(di ANNALISA ARRIGO)
La scrittura di Giorgio Vasta sembra fatta di pietre da ingoiare una ad una, materiali pesanti, sempre poco digeribili. L’autore allontana, non strizza mai l’occhio, né instaura mai un rapporto sereno col lettore. Non regala sorrisi. Procede come un treno che spazza via bagliori e speranze che ci si augurerebbe di ritrovare alla fine di una storia irredimibile. Bambini che parlano meglio (o forse peggio) di adulti forbiti, che perseguono obiettivi assurdi, che arrivano a comprimere fino ad uccidere e lasciare senza fiato.
Questo Vasta presenta ai nostri occhi, un quadro inverosimile che fa paura, perturba e angoscia, che fa sì che la lettura non si esaurisca in poco tempo, poiché è inevitabile che si avverta il bisogno di metabolizzare, di far sedimentare.
Lo stile, si capisce subito è particolare, personale, limato fino all’osso, ragionato e misurato. Termini tecnici, medici, scientifici si ritrovano in frasi spesso brevi, paratattiche, incisive e dal forte potere significativo.
Impossibile eludere la sensazione che ci siano (pur nell’indubbia originalità della pronuncia) tracce che rivelano il retroterra della scuola Holden, presso la quale l’autore si è formato tra il 1996 e il 1998 e dove ha insegnato per qualche tempo. L’opera, che si distingue per la marcata personalità dell’autore e che si misura con argomenti ostici e intellettualmente rilevanti, a tratti rivela qualche eco, soprattutto nella sintassi e negli stilemi utilizzati, della maniera cosiddetta “alla Baricco”. Tuttavia essa se ne serve efficacemente, e mai approfittandone. È possibile osservare l’utilizzo di frasi paratattiche, ripetizioni, associazioni di parole forti, a volte anche parzialmente decontestualizzate. Il risultato è un testo diverso, che non ci si aspetterebbe, che non consente distrazioni durante la lettura. Le parole, anche singole, spoglie, crude, rimandano, conducono, scuotono.
Di seguito si riportano alcuni esempi di frasi tratte dal libro che sembrano risentire delle supposte suggestioni “baricchiane”, ma si vuole sottolineare che si tratta appunto di lievi suggestioni di stile e mai di contenuto.
– “C’è il cielo. C’è l’acqua, ci sono le radici. C’è la religione, c’è la materia, c’è la casa. Ci sono le api, ci sono le magnolie, gli animali, il fuoco. C’è la città, c’è la temperatura dell’aria che cambia nel respiro. C’è la luce, ci sono i corpi, gli organi, il pane. Ci sono gli anni, le molecole, c’è il sangue; e ci sono i cani, le stelle, i rampicanti.
E c’è la fame. I nomi.
Ci sono i nomi.
Ci sono io”.
(Il tempo materiale, G. Vasta p. 5)
– “La prima cosa è il mio nome, la seconda quegli occhi, la terza un pensiero, la quarta la notte che viene, la quinta quei corpi straziati, la sesta è fame, la settima orrore, l’ottava i fantasmi della follia, la nona è carne e la decima è un uomo che mi guarda e non mi uccide.
L’ultima è una vela.
Bianca. All’orizzonte”.
(Oceano mare, A. Baricco p. 123)
Questo è un esempio di elencazione, in cui gli autori compilano una sorta di inventario, quasi riassuntivo degli elementi cardine della loro narrazione.
– “…avevo preso negli occhi le luci della sera”.
(Il tempo materiale, G. Vasta p. 18)
– “…uno sguardo che non prende ma riceve, nel silenzio più assoluto della mente, l’unico sguardo che davvero ci potrebbe salvare – vergine di qualsiasi domanda, ancora non sfregiato dal vizio del sapere – sola innocenza che potrebbe prevenire le ferite delle cose quando da fuori entrano nel cerchio del nostro sentire – vedere – sentire – perché sarebbe nulla di più che un meraviglioso stare davanti, noi le cose, e negli occhi ricevere il mondo tutto – ricevere – senza domande, perfino senza meraviglia – ricevere – solo – ricevere – negli occhi – il mondo”.
(Oceano mare, A. Baricco p. 38)
Attenzione alla sottile differenza che intercorre tra i verbi “prendere” e “ricevere” riferiti allo sguardo. Sebbene abbiano due punti di vista differenti, gli autori mostrano sensibilità nell’utilizzo di questi verbi.
– “Mi giro su un fianco e strofino la guancia sul cuscino. Mi viene da piangere, non piango.
Poi mi fermo, dormo”.
(Il tempo materiale, G. Vasta, p. 48)
– “Ann Deverià si volta. Sorride. Cerca le parole. Le trova”.
(Oceano mare, A. Baricco, p. 80)
Qui si possono notare sequenze di verbi che scandiscono in maniera cronologica precisa, con l’ausilio della punteggiatura, azioni che si susseguono una ad una, la cui importanza viene esaltata con questa metodica.
– “Perché la Fiera del Mediterraneo ogni anno è questo.
La porchetta. L’autoscontro. L’odore del fritto. Lo zucchero filato. Lo stand dell’Esercito Italiano. Le spallate continue camminando. La casa delle streghe. Le montagne russe con tre curve paraboliche. La cipolla dell’hot dog calpestata da tutti. Le smorfie, i ghigni, i clown. Il sudore sul petto e sulla schiena…”.
(Il tempo materiale, G. Vasta, p. 86)
– “Perché il mare, il barone Carewell, mai l’aveva visto. Le sue terre erano terra: e pietre, colline, paludi, campi, dirupi, montagne, boschi, radure. Terra. Il mare, non c’era”.
(Oceano mare, A. Baricco, p. 41)
Esempio di elencazione, stavolta usato per una descrizione asciutta ma molto precisa, degli elementi ambientali della scena. Si noti anche l’inizio di frase con l’avverbio “perché”e la sequenza della frase OVS.
– “Io ne ho bisogno.
Per finire”.
(Il tempo materiale, G. Vasta p. 294)
– “Non c’era più niente.
Non c’era anima viva”.
(Seta, A. Baricco p. 67)
Utilizzo dell’andare a capo per rendere più incisivo un momento drammatico della narrazione.
In conclusione si vuole sottolineare che queste consonanze rilevate, che riguardano soprattutto le tecniche di scrittura, portano senza dubbio a esiti conoscitivi di gran lunga diversi da quelli cui ci aveva abituati la scrittura di Baricco.