Mar 16

“È stato il figlio”, Roberto Alajmo

Un banale incidente stradale dietro l’omicidio di Salvatore Altieri, il quarantaduenne incensurato ucciso domenica sera in via Cassari. L’uomo sarebbe stato ammazzato dal figlio al culmine di una lite nata, pare, per via di alcune ammaccature sulla Bmw di famiglia. Altieri avrebbe rimproverato i ripetuti incidenti al figlio ventitreenne, Federico. Gli avrebbe chiesto spiegazioni, forse in maniera energica, e quello per tutta risposta gli avrebbe sparato tre colpi di pistola, una calibro 7,65 che i poliziotti stanno cercando come sia finita nelle sue mani. Due proiettili a segno, sterno e schiena, il terzo è andato a vuoto… Federico Altieri è stato rintracciato intorno alla mezzanotte a casa della fidanzata. Gli agenti erano stati messi sulle sue tracce dal racconto di alcuni parenti e amici di famiglia. Tutti a parlare dei rapporti tutt’altro che idilliaci tra padre e figlio, delle frequenti liti… Il ragazzo, tecnicamente, è stato di fermo. Da quando è stato bloccato ad ora non ha detto una sola parola. “Si è chiuso in un mutismo assoluto”, dice il capo della squadra mobile….

Questa notizia, ricavata dal “Giornale di Sicilia” del 2001, è alla base del nuovo romanzo di Roberto Alajmo, È stato il figlio (Mondadori, pagine 232). Una storia vera di ordinaria abiezione, dunque, ha dato l’abbrivio alla vena creativa dello scrittore palermitano: la realtà, come diceva Melville, supera di gran lunga la fantasia. Certo, Alajmo ha poi rimescolato le carte, inserendo elementi nuovi, cambiando l’ambientazione della storia, dalla Cala alla Kalsa. Così Salvatore Altieri, nella finzione narrativa, diventa Nicola Ciraulo, ellesseu, lavoratore socialmente utile, pericolosamente sospeso sul crinale che separa la legalità dall’illegalità. Il figlio Federico nel romanzo si chiama Tancredi: nome pretenzioso, da Palermo bene. La macchina, pur non essendo una Bmw, rimane sempre una berlina di lusso, acquistata grazie all’indennizzo ottenuto in seguito alla morte accidentale di Serenella, l’altra figlia di Nicola, nel corso di una sparatoria tra malacarne.

Alajmo, all’inizio del libro, sorprende Tancredi chiuso in bagno, con l’orecchio appoggiato alla porta, nel disperato tentativo di sentire qualcosa, di percepire una parola, un bisbiglio. Dall’altra parte ci stanno Fonzio e Rosa, i due nonni, che a malapena sussurrano. Tancredi è nei guai sino al collo e non vuole saperne di uscire: in mezzo al soggiorno di casa, infatti, campeggia il cadavere di quel gran pezzo d’uomo che era suo padre, Nicola appunto. Dal suo inopinato nascondiglio, il figlio assiste impotente alla situazione che precipita, mentre le volanti della polizia si avvicinano, a sirene spiegate. Gli agenti fanno irruzione, iniziano il sopralluogo, rivolgono le prime domane ai familiari, i quali collaborano fin troppo, scucendo soltanto lamenti o timidi sussurri: il loro loquace e congiurante silenzio inchioda inequivocabilmente Tancredi. Lui non apre bocca: è come se il padre, nell’aldilà, si fosse portato appresso la lingua del figlio. Messo in cella, viene torchiato dagli inquirenti, stuzzicato dal compagno di cella, un iugoslavo che fuma e forse si impiccia troppo: ma Tancredi sembra una statua di sale. C’è però un problema che apre una falla, che incrina le iniziali certezze: la pistola con cui sono stati esplosi i colpi contro Nicola non si trova. La casa dei Ciraulo è stata rivoltata come un guanto, ma niente da fare: della rivoltella nessuna traccia. Cominciano a insinuarsi i dubbi, le evidenze iniziali si sgretolano.

Questo nuovo romanzo di Alajmo, una sorta di giallo eretico, rovesciato, comincia come s’è visto, dalla fine: Nicola giace senza vita, Tancredi è quasi spacciato, Serenella è morta da un pezzo, e la Volvo ha un evidentissimo graffio sulla fiancata, un’ammaccatura che sembra una cicatrice. La strategia narrativa risulta subito vincente: ogni capitolo del romanzo è una digressione che ogni volta aggiunge nuovi particolari all’intera vicenda. Le deviazioni dal sentiero principale della storia, gli sconfinamenti messi in atto da Alajmo costringono il lettore a fare i conti con la mentalità e le incongruenze di una Palermo popolare, quella del sottobosco umano, dove la degradazione e l’infamia inoculano il tarlo della disonestà a tutti i costi.

Da segnalare il capitolo che riguarda la storia di Serenella: dalla gita al mare, al ritorno a casa e allo scontro a fuoco cui sfortunatamente assiste. Una sparatoria che, osservata dallo sguardo straniante della bimba, assume sulla pagina contorni fiabeschi, descritto com’è alla moviola: basta questo passaggio per fare di Alajmo uno scrittore in piena regola.

Per tutti questi motivi, É stato il figlio si rivela come una sorta di noir antropologico, di giallo sociologico, da cui viene fuori lo spaccato veritiero di un’anima della città che sino ad ora non aveva conosciuto la ribalta letteraria. Un’anima dannata, certo, da girone infernale.

Il meccanismo del giallo viene brandito da Alajmo come un grimaldello con cui forzare la normalità apparente: solo così, dietro l’opacità di una storia qualunque, si possono intravedere i demoni che si agitano; solo così, sotto il sottile strato di mediocrità, possono spalancarsi catacombe di senso. E l’iperrealismo di queste pagine si capovolge quasi subito in un grottesco quasi mortuario, in una farsa beffarda. Alajmo è uno scrittore che prende le mosse dalla tragedia greca (questo romanzo è o non è la storia di un parricidio?), per poi pian piano rovesciarla in una commedia mordace, aristofanesca. Potremmo a questo proposito immaginare l’autore di Repertorio dei pazzi della città di Palermo in mezzo a due numi tutelari: da un lato, Raymond Carver, con la sua lingua apparentemente spoglia e scabra, e la sua volontà di rappresentare la vita quotidiana di individui ai margini della società dei consumi, e dall’altro Alan Bennett, con la sua sulfurea comicità. Anche il tenore dei dialoghi avvicina Alajmo ai due scrittori appena citati: nessuna sbavatura, negli scambi di battute tra i protagonisti di È stato il figlio; il minimo indispensabile, è vero, immerso però in un’allusività malevola.

Tutti questi elementi non fanno che confermare appieno le doti di abile, spregiudicato narratore possedute da Alajmo. Le confermano, e insieme le irrobustiscono, dimostrando, se ce n’era bisogno, come il noir possa diventare un genere assai malleabile, in grado di adeguarsi del tutto anche alle più bizzarre esigenze della scrittura. Con buona pace di chi, ancora oggi, si straccia le vesti di fronte ai cosiddetti romanzi di ‘serie B’. Certo, va subito detto che Alajmo, con questa sua nuova fatica, è come se avesse scritto il necrologio del giallo, una sorta di requiem canzonatorio.

E il primo sentore di questo suo beffardo atteggiamento ci viene proprio dal titolo, che inequivocabilmente sbatte in faccia al lettore l’identità del colpevole del misfatto narrato. Ma come Cuore di madre ci ha insegnato, di Alajmo è bene non fidarsi. Il lettore paziente, a lettura avvenuta, capirà. E allora riassumiamo per amore di chiarezza:È stato il figlio è un noir antropologico, che inizia dalla fine, e che però strada facendo inevitabilmente si complica. L’autore si muove a ritroso come un gambero, montando una moviola beffarda, ossessiva. Il suo sguardo procede per accumulo di dettagli, immagazzinando particolari che si moltiplicano quasi per partenogenesi. Nulla sfugge alla sua volontà demiurgica: Alajmo, che sa come rendere i meccanismi cerebrali dei suoi personaggi attraverso l’uso di una lingua cristallina e insieme allusiva, gioca con la sua materia narrativa, e di conseguenza col lettore, alla stregua del gatto col topo. Si tratta di un sollazzo fortemente sadico: da una parte, il felino astuto e subdolo, dall’altra il sorcio intimorito e dannato alla disfatta. E una volta scoperta la strategia dell’autore, il disegno dell’opera diventa pian piano sempre più chiaro.

Il romanzo di Alajmo è regolato da un’orologeria predefinita ma essenziale, da diagrammi di forze ben bilanciati. L’ossatura di È stato il figlio è infatti assolutamente funzionale alla vicenda narrata: il che fa subito pendere il piatto della bilancia narrativa dalla parte dell’autore. Ma va detta anche un’altra cosa: lo schema quasi geometrico del romanzo non mette in ombra la vitalità della storia, il palpito dei personaggi. La polpa c’è, eccome, nelle pagine di Alajmo. Una polpa disciplinata a meraviglia. E che si dispiega inserendosi nel solco già tracciato dall’autore con Cuore di madre: anche questa, infatti, è una storia di ordinaria degradazione, una lacerante esplorazione delle viscere della famiglia siciliana.

About The Author