(LAVINIA SPALANCA)
All’insegna dello scarto, della deviazione dalla norma, questi otto racconti di Domenico Starnone (Feltrinelli, 1996) descrivono lo sbandamento di chi smarrisce con perseveranza la diritta via, di chi preferisce le scorciatoie alle geometrie rettilinee, le maldestre esplorazioni alle mete sicure. Otto storie che si configurano come un catalogo di atti mancati, di inutili complicazioni, da parte di un io narrante, dietro la cui identità ficta si nasconde l’autore, che vive in un continuo stato di labilità, di spaesamento.
Se la labilità consiste, come rivela lo stesso scrittore, nella «esposizione a scivolare facilmente da un piano all’altro», superato lo sbandamento iniziale si vive «in un mondo non meno reale del reale». È il desiderio dell’altrove a guidare le scelte eterodosse del protagonista, la capacità di vivere in una dimensione altra rispetto alla realtà, anche se alla fine egli è destinato a scontrarsi con l’arido vero.
Proprio sullo scarto fra principio di piacere e principio di realtà è orchestrato il racconto d’apertura, Altre destinazioni, che narra l’impossibile fuga di un bambino di otto anni – da Via Vincenzo Gemito 64, scala B, interno 12 – attraverso la buca delle lettere. Per sfuggire ad un disagio reale («Mi disturbava la lingua stessa che si parlava nella mia città. Non vedevo l’ora di sparire per la buca delle lettere»), il protagonista concepisce la scrittura, letteralmente, come via di fuga. Credendo nella sua finzione, il bambino attribuisce alla buca delle lettere una funzione altra rispetto a quella reale, la possibilità di condurlo verso altre destinazioni. Ma il destino beffardo s’incarica di smascherare i suoi piani.
Anche il protagonista del secondo racconto, Otto con, ogni volta che tenta di assumere una forma, è destinato a soccombere alla dura legge della necessità. Nel tentativo di trasformarsi in un abile atleta, il narratore prova a calzare ogni volta un corpo diverso dal suo, ma invano:
A volte l’io ciclista passa di qua e lo calzo per gioco, specie in vacanza. Ho una pedalata di grande potenza tutte le volte che vado a recuperarmi – corpo di ciclista finito tra gli scarti dei corpi possibili – su per qualche sentiero di campagna dove nessuno può dirmi: “Vergognati, smonta di là”. Ma non sono io e nemmeno lui e nemmeno tu. Non ci sono pronomi per questi corpi perduti, la loro storia non ha grammatica (La retta via, p. 17).
Alla ricerca di una definizione, il protagonista riesce a sfuggire alla ‘labilità’ del suo corpo magro e disarticolato diventando un abile canottiere. Ma anche l’avventura sportiva si rivelerà una «deviazione inutile», e il racconto della sua impossibile bildung non potrà che concludersi con un atto mancato. Materiale di scarto, marionetta scomposta, burattino fuori uso, il corpo fragile e disarmonico del narratore è uno dei leit-motif della raccolta, e si pensi al racconto successivo Il peggior sordo, imperniato sul rapporto salute-malattia, quest’ultima intesa come deviazione dalla norma. Svevianamente, il protagonista vive di malattie immaginarie nel tentativo di esorcizzare la morte:
La ritengo uno strumento indispensabile di esplorazione. Mi serve a svicolare in direzione della fine, abbandonando per un po’ il percorso superbo del corpo sano. Anzi, non la chiamo nemmeno ipocondria, né la spiego col sistema articolato delle nevrosi. La chiamo preassuefazione, termine di lunga tradizione e arcaica saggezza. Non aspetto, cioè, di essere a un passo dalla morte per entrarci in familiarità. No, io anticipo l’assuefazione e perciò, pur restando di necessità nel punto della vita in cui sono arrivato, faccio una corsetta per scorciatoie e mi acquatto nei paraggi del momento brutto che mi aspetta (Ivi, p. 27).
L’ossessione per le malattie immaginarie produce, per contrasto, la gioia del riacquisto della salute, il godimento della rigenerazione. E tuttavia, ad un certo punto, il destino costringerà il narratore a confrontarsi realmente con la malattia, spezzando le sue illusioni, coltivate con costanza, di governare il caso e di sfuggire alla necessità.
Dalla malattia metaforica a quella letterale il passo è breve: «“La prefigurazione fabbrica metafore” pensai, “l’imminenza restituisce alla lettera. Da ora un passo è un passo, un gemito è un gemito”». Ma proprio attraverso l’esperienza concreta della malattia si rinsalda nell’io narrante la fede nel valore esorcistico della scrittura: «E sapevo adesso che, finché c’era racconto, non c’era compimento, non c’era morte».
Se il narratore s’interroga in questo caso sul «guasto del mondo», che divide l’umanità in sani e malati, in Strade secondarie s’intravede invece la possibilità che percorsi umani all’insegna della diversità possano incontrarsi. L’attitudine del protagonista a privilegiare scorciatoie e deviazioni è oggettivata dalle scorribande automobilistiche per strade secondarie e fuori mano compiute su una Fiat 500 L in un paese di montagna vicino Potenza.
Qui il narratore incrocia il suo destino con quello della classe operaia, incarnata dalla figura ‘eroica’ di Mighèl detto Michè, o Michè detto Mighèl, cui l’accomuna, tra l’altro, l’ossessione per una misteriosa essenza perturbante, il «pulicano». L’effetto di sbandamento, di straniamento, è prodotto, qui come altrove, dall’insinuarsi nel mondo reale di elementi immaginari, fantasmi che prendono il posto della realtà.
Non sempre principio di piacere e principio di realtà si fondono. Più spesso emerge la dissonanza, la disarmonia, il disaccordo. Come nel bel racconto Band, che narra uno «sconcerto» di coppia: marito e moglie in vacanza, alle prese col tram tram quotidiano, depauperati dalla forza vitale del loro bambino, che reclama per sé tutte le attenzioni dei genitori, scontano il logorio della vita in comune.
Il jazz suadente della Big Bang di Mario Raja, ospitata nel complesso alberghiero, catapulta per un momento il marito in un mondo altro, di dolcezze e impennate d’orgoglio del sax e della tromba, ma al contempo acuisce la distanza dalla moglie, che alla fine deciderà di ripartire da sola. L’incapacità di ‘sentirsi’ si traduce nel disaccordo della coppia che comunica in modo falsamente invitante o falsamente atono, mentre la voce stridente del bimbo rivela forse, in tutta la sua intensità, il disagio inconscio del figlio di fronte a quello dei genitori.
L’armonia perduta è ritrovata dall’io narrante soltanto nella sfera dell’immaginazione, come nel racconto centrale, Occhi chiusi occhi aperti. Il desiderio dell’altrove spinge il narratore al cinema Imperiale, sito nel Reale albergo dei Poveri di Napoli, un luogo misero, frequentato da spettatori incivili, ma che «prometteva dalle tre alle quattro ore di avventure».
Incarnazione della finzione pura, il cinema Imperiale è l’emblema stesso della labilità, dello scivolamento dalla realtà alla finzione, che produce poi spaesamento, rifiuto della realtà:
Erano quasi sempre film frammentati, a balzi, monchi. La pellicola si spezzava spesso sul più bello, come se ‘il più bello’ fosse misteriosamente anche il meno resistente, il meno visibile. Quando la proiezione ricominciava, il film era di frequente un altro film. Come la volta – mi ricordo – che un cowboy stava avanzando per le strade di un villaggio deserto, prossimo al duello finale: colori, vento, polvere, cespugli che rotolavano, musica sempre più tesa e FINE, in bianco e nero. Zac, così, con passaggio brusco dal batticuore alle requie, dal colore accecante al nerobianco, dal godimento del prevedibile all’ansia del non si sa come va a finire. Che mimèsi di incertezza, di labilità, di respiro mozzo. Si fingeva bene, all’Imperiale. La parola stessa – imperiale – si attardava lì mettendo in scena chissà quale potenza. Come il ventre del reclusorio borbonico della miseria, definito ‘reale’. Reale Albergo dei Poveri. Dopo quattro ore uscivo nella piazza con l’aria spaesata, un senso di repulsione per le immagini e i suoni sconnessi della città (Ivi, pp. 108-109).
Per sfuggire all’arido vero l’io narrante si costruisce un altro vero, un altrove della fantasia. Ma quando smarrisce troppo la diritta via, va incontro a fallimenti esistenziali, come avviene negli ultimi due racconti, Ultimatum e Approssimazione per difetto, in cui l’approccio al mondo femminile si rivela un tentativo vano, un atto mancato.
La fede nella realtà dell’immaginazione è l’unica deviazione possibile – sembrano suggerirci questi racconti – ma solo se questa si traduce nella capacità inventiva, nel sogno poetico che ci dà l’ebbrezza dello scarto, il piacere dell’altrove.
maggio 2006