Lug 13

Ex cattedra

(di SIMONE GATTO)

Chi ne ha voglia, cominci a leggere questa storia di un anno definitivamente passato. Tenendo presente che oggetti, prassi, rituali, frasi fatte, tic, disfunzioni e piccoli crimini della scuola che vi viene descritta sono assolutamente reali. Immaginari sono invece i personaggi. E l’autore che li ha inventati.

Con queste parole Starnone introduce, nella breve avvertenza iniziale, Ex cattedra (Feltrinelli, 2005), primo dei suoi quattro lavori dedicati alla scuola e al ruolo dell’insegnante. Il libro raccoglie gli articoli della rubrica omonima apparsa sul “Manifesto” dal 22 novembre 1985 all’ 8 giugno 1986 e si costituisce come la cronaca ‘fedele’ di un anno scolastico, registrata settimanalmente da un docente, Starnone appunto.

Eppure, l’esperienza reale, fatta oggetto di narrazione, è trasposta sulla pagina con caratteri tipicamente inventivi, ‘romanzeschi’. Quello che a prima vista appare come un diario scolastico, infatti, non è altro che uno scritto ibridato in cui la forma vagamente saggistica, nata dall’esperienza autobiografica, è costantemente affiancata a forme più propriamente narrative. Se gli avvenimenti descritti corrispondono a fatti realmente accaduti, al contrario i personaggi del racconto, io narrante incluso, sono inventati. Già nella sua prima prova narrativa Starnone ci consegna un autoritratto fittizio, un personaggio autobiografico che si costituisce come doppio dell’autore e si muove sempre nella sottile zona liminare tra verità e finzione.

Durante l’anno, in un anonimo, ma esemplare, istituto di media superiore, professori e studenti si aggirano confusi tra i corridoi di un edificio “che sta a metà tra la sezione staccata del tribunale dell’inquisizione e un lazzaretto nel pieno della pestilenza.” (p. 66)

I singoli giorni sono scanditi dalle circolari del preside, “più vessatorie del regolamento carcerario” (p. 27), che con insistenza martellante ammoniscono a “non fare poesia”, a non divagare e, piuttosto, essere super-efficienti.

Tra consigli di classe, elezione dei rappresentanti, svolgimento regolare delle lezioni, organizzazioni di “spedizioni punitive al provveditorato” (p. 12) e scioperi studenteschi, Starnone annota la quotidiana lotta tra alunni ormai diventati teppisti e insegnanti che, abbandonata la loro missione di educatori, si sono trasformati in banali “castigamatti” (p. 26).

Con piglio ironico lo scrittore ci consegna scenette esilaranti, che rendono meno amara la malinconia e lo spaesamento dei docenti. Questi quadretti fanno sorridere, esprimono il carattere paradossale dell’insegnamento odierno; i bruschi abbassamenti tonali rendono palpabile il contrasto tra intenzione e risultato di un docente straziato giorno per giorno dal non riuscire a interessare i suoi alunni:

Se viene il preside a ispezionare, non voglio che mi trovi con le mani in mano. Comincio: all’ombra dei cipressi e dentro l’urne, e subito, gli allievi si organizzano per trascorrere utilmente le prossime due ore. […] Solo un gruppetto di sette studenti freme con me a: celeste è questa corrispondenza d’amorosi sensi, celeste dote è negli umani […] io procedo, perché è roba che conosco bene, sono i ferri del mio mestiere, e quasi mi rompe il petto un singhiozzo quando lamento che l’alterna onnipotenza delle umane sorti, e sostanze t’invadeano e are e patria e, tranne la memoria, tutto – tranne la memoria! Mi scappa l’urlo e poi mi riprendo e tiro avanti congestionato e batto ritmicamente la mano sulla cattedra per far sentire agli ascoltatori come il navigante che passava di là, sotto l’Eubea, vedea per l’ampia oscurità scintille balenar d’elmi e di cozzanti brandi – e faccio le scintille con le dita, e anche: sentite qui l’allitterazione: quante erre, quante erre! in questo: fumar le pire igneo vapor, corrusche d’armi ferree vedea larve guerrier cercar la pugna – ah bellissimo, bellissimo! (pp. 79-80)

In questo episodio, la lettura infiammata del “carme immortale” è interrotta dall’ispezione del preside, figura esilarante come poche:

«Lei signorina – chiede a Seroni Catia che continua a truccarsi – che cosa state leggendo?».
«La Carmen dei Sepolcri» risponde Seroni Catia.
«Bene» dice il preside, che è un ex insegnante di matematica e non batte ciglio. «Abituiamoci allo stile colloquiale degli esami: della Carmen chi ha dato di recente un’importante versione cinematografica?». (p. 80)

La cifra ironica conferisce al tessuto narrativo amenità e leggerezza, ma non riesce ad occultare del tutto la profonda amarezza dell’insegnante: le gags di professori e alunni sono, infatti, solamente lo sfondo da cui emergono con evidenza i dubbi di un docente sfiduciato, disilluso, che non crede più di poter cambiare il sistema scolastico.

Ecco allora che la scuola viene ritratta inesorabilmente come un luogo isolato, circondato dalla “landa di streghe del Macbeth” (p. 85), incapace di inserirsi e operare in un contesto sociale più ampio: “Il mondo – che già normalmente appare sbiadito oltre i vetri delle aule – non esiste più.” (p. 73)

Studenti, insegnanti, corpo non docenti si muovono in un’atmosfera claustrofobica, concentrica, totalizzante. Gli sporadici contatti col mondo esterno rimangono superficiali ed è proprio in questa incapacità di rapportarsi con la vita di tutti i giorni che il sistema d’istruzione mostra più palesemente le sue falle.

Mentre le attività didattiche si svolgono regolarmente, serpeggiano tra i corridoi le notizie dei missili a Sigonella, del conflitto Usa-Libia, della questione dell’apartheid, ma sono una debole eco, incapace di scuotere dal profondo esistenze impantanate in una realtà molto più circoscritta e superficiale.

È così che, in un clima tedioso, tra studenti sbandati, confusi, incerti, e docenti sopraffatti dalla delusione, dal rimpianto nostalgico o dall’apatia, che la cattedra, simbolo ideale, nella mente del narratore, della trasmissione di un sapere critico, del confronto e del dialogo, diventa un’ex cattedra.

gennaio 2007

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