(di DONATELLA LA MONACA)
“Così, adesso, Rafael sente il buco della gengiva rimasta vuota sotto la lingua. La cosa più brutta di questa storia che uno deve crescere…riempiendosi per forza di buchi” (Cose da pazzi, Einaudi, Torino 2012, p. 306).
Bruciano come ferite aperte nel silenzio assordante della sua coscienza, le mancanze che costellano l’accidentata formazione adolescenziale di Rafael Lomunno nel confronto quotidiano con la realtà cruda e difficile del quartiere Spina, cuore pulsante e deviato di una Palermo, mai citata, eppure riconoscibile nelle pieghe nevralgiche della sua topografia. «Sedie, ombrelloni, bambini, cani» affollano uno scorcio cittadino che della coesistenza dei contrasti si alimenta: il «buco del locale-trattoria-Cetti e Salvo-cucina-fatta-a-casa», la bottega di Vito il barbiere, l’ «edicola con la faccia tonda di Miccoli che ride», il «teatro tutto rosso dentro», la «chiesa con i santi scolpiti sulla facciata». E’ già nella fisionomia ossimorica della sua cartografia il segno di «un mondo alla rovescia, dove spesso il diritto è inteso come un favore, dove la cosa pubblica è concepita in modo proprietario, dove si è perduto il senso stesso di cittadinanza”. ( Intervista a Massimo Maugeri, “Letteratitudine” 2 aprile 2012).
In uno scenario, così ritratto dalla stessa autrice, anche l’espressione «cose da pazzi», evocata da Evelina Santangelo sin dal titolo del suo romanzo, si carica di uno spessore ambivalente in relazione al punto di vista di chi questa realtà la vive dall’interno, per cui l’abnorme è norma e di chi, invece, da una diversa trincea etica coglie tutte le storture di un mondo in cui la violazione della dignità umana è diventata la regola. Sul labile crinale tra le due dimensioni si svolge l’avventura adolescenziale di Rafael, la sua tormentata transizione dall’infanzia all’età adulta, il cruciale attraversamento di quegli anni in cui, direbbe Elsa Morante, la «leggenda barbara e luminosa della vita incontra il rischio mortale della coscienza». E di «barbaro e luminoso» nella acerba gioventù del protagonista si staglia la ruvida e pur appassionata amicizia con il coetaneo Richi la cui fisionomia, minata dalla violenza devastante della malattia, si metamorfizza agli occhi di Rafael nelle fattezze del «neonato di uno scimpanzè con gli occhi spiritati e quattro peli sulla testa». Proprio da questa creatura deformata dal male, con la «pelle rugosa e secca di una tartaruga», le «nocche affilate» e le «occhiaie dello stesso colore del muschio violaceo sui mattoni di tufo»,si sprigiona una carica vitale talvolta rabbiosa, talaltra venata di pensosa consapevolezza, da cui Rafael si abbevera.
Intorno alla cellula esclusiva del loro rapporto si muove un microcosmo sociale piagato dalla legge non scritta del «recupero crediti», espressione in codice allusiva alla pratica prevaricatrice ed estorsiva del «pizzo», ibridato, nella sua matrice piccolo borghese e popolare, dall’irruzione omologante del business mediatico, dei miti posticci di importazione americana, delle politiche consumistiche, del clientelismo parassitario alimentato dalla logica bieca del voto di scambio. Una coralità analogamente molteplice di figure popola le piazze e i vicoli di questo ambivalente sfondo urbano, da Scimunito col Bollo, a Rocco il posteggiatore, al ragionier Pompa, alla ‘gattara’ Fiorella, alla «uomina» di Rosi, a Lilla la «stronza» e a sua madre la «Larva» i cui rantoli agonici scandiscono le notti inquiete di Rafael.
Una onomastica di eco verghiana sembra connotare questa dissestata comunità al cui interno si ritagliano un ruolo diversamente identitario la famiglia di Rafael e la scuola. Luoghi elettivi nella formazione di un individuo, entrambi gli ambienti contribuiscono ad acuire la sensibilità del ragazzo, a seminare il dubbio etico nei confronti di un malcostume eletto a norma, ad accendere di interrogativi il suo sguardo sul mondo. Quel «mondo» che «siccome è tondo è fatto per muoversi, girarlo» recita l’epigrafe del romanzo mimando il monito ricorrente di Estella Rodriguez, colombiana, la madre di Rafael che i compagni spesso apostrofano con l’appellativo «indiano» o «marocco» proprio per rimarcare la sua appartenenza, per via materna, ad una etnìa “altra”. Si insinua così, sempre sapientemente filtrato attraverso la prospettiva adolescenziale, il delicato nodo dell’integrazione spesso difficile e sofferta anche in realtà geografiche di fatto multietniche.
Nessuna interpolazione autoriale, nessuna digressione giudicante trapela nel declinare questa, come le altre urgenze contemporanee di cui la narrazione è intessuta, in una voluta consegna interpretativa alle forme dell’invenzione. Si condensa, infatti, nella delineazione del personaggio di Estella, nella sua evoluzione nel racconto, nella sua fisionomia linguistica, il senso della dignità da tutelare e rivendicare rispetto ad un ambiente sentito spesso diffidente, la reazione ad una condizione di estraneità, latente nelle dinamiche sociali, nelle relazioni umane, il desiderio di annullare, talvolta, ogni traccia di diversità sin dalla «linguamadre».
La scelta compositiva di insediare l’angolo visuale della narrazione negli occhi e nella mente di Rafael consente alla scrittrice di pedinare sincronicamente le volute tortuose del suo percorso formativo e i meandri del “sottosuolo” palermitano «schivando, con una scacchistica mossa del cavallo, le semplificazioni ideologiche» scrive Massimo Onofri evocando, in tal senso, il magistrale esordio di Calvino nel Sentiero dei nidi di ragno.
La voce autoriale regredisce tra le maglie dell’ordito narrativo demandando alle modulazioni della scrittura la progressiva investigazione della realtà, affidandosi alla «disinvoltura della lingua che diventa subito possesso di mondo, alternando l’italiano a un pastoso palermitano d’invenzione ma anche all’imbastardito spagnolo della madre di Rafael», chiosa ancora Onofri (“Avvenire”,12-05-2012).
Ma la mescidazione linguistica si innesta su un tessuto espressivo variabile, duttile ad intonare le diverse inflessioni della contemporaneità, dal lessico pubblicitario, al frasario televisivo, ai testi delle canzoni dei miti locali, al codice dei videogiochi, intersecati a comporre una tastiera emblematica delle sollecitazioni concrete di cui si colora il cammino conoscitivo di Rafael.
Prende corpo così, attraverso un mosaico elettivamente linguistico, un ritratto che coniuga nel segno espressivo lo stato interiore e lo spaccato societario, lo scatto poetico con la crudezza del dato ambientale. Interno ed esterno si fondono, infatti, in un andamento narrativo che asseconda il ritmo delle percezioni del protagonista assumendo una centralità interpretativa fondante nella delineazione di quel nucleo collettivo eterogeneo rappresentato dalla classe di Rafael. La «zecca di Eros», il «pinnolone di Lillo», la «cana pechinese», l’ «Uomo Pietra», «Giusy Coniglio» abitano, ciascuno marchiato dall’attribuzione inequivocabile di tratti identificativi di conio adolescenziale, un contesto scolastico che riflette in scala ridotta le contraddizioni del quartiere, amplificandone luci ed ombre.
E in un «silenzio verdissimo» come i suoi occhi limpidi e indagatori, «che si muovono lenti da un banco all’altro», si staglia la professoressa Rita con le sue lezioni di legalità, espressione non eroica, non enfatica, di un agonismo morale che sa insinuare nelle giovani menti, insidiate dalla narcosi del costume malavitoso, il germe dell’alterità, la nozione di reato,di responsabilità individuale nel riconoscere e nell’opporsi alle logiche mafiose e, non ultima, la possibilità di cercare un “oltre” e un “altrove”. Nessuna concessione alla retorica, pur nella denuncia, incrina la coerenza compositiva del romanzo in pagine dalle quali la vibrazione etica promana ancora più intensa perchè gradualmente accesa nei processi ragionativi di Rafael, scaturita da una maieutica elementare, dalla materialità prosaica di un tubetto di Attak e di quella «colla che certe volte si può spremere nelle serrature dei catenacci. Così uno non li può più aprire».
Lessemi come «sicurezza», «civiltà», «legalità», non a caso alcuni marcati dalla segnalazione in corsivo, cooperano a disegnare una prospettiva interpretativa della realtà di cui la distorsione è fibra costitutiva. E sempre dall’uso linguistico muove la requisitoria dell’interlocutrice dalle «iridi verde-grigio» che, attraverso il ripristino del senso legittimo delle stesse parole-chiave, ristabilisce l’equità semantica, riabilitando le coordinate etiche violate dalla mistificazione e profilando agli allievi un orizzonte di lettura della realtà per loro inedito e diametralmente opposto:
Un mettersi in regola…- ha ripetuto la professoressa Rita, come se fosse quella la risposta giusta, che si aspettava, mentre non era così, perchè a un tratto era ritornata verso la cattedra, aveva puntato le nocche magre sul ripiano. – No,- aveva detto.- Se io metto questa roba qua,- aveva sollevato il tubetto rosso, lo aveva tenuto in alto davanti agli occhi di tutti,- l’Attak, nella serratura di un negozio, o rompo le vetrine, o brucio i locali, perché il proprietario non paga il pizzo…- aveva preso a scandire le parole come se stesse elencando i dieci comandamenti, – io sto com-pien-do un re-a-to. Se un salumiere, per esempio, la mattina arriva e trova dell’Attak nella serratura del suo negozio, questo salumiere sta subendo un re-a-to, e chi ha messo l’Attak ha commesso un re-a-to. Chiedere il pizzo è un re-a-to. Pagare il pizzo è un re-a-to, nessuna messa in regola, nessun servizio, nessun recupero crediti, -aveva detto con il verde degli occhi che passava da una faccia all’altra come se fosse una specie di polvere magica magnetica, che ipnotizzava (pp.106-107).
In una voluta continuità e contiguità narrativa coesistono due visioni del reale antitetiche, espressione di quel ‘plurilinguismo’ strutturale in cui Bachtin scorge la vocazione dialogica della parola nel romanzo, la sua intrinseca anima democratica.
Si inscrive appieno nell’alveo della tradizione letteraria dissodata alla luce dei principi bachtiniani, l’esperienza di scrittura di Evelina Santangelo protesa, in particolare in Cose da pazzi, ad «illuminare il mondo altrui cercando di parlare in una lingua altrui» direbbe ancora lo studioso russo. In quest’ultimo romanzo la «lingua altrui» è prioritariamente la lingua dei pensieri di Rafael, entro cui si stratificano coloriture lessicali e semantiche, registri tonali, forme gergali di una realtà ambientale,sociale e umana, irriducibilmente connotata di cui la scrittrice si avvale per «l’orchestrazione dei suoi temi e per l’espressione rifratta delle sue intenzioni e valutazioni».
Si lega armonicamente a tale strategia compositiva la «diffidenza», dichiarata con vigoria dalla Santangelo, nei confronti di «ogni forma di realismo programmatico in opere di invenzione», ed ancor più nei riguardi di una nozione di letteratura il cui «ruolo specifico non è consolare e nemmeno riscattare»( www.evelinasantangelo.it).
Nella riflessione dell’autrice l’esercizio della scrittura è, piuttosto, «un modo di interrogare l’esistenza, senza voler dimostrare nulla, perchè la letteratura non ha il compito di spiegare nulla. Permette di guardare il mondo che racconta da prospettive inedite e in questo senso è anche una forma di conoscenza, un modo per sperimentare l’esistenza e di dare ad essa una forma possibile».
Si delinea, così, una sorta di realismo conoscitivo che trova nell’invenzione narrativa di Cose da pazzi, una misura tematica ed espressiva coesa. L’accoglimento della realtà e di una realtà ambientale denotata e riconoscibile, è infatti pervasivo in queste pagine che ne solcano impurità e detriti senza alcuna pretesa asseverativa. La scrittura non spiega, non giudica ma si volge ad «allungare lo sguardo in universi che spesso rimangono fuori dal campo visivo», a penetrarne le ragioni, a «darvi una forma possibile», realizzando la sua istanza conoscitiva nel pedinamento della formazione di Rafael. Schermata dal cedimento al luogo comune, la narrazione trova, infatti, la sua «prospettiva inedita» nell’interpretare le dinamiche personali e sociali della crescita di un adolescente che «più conosce più si spaventa», nel dare corpo espressivo a quelle «sue visioni senza parole che si possano dire» da cui si generano lo slittamento immaginifico, la tendenza alle figurazioni, elettivi, sin dagli esordi, nelle narrazioni di Evelina Santangelo.
Nella scelta di fondo dell’autrice detto e non detto si illuminano reciprocamente: la scrittura soccorre l’invenzione nel dare forma e voce al dolore, all’impotenza, alla fragilità, a tutte quelle emozioni che resterebbero mute in un impianto sociale che le nega e le soffoca e che così vengono invece traslate sugli oggetti esterni, sui dati materiali, vegetali, animali colti in una specifica condizione ed elevati a correlativo oggettivo delle pulsioni represse.
La lingua dell’autocoscienza scorre dentro i linguaggi dell’ottundimento attingendo a un delicato equilibrio letterario tra la rappresentazione del reale e la sua interpretazione in cui si realizza di fatto l’identità autoriale. Ancor più, in tal senso, si invera la lezione bachtiniana secondo cui sulla «stratificazione della lingua, sulla sua pluridiscorsività e persino sul suo plurilinguismo» il romanziere «costruisce il suo stile, conservando l’unità della sua personalità creativa e l’unità del suo stile». (cfr.Bachtin, Estetica e romanzo).
Ottobre 2013