura del dialetto, quella codificata, è una brutta scrittura, non buona per chi il dialetto non lo conosce e non buona per chi il dialetto lo conosce. Una scrittura, in definitiva, artificiale. Così, nel tempo, mi sono rassegnato ad italianizzare quell’esperienza, finché con Via Gemito mi è sembrato di aver trovato un equilibrio mescolandola lingua dell’italiano standard, la cadenza vulcanica della parlata di mio padre e, infine, lunghi segmenti di dialetto napoletano, duro come era quello dell’ambiente in cui vivevo. Questi ultimi però compaiono sulla pagina come i nomi dei personaggi dei romanzi russi, indecifrabili e senza spazi bianchi, e il lettore è libero di saltarli dalla prima lettera all’ultima, oppure, con pazienza, provare a leggerli per intero. Via Gemito mi ha riconciliato con molte cose della mia infanzia, con il dialetto, e mi ha riappacificato pure con la città e la sua storia. Naturalmente i conflitti restano. Ogni tanto torno a Napoli pieno di travolgente passione per la città, ci resto tre giorni e poi me ne vado in fretta.
D: Il tema della madre è presente in molte sue opere, da Eccesso di zelo a Denti, fino a Labilità. Le volevo chiedere in che misura, in quest’ultimo romanzo, si può parlare di un tempo presente quando il protagonista-scrittore incontra la madre morta e la fa rivivere creando una sorta di realtà parallela? Forse sarebbe più opportuno parlare di un eterno presente quando con la persona cara si viene a stabilire quella “corrispondenza di amorosi sensi” di foscoliana memoria?
R Per me la figura materna è una specie di grande riassunto di tutti i problemi che si sperimentano nell’arco dell’esistenza, nel bene e nel male. All’inizio, per puro caso, e poi sempre più con chiarezza e voglia di andare a fondo, ho lavorato sulla figura materna che in Labilità viene presenta con in una specie di tempo sospeso. Esso è, essenzialmente, il tempo della scrittura, delle parole che cadono sulla carta, un tempo fantasmatico, popolato di figure d’aria. Più la scrittura funziona, più queste figure sembrano corpi vivi. La voglia di scrivere deriva anche dalla volontà di iniettare nuova vita alle cose che, di minuto in minuto, diventano morte.
D: Leggendo Labilità sono stata impressionata da alcune scene di grande potenza espressiva e quasi alogica, irrelate e di estrema visionarietà. Queste immagini mi hanno fatto pensare al surrealismo pittorico, e a Magritte in particolare. C’è un’opera di Magritte, In memoriam Mack Senett, che richiama visivamente le immagini di quella parte del libro in cui il protagonista apre l’armadio e sulle stampelle trova appesi non degli abiti, ma delle figure umane. Esiste in Labilità un reale collegamento con il surrealismo pittorico oppure si tratta di una semplice coincidenza? A cosa si è ispirato nel creare immagini di cupa visionarietà in cui il rapporto tra realtà e finzione è estremamente labile?
R: Nel periodo in cui scrivevo Labilità, avevo sulla scrivania l’immagine della testa di marmo che ha una chiazza rossa di sangue alla tempia, La Mémoire di Magritte. Quest’immagine sarà sicuramente carica di mille sensi, ma per me essenzialmente rimanda al processo di messa a fuoco della memoria attraverso le parole: tanto più il lavoro funziona quanto più si ha l’impressione che la pietra sprizzi sangue, cioè tutto ciò che è morto deve venire fuori sulla pagina come se fosse vivo. Naturalmente il problema è sostanzialmente in quel “come se”. La vita di ciò che è morto è metaforica e evocarla presuppone un sacco di cose, tra cui anche – perché no- la possibilità che, quando apri l’armadio, invece che abiti trovi persone appese. Il ‘come se’ è un meraviglioso effetto del piacere dello scrivere, dell’evocazione e dell’invenzione, e lì c’entra sicuramente anche il surrealismo, lo «strigliare l’immaginazione».
Mi piace scrivere cose cariche di immaginazione, anche se per diverso tempo ho pensato che compito dello scrittore fosse dare parole alle cose che si hanno sotto il naso. Ho cominciato scrivendo della scuola, e per molto tempo ho continuato raccontando le realtà che avvertivo più vicine. Poi gli anni passano, e ora mi piacerebbe esplorare territori che mi hanno sempre attratto ma che, prima, alla mia scrittura non avevo concesso di affrontare.
D: Durante un incontro tra Nicola Gamurra e lo scrittore protagonista del libro, il giovane gli si rivolge dicendo: «Ci sono cose che non si dovrebbero fare» «Cosa?» «Commettere adulterio» «Succede, però». A questo punto Gamurra: «Non è bene che succeda», e lo scrittore concludendo: «Il moralismo dei giovani: non scriverà mai Anna Karenina». Mi chiedo se per essere realistico un vero scrittore debba provare ogni esperienza, o almeno tentare di avvicinarvisi il più possibile.
R: Io non credo che lo scrittore debba sperimentare tutto, sarebbe una teoria piuttosto pericolosa, significherebbe che, per raccontare un assassinio, si deve uccidere qualcuno. C’è una battuta di un film di parecchi anni fa con Marcello Mastroianni, Verso sera, in cui lui dice alla nuora che ha la smania di sperimentare tutto: «non c’è bisogno, ci sono i libri». E’ vero, ci sono i libri, ci sono i film. E’ lì che alla fine sperimentiamo tutto. Però la battuta di Mastroianni presuppone un circolo vizioso: quello che non possiamo sperimentare lo leggiamo, lo vediamo al cinema o in tv, ma quello che leggiamo, vediamo al cinema e in tv, dove è stato sperimentato? E’ roba di seconda mano, a sua volta, o viene da quale zona oscura? La scrittura è un’esperienza violentissima che ti porta da tutte le parti. Naturalmente più sei pigro – prudente e pudico – più resti in zone stranote e rischi di scrivere lo stranoto, il già visto. Il moralismo, appunto, è una forma di pigrizia e ti trattiene nell’ovvio. Ma lo scrittore non deve essere moralistico, deve essere morale. Quando l’io di Labilità dice a Gamurra «non scriverai mai Anna Karenina» vuole semplicemente dire «se tu ti precludi tutto ciò che è umano, di che cosa scriverai?». Uno scrittore, certo, non può buttarsi per tutte le possibili vie oblique; ma uno scrittore vero può e deve avere una forte capacità di immedesimazione, deve provare a sentire l’altro come se stesso, cercando in se stesso anche i luoghi più bui. Se Dostojevski non avesse sentito Raskolnikov come se stesso, ne sarebbe venuto fuori un burattino. Tuttavia non necessariamente Dostojevski, per sentirsi come Rascolnikov, deve ammazzare una vecchia usuraia. Deve cercare in sé, piuttosto, il punto in cui quel gesto è possibile.
Il problema, insomma, è lo sforzo dilaniante di entrare nell’esperienza altrui come se fossimo l’altro, attingendo a tutto ciò che siamo in potenza, anche a ciò che ci fa orrore e che tuttavia è in attesa da qualche parte di noi. E’ uno sforzo di adesione molto simile a quello del bambino che, in Labilità, fa lo sgorbio del Boniperti e poi lo addita ai suoi compagni come la figurina reale. Nel momento in cui in un universo potenziale ammazziamo una vecchia usuraia potenziale siamo sul serio scrittori. Ma è una fatica così terribile, così stralunata, che oggi per lo più rinunciamo e finiamo per mettere su carta quello che è più facilmente scrivibile per noi (rifare una pagina già letta, mettere in parole una scena vista al cinema) e più facilmente leggibile per gli altri.
D: Nicola Gamurra è un doppio che alcune volte sembra assumere il ruolo dell’antagonista e altre quello della controfigura. Quale è il suo vero ruolo nel romanzo? E in che rapporto stanno Labilità e Lo sguardo abile, il romanzo che Gamurra scrive dentro il romanzo?
R: Quando uno scrive un libro sa alcune cose e altre no. Lo scrittura porta a certe soluzioni, alcune facili altre complicate. Anche nel mio libro, Eccesso di zelo c’è un personaggio, Riccardo, che proviene dalla Basilicata ed è anche lì un giovane aggressivo e un po’ pazzo, un doppio dell’io narrante. Mi interressa moltissimo il tema del doppio e ho la tendenza a costruire dei personaggi che a tratti sono dei doppi del personaggio centrale. Dico a tratti perché non è sempre così, altrimenti rinuncerei a scrivere. Lo faccio, per la parte consapevole di me, perché penso che in ogni incontro c’è il rischio che noi vediamo nell’altro noi stessi. Quando noi diciamo “come mi è simpatico quello”, in qualche modo stiamo solo constatando che quello è un corpo vivo con cui noi simpatizziamo. Noi guardiamo noi stessi nell’altro e quindi stabiliamo con lui un rapporto di simpatia o di odio. Quando l’altro diventa un personaggio autonomo? Quando comincio a guardare quel corpo separato dal mio cogliendo segnali che mi costringono a ristrutturare me stesso. Solo in quel momento il gioco diventa un gioco tra persone. Il personaggio di Gamurra, a tratti, nelle mie intenzioni, è semplicemente lo scrittore anziano da giovane e, a tratti, è invece un personaggio autonomo che irrompe nella vita di quest’uomo e lo costringe a ripensarsi. La scena in cui Gamurra viene inseguito per le scale è una scena in cui, all’inizio è Gamurra ma poi diventa una specie di immagine d’aria e poi un fumo che va in alto dove c’è una donna che grida e dice «fai presto se no ti prende», e in quella donna l’inseguitore riconosce sua madre. È chiaro che in quella scena Gamurra non è più Gamurra, è una figura sfuggita al suo stesso creatore. In altri episodi è Gamurra il vero personaggio positivo del libro. Per cui, leggendo, non dovete mai perdere di vista il fatto che lo scrittore anziano ha a tratti una sua profonda negatività senza sbocco e che Gamurra, a tratti, ha forza, energia giovane, un destino, un movimento che lo porta da qualche parte. Lo scrittore anziano, per capirci, ha concluso il suo percorso, non andrà più da nessuna parte. E in certi momenti si serve di Gamurra solo come di un sogno, di una fantasia di transizione .
D: Io mi sono preoccupato dei personaggi femminili chiave di questo romanzo. Della madre del protagonista, di Clara, la moglie, e di Nadia, l’amante. Analizzando questi personaggi ho intravisto quasi la presenza di un gioco delle parti: la moglie sembrerebbe fare da ancora, trattiene lo scrittore dentro il mondo reale, mentre, invece, Nadia sembrerebbe simboleggiare la finzione che occorre al protagonista per poter scrivere. Questo gioco delle parti è voluto? A me sembra un gioco alla fine imperfetto perché non riusciamo a capire se Nadia sia veramente esistita o se, piuttosto, non sia stata solo frutto dell’immaginazione del protagonista.
R: Le donne del libro da un lato sono donne autonome, dall’altro hanno i tratti della matrice originaria della donna: la madre. Una volta Nadia ha la veste a fiori della madre, un’altra volta Clara ha i toni che la madre usa con il protagonista. Noi amiamo sempre lo stesso fantasma. Nadia, certo, è un personaggio reale. È reale nella scena della libreria; è reale nella scena della trattoria; è reale nella conferenza sulla poesia di Caproni. Ma là, già, comincia a perdere realtà e ad entrare dentro il libro che lo scrittore ha cominciato a scrivere. Mi sembra abbastanza chiaro che questo libro, che a volte sembra un thriller e altre sconfina nell’horror, è, nelle intenzioni, un libro su come nasce un racconto, sul dentro-fuori di una persona impegnata in uno sforzo creativo. Lo sforzo è stato fare un romanzo su un romanzo nel momento in cui viene scritto. Mentre si scrive tutto il mondo che ci circonda comincia a diventare parte del racconto che stiamo scrivendo. La realtà entra nel racconto, ma anche il racconto entra nella realtà e la gonfia, la esagera, la forza secondo le sue necessità. Anche in Volver, l’ultimo film di Almodovar (ma vale per tutti i suoi film), c’è il massimo dell’eccesso messo al servizio della necessità di raccontare.
D: Leggendo il suo romanzo mi sono venuti in mente dei versi del poeta portoghese Pessoa: «Il poeta è fingitore, finge così completamente che arriva a fingere che è dolore il dolore che davvero sente». Volevo sapere se è questo il guasto, il malessere, la labilità del protagonista del suo romanzo.
R: Pessoa mi piace molto. Ma c’è una teoria di lunghissima data che presenta la letteratura come menzogna, tutta chiusa cioè nella mente, diciamo: mentecatta. Io ho cercato di fare un libro che, pur servendosi di queste suggestioni, si allontani molto dall’idea che la letteratura sia menzogna. Penso che la letteratura sia piuttosto uno sforzo, a volte malato – nel senso che non rispetta il codice della norma, – ma sempre compiuto con l’obiettivo di raggiungere una qualche verità a ridosso delle cose . La verità del dolore, per stare a Pessoa, è nella finzione del dolore davvero sentito. Tu hai una vocazione da scrittore ma la tua vita rischia di restare puro pulviscolo del mondo: il tuo sforzo permanente, allora, è la ricerca di una forma vera a ridosso di quel pulviscolo altrettanto vero. Ma le forme false abbondano, spesso sono più confortevoli. È di qui che nasce il guasto dello scrivere: voler trasformare continuamente il disordine della vita in un ordine falso di scrittura e l’ordine falso di scrittura in una vita di dimensione superiore; perché la vita nella scrittura è sempre più accogliente della vita caotica fuori dalla scrittura.
D: Ho notato che nel romanzo ogni elemento della narrazione regge su una fitta rete di corrispondenze, e ogni citazione si lega con un’esperienza di vita del protagonista. Sia la citazione di Freud che rispecchia il rapporto di conflitto tra Eros creativo e Super-io razionale, sia la citazione di Ceckov che descrive gli effetti patologici della letteratura rinviano, secondo me, a una patologia dello scrivere. In che misura possiamo considerare questa atmosfera di sofferenza un elemento autobiografico? È possibile identificare con lei il protagonista? Se così fosse, viene da pensare che anche lei abbia riflettuto sulla possibilità di abbandonare la scrittura e che Labilità sia una specie di opera bilancio, e quindi conclusiva.
R: Se voi avete letto Anna Karenina, beh, lì c’è un personaggio che si chiama Levin e si capisce bene come dietro di lui ci sia Tolstoj. Basta togliere quell’ “in” al nome, resta Lev, sigillo che dimostra come il personaggio sia proprio ricalcato sull’autore. Se poi leggete anche il saggio di Nabokov su Tolstoj, vedrete che contiene un’informazione importante: Tolstoj, nella prima redazione delle sue opere, usava nomi delle persone reali a cui si ispiravano i suoi personaggi. Questo significa che sia i grandi romanzi come i mediocri libri che facciamo noi si nutrono delle esperienze di chi li scrive, che insomma nei romanzi entrano molte delle esperienze dell’autore.
C’è un patto con il lettore e cioè che la biografia, nel romanzo, è solo materia grezza su cui interviene l’invenzione. In un romanzo tu lettore devi dare per scontato che la materia biografica è reinventata in funzione degli effetti di verità che si vogliono raggiungere. Io sono uno scrittore che trae molto dalla propria esperienza, mi annoierei se dovessi scrivere di uno che vive sulla luna e che fa la guerra agli abitanti di Giove. Mentre scrivo devo avere l’impressione che quello che sto scrivendo abbia veramente un rapporto con la storia della mia vita. Nei miei scritti scolastici l’io narrante si chiama Starnone. Adesso, nella nuova edizione di Ex cattedra, c’è una sezione, che non figurava nella prima edizione, intitolata Il collega Starnone. Questo significa che ciò che racconto mi è capitato veramente, proprio così come lo scrivo? No, è solo un meccanismo necessario per ottenere un effetto di verità che aiuta innanzitutto me stesso a raccontare. Il lettore è un animale strano: vuole storie inventate che abbiano la parvenza di storie vere e storie vere che abbiano la parvenza delle storie inventate. Lo scrittore non è da meno: se non crede alla verità di ciò che scrive, il racconto è l’algida esecuzione di una trama e lui si annoia.
D: Il motivo del doppio ricorre frequentemente nella sua narrativa. In Labilità, in particolare, è presente tanto in maniera scoperta, quanto in maniera ‘implicita’. Scoperto, ad esempio, è il gioco di doppi che lega l’autobiografico io-narrante, l’anziano scrittore in crisi, e il suo talentuoso-alter ego, Nicola Gamurra. Un rapporto di doppi meno evidente, è invece, quello che mette in relazione lo stesso autobiografico protagonista, e il doppio femminile che, a un certo punto, egli confessa di custodire dentro. A pag. 243: «Forse avevo davvero un corpo di donna, dietro la parvenza maschile».
Proprio questo complicato gioco di specchi tra identità maschili e femminili, mi ha richiamato alla memoria la polemica che circa un anno fa si è sviluppata sulla «Stampa», e su alcuni dei maggiori quotidiani nazionali, in merito al rapporto tra lei ed Elena Ferrante. Molti sanno che Elena Ferrante è una scrittrice di successo, che ha pubblicato romanzi come L’amore molesto e I giorni dell’abbandono, ma non tutti, probabilmente, sanno che Elena Ferrante è una scrittrice dall’identità misteriosa, sfuggente, e che, ad oggi, a nessuno è toccato il privilegio di incontrarla personalmente. L’ipotesi che si faceva su «La Stampa» era che dietro i libri della Ferrante ci fosse proprio Domenico Starnone. So bene che lei è intervenuto più volte sulla questione, ribadendo, in ogni occasione, di non avere alcun rapporto con il fantasma della Ferrante, e tuttavia, dalla lettura di Labilità, la possibilità di una sua ‘stretta’ relazione con la scrittrice napoletana sembra tornare ad affiorare con insistenza. Ci sono, ad esempio, alcune coincidenze singolari tra il romanzo Labilità e il romanzo L’amore molesto, soprattutto nei momento in cui si racconta il rapporto dei rispettivi protagonisti con le figure della madre. Nell’ Amore molesto, a pag. 108, succede che la protagonista avverta la presenza interiore e sottocutanea del fantasma materno per cui dice: «mentre mi strofinavo il viso rigorosamente, in specie intorno agli occhi, mi resi conto, con tenerezza inattesa che invece avevo mia madre sotto la pelle, come un liquido caldo che mi era stato iniettato chissà quando». In Labilità, a pag. 243, in maniera sorprendentemente analoga, torna questa presenza sottocutanea del fantasma della madre: «Poi, quando si era ammalata, quando era morta, mi si era accovacciata nel petto, dietro gli occhi, e aveva assunto un peso che da viva non le avevo mai attribuito consapevolmente. Senza accorgermene l’avevo ospitata in tutte le sue parvenze: la donna di venticinque anni, quella di trenta, quella di trentacinque, quella di quaranta che poi era morta all’improvviso di cirrosi».
Una coincidenza singolare che si somma ad altre singolari coincidenze quali affiorano mettendo ancora a confronto i due romanzi. Per esempio molto simile è il rapporto che le figure dei figli intrattengono con le madri. Sono sempre delle figure di figli ‘colpevoli’, cioè di figli che hanno visto maturare nei confronti della madre un profondissimo senso di colpa. Succede nell’Amore molesto, dove la protagonista compie un viaggio di ritorno alla terra delle origini, e si trova, così, a guadagnare progressivamente coscienza di non essere completamente innocente nel rapporto che con la madre ha intrattenuto fin tanto che lei era ancora in vita. Questo stesso sentimento di colpa sembra tornare prepotentemente nei suoi romanzi: in Via Gemito l’autobiografico protagonista confessa di avere «smarrito» la presenza della madre viva, e per questo, dopo la morte, avverte doloroso il rimorso; in Eccesso di zelo, è ancora un autobiografico io-narrante ad immaginare che la madre torni per rimproverarlo di non averle tenuto aperta la porta della vita attraverso la scrittura, e testualmente lo accusa: «è colpa tua, […] non sei innocente». Questo stesso senso di colpa torna anche in Labilità dove troviamo: «Prima che si ammalasse avevo fatto poco caso a lei, l’avevo sentita come una causa di sofferenza o come un legame difficile da spezzare». Ma come se da questo senso di colpa, indagato quasi masochisticamente, ci si potesse inaspettatamente liberare: «Adesso – sentii – mi sollecitava a riprodurla col mio stesso corpo, come se l’unico vero compito che mi era stato assegnato, nel corso della vita, fosse esprimerla dalla mia carne con la stessa energia materializzatrice con cui lei mi aveva espresso dalla sua».
Mi viene in mente che l’unica possibilità data ad un uomo di esprimere dalla sua carne, con la stessa energia materializzatrice con cui è dato di farlo ad una donna, è di provvedervi facendo ricorso alla scrittura.
Uso il condizionale perché la mia è soltanto un’ipotesi: nel suo caso lei avrebbe creato non un personaggio letterario fittizio ma addirittura, mettendo materialmente in gioco la sua stessa identità, avrebbe creato un’identità fittizia, quella della Ferrante, che diventa però identità reale nel momento in cui, da molti anni, ormai, migliaia di lettori sono disposti a riconoscervi una scrittrice in carne ed ossa. Mi piacerebbe conoscere la sua opinione in merito a questa ipotesi.
R: E’ abbastanza raro che si venga letti e seguiti con l’attenzione che ci avete messo voi. Quella a cui fai riferimento è una polemica nata un anno e mezzo fa. Più che una polemica, dovrei dire uno scandaletto letterario. «La Stampa» cominciò con una notizia in prima pagina intitolata: Lo scrittore che si fece donna. Comprai il giornale, una mattina, e scoprii che lo scrittore ero io. All’interno si titolava: Ferrante e Starnone: attrazione fatale. Il «Corriere della Sera» dedicò al caso un po’ di colonne con il titolo: Amore molesto in casa Starnone. Questa cosa dà l’idea della pochezza dei giornali quando si occupano di letteratura. Ci si poteva lavorare su con serietà, come hai fatto tu, ma ai giornali importa solo il titolo, l’occasione per gridare qualcosa.
È vero, ci sono dei punti di contatto tra i due libri. L’amore molesto è uscito molto prima di Via Gemito. Si può pensare che io abbia letto L’amore molesto e che abbia trovato in quel libro una spinta a scrivere il mio Via Gemito, come del resto trovai, all’epoca, una spinta a progettare il mio libro leggendo un testo assai diverso come Mistero napoletano di Ermanno Rea. Che dire? La Ferrante viene prima di me e ha influito sul mio Via Gemito, va benissimo. Certo bisogna dire anche che, prima della Ferrante, io avevo scritto Il salto con le aste, dove c’è una pagina che anticipa Via Gemito. Allora? Il salto con le aste ha aiutato la Ferrante? La materia narrativa dell’Amore molesto muove da quella pagina? Sono giochini, come vedete, di scarsa sostanza, le vie che portano alla nascita dei libri sono assai complicate.
Torniamo a noi, allora, alla questione, che hai sollevato, del senso di colpa. Il semplice fatto di essere stati messi al mondo, di aver abbandonato il corpo materno, di averlo lasciato dietro di noi definitivamente, genera sensi di colpa. Quel senso di colpa lo si può vivere in diversi modi, muovendo da diverse occasioni, a seconda delle esperienze. La protagonista della Ferrante mostra sensi di colpa perché la madre si è ammazzata, o almeno così pare. I sensi di colpa del personaggio di Via Gemito sono invece di altro tipo: nascono dal fatto di non essere intervenuto a difendere la madre contro il padre. Non si tratta di due manifestazioni ben distanti tra loro?
Con questo non voglio scoraggiare il tuo lavoro. Devo dire però che non è interessante perché vuole appurare se sono la Ferrante (non sono la Ferrante, ma i suoi libri mi piacciono molto), la questione è di scarsissimo rilievo. E’ interessante, invece, perché sfiora una serie di nodi importanti della creazione letteraria: che cos’è un’identità letteraria oggi, come si costruisce, come si definisce (per esempio: il Calvino di Il barone rampante poteva scrivere Novecento di Baricco)? quanto influisce la comune origine regionale nella costruzione di uno stile? perché certi scrittori che nascono in Campania o in Veneto o in Liguria o in Emilia Romagna si assomigliano quando scrivono? Com’è che tra quelli che fanno lo stesso lavoro ce n’é uno che emerge in maniera più marcata, pur assomigliando a molti altri? Quanto è importante la personalità individuale e quanto è importante lo sfondo storico comune, la comunanza di gestualità, di lingua, di comportamenti? Eccetera.
Quando uscì L’amore molesto, una signora che aveva corretto le bozze dei miei libri (Via Gemito era di là da venire) mi disse che io ne ero l’autore perché entrambi scrivevamo «a cinema» al posto di «al cinema». Ora in tutto il Mezzogiorno si dice «vado a cinema»; è solo da Roma in su che si dice «vado al cinema». Beniamino Placido, pugliese, ha tenuto per anni una rubrica intitolata «A cinema». Ci sono usi regionali che confluiscono nella scrittura e avvicinano testi rendendo evidenti somiglianze che in realtà sono solo segnali di una determinata area geografica o di un ambiente sociale o di una fase storica.
D: Nel suo romanzo mi è parso di poter cogliere aspetti di religiosità. Qual è il suo rapporto con la religione?
R: I testi della mia formazione sono quelli del materialismo storico. Mi definisco un non-credente. Non ci sono nei miei libri elementi religiosi consapevoli. Penso d’altra parte che uno scrittore, credente o non credente, abbia sempre una vocazione estrema, che è di vecchissima data: essere una sorta di scriba di Dio. Il fondo vero che muove la scrittura è un bisogno di creazione dal caos. Tutte le volte che si scrive è come se si nominasse per la prima volta e quindi, in qualche modo, ci si fa tramite della lingua di Dio, cioè di una parola con la maiuscola che dice e insieme fa un ordine. Ogni libro nuovo è perciò sempre la nostalgia di un libro sacro. Questo ha poco a che fare con le credenze religiose. Io, pur essendo ateo, credo nell’energia della parola, nell’energia del racconto, energia che abbiamo tutti. Quando ci succede qualcosa, sentiamo subito la necessità di far racconto e quando lo facciamo ci sentiamo bene, felicemente pieni dell’ordine narrativo che ci siamo dati. Solo allora infatti l’esperienza singolarmente vissuta, diventa una cosa, è esposta, messa in comune.
D: A proposito del finale del romanzo: il fatto che ogni gioco è imperfetto, come è imperfetta la vita perché, pirandellianamente, non conclude mai. Sarebbe interessante capire perché lei conclude in un modo che può sembrare riduttivo.
R: Il senso per me è che è il reale a rendere imperfetto ogni gioco. Vale a dire: per quanto ci si approssimi alla verità delle cose, ogni approssimazione risulta insoddisfacente. D’altra parte è come se, di fronte all’imperfezione, il protagonista tirasse un sospiro di sollievo: se il reale non rendesse imperfetto ogni gioco, infatti, lui sarebbe finito già da piccolo dentro la graficizzazione del Boniperti e non ne sarebbe più uscito, prigioniero come don Chisciotte delle fantasie libresche. Meno male, insomma, che c’è la realtà a rendere imperfetti i giochi della nostra mente e a imporci di rinnovarli di continuo, alla ricerca di una sempre diversa riformulazione
23 maggio 2006