(di DOMENICA PERRONE)
A una ricca materia autobiografica attinge La mia casa è dove sono di Igiaba Scego, a partire dall’invocazione poetica alle storie dell’incipit, che rinvia a quello delle fiabe somale raccontate dalla madre nomade
Sheeko Sheeko Sheeko xariir…
Storia storia oh storia di seta …
Così cominciano tutte le fiabe somale. Tutte quelle che mia madre mi raccontava da piccola. Fiabe splatter per lo più. Fiabe tarantinate di un mondo nomade che non badava a merletti e crinoline. Fiabe più dure di una cassapanca di cedro.. (p. 9)
Il ricordo di questa ritualità narrativa torna alla memoria dell’autrice che sta iniziando a scrivere il suo secondo romanzo. Questo prende l’avvio da una scena familiare che si svolge nella cucina “incasinata” del fratello Abdulkadir, a Manchester. Davanti a una tazza fumante di tè, la scrittrice-protagonista (autore e personaggio coincidono) si ritrova a parlare con lui, col cugino O e il nipotino. Un piccolo campione di famiglia somala costretta alla diaspora dalla guerra civile scoppiata nel 1991, i cui membri si sono sparsi per l’Europa, ci immette, attraverso una scrittura essenziale, nel bel mezzo del dramma della migrazione. Ogni componente di questo quadro familiare ha infatti una cittadinanza diversa (inglese, Abulkadir; finlandese, 0; iltaliana, Igiaba). I tre somali, cittadini di stati diversi, si ritrovano a parlare della Mogadiscio da cui sono costretti a stare lontani e a disegnarne la mappa dei luoghi cari perduti.
Il romanzo comincia così a configurarsi come una topografia che ovviamente diviene una topografia interiore della protagonista. La storia che vi si narra è scandita, dopo l’iniziale tappa inglese, da sei tappe romane ciascuna delle quali corrisponde a un tassello della vita della scrittrice.Una mappa necessaria che l’io narrante, su invito della madre, si mette a disegnare, stazione dopo stazione, e che è tutt’uno con la difficile ricerca della propria identità. L’invito materno è un invito alla verità. Non basta disegnare Mogadiscio per dire di sé:
Ero a un crocevia.
Mamma disse altre parole. Non le afferrai tutte. Mi ero distratta. Ma l’ultima frase era un pugno in pieno volto. Un ko da cui non sapevo se sarei riuscita a rialzarmi. Anzi, in quel momento non volevo rialzarmi. Mamma con la dolcezza solita però mi aveva spronato. Mi aveva colpito duro, lo sapeva. Ma il suo intento non era quello di distruggermi o umiliarmi. Mi aveva colpito perché non poteva fare altrimenti. Voleva che io mi svegliassi. che cominciassi veramente a vivere.
“Devi completare la mappa. Manchi tu lì dentro.” (p. 30)
Occorre unire la mappa della propria città a quella delle origini familiari. Una mappa in cui collocare se stessa e far incontrare le varie traiettorie della propria storia e che ha come teatro Roma, la città natale che non sempre è stata accogliente e materna con i suoi figli, con i figli dell’immigrazione.
Siamo, come si può notare, con quest’opera nel bel mezzo di nodi sociali di cogente attualità.
I capitoli del romanzo, in tutto otto, dal secondo al settimo, prendono il titolo da alcuni luoghi che rivestono per Igiaba un significato insieme storico e privato e sono introdotti da corsivi che dall’annotazione topografica ogni volta aprono a squarci memoriali.
Prima tappa di questa ricognizione topografica è il Teatro Sistina, luogo che schiude il ricordo dell’incontro del padre Omar Scego con Nat King Cole. Da questo primo flash vediamo snodarsi la sua vicenda umana dall’infanzia all’apprendistato politico, che lo vedrà ben presto passare dall’incarico di Ministro degli esteri somalo all’esilio, dopo l’avvento di Siad Barre, nel ‘69).
Il privato si intreccia in tal modo con la Storia: la crisi dell’imperialismo, l’amministrazione fiduciaria dell’Italia in Somalia ecc.
La narrazione si spazializza toccando altre stazioni che via via consegnano altrettanti frammenti autobiografici.
A piazza Santa Maria sopra Minerva, una delle piazze preferite dalla protagonista perché è “un rifugio perfetto per chi è triste” e “un’oasi di pace assoluta che tanto contrasta con la folla urlante che riempie il vicino Pantheon”, l’elefantino del Bernini, che ha uno sguardo da esule e ricorda lo sguardo della madre, evoca la sua storia di donna nomade. E a Porta Capena, ormai priva della stele di Axum che Mussolini aveva portato dall’Etiopia a Roma (la leggenda narra fosse appartenuta alla regina di Saba), affiora alla memoria la figura del nonno e con lui si sfogliano ancora altre pagine sul colonialismo italiano e sul fascismo chiudendo col ricordo della tragica fine dello zio Osman, il cui assassinio fu anche un assassinio delle spinte democratiche da lui rappresentate e preluse all’instaurazione, di lì a poco, della dittatura di Siad Barre.
Se questi luoghi evocano le figure care dei familiari e rendono visibile soprattutto una cartografia privata, la Stazione Termini, luogo di incontro degli immigrati (essi lo amano perché da lì sperano di poter partire) consente di mettere a fuoco, col “carico di dolore” che “si portava addosso”, un bruciante tema sociale.
E poi, Trastevere, divisa e stravolta dal viale costruito alla fine dell’800, che agli occhi della scrittrice diviene figura dell’unità perduta affine alla condizione dei somali della diaspora, ma che è stato pure luogo della solidarietà sperimentata in alcuni momenti di difficoltà. Infine lo Stadio Olimpico che attraverso il modello di Rudy Voeller, il calciatore tedesco dalle straordinarie prestazioni sportive, la salva dal periodo buio della bulimia.
La geografia romana della Scego ne include sempre una africana perché come lei stessa dichiara alle ultime battute del suo memoir:
“Sono italiana, ma anche no. Sono somala, ma anche no.
Un crocevia uno svincolo” (p. 158)
Insomma, come ha ancora dichiarato in un saggio, Igiaba è sempre “in between tra le lingue, gli odori, la geografia.” e la sua lingua è una lingua dell’incontro, una lingua multiforme, meticcia come il mondo in cui viviamo. Perciò è nel capitolo finale che troviamo racchiuso il senso del romanzo. Il titolo è di per sé eloquente: Essere italiano per me.
La mappa che ha disegnato la scrittrice è un modo di rispondere alla domanda “Chi sei?”. La ricerca di uno spazio in cui riconoscersi, di una ‘casa’, non può che risolversi nel racconto del percorso che porta a coniugare in sé culture diverse. Non è un caso che a questo punto la scrittrice ricordi Il primo racconto del cardinale di Karen Blixen. dove il protagonista per soddisfare la domanda rivoltagli da una signora, “Ma tu chi sei?”, risponde raccontando una storia.
E Igiaba, con la scrittrice danese, sa bene che può rispondere alla stessa domanda raccontando la sua storia ….