(di SALVATORE FERLITA)
L’occhio cieco del mondo (Einaudi 2000), libro di esordio della giovane scrittrice palermitana, raccoglie undici racconti, o meglio, come ammette la stessa autrice nella nota finale, undici storie “strampalate”, alcune delle quali avevano già visto la luce nel volumetto pubblicato da Perap e intitolato Storielietedifonderia (1994). Storie che ci parlano di personaggi straziati dal loro destino, costretti a trascinarsi, come grosse palle di ferro al piede, i loro incubi, le sofferenze, le visioni mostruose; e la ineluttabilità di questi destini pesa sulle cose, inondando il mondo di dolore e lacerazione.
Si tratta di storie a volte quasi insignificanti, apparentemente insensate, ma che quando meno uno se l’aspetta, dischiudono squarci di verità abbaglianti che illuminano anche gli aspetti più minuti, i pulviscoli della nostra esistenza. Il lettore viene introdotto nel mondo di questi personaggi con somma cautela; all’inizio quasi si sente smarrito, e solo pian piano prende coscienza di quanto sta accadendo o è già accaduto, grazie ad una parola, una visione, una descrizione che, messe assieme, danno forma ad un palcoscenico inquietante, dove si muovono protagonisti smarriti o farneticanti. Come quel vecchio vedovo del sesto racconto della raccolta, L’uomo che arrivò sulla banchina un giorno di cinque anni prima e se ne andò improvvisamente cinque anni dopo, che attende, in compagnia di un buon vino, il ritorno della donna amata; donna che si trasfigura in una sorta di immensa sirena vomitata dai flutti del mare. O come Melina la “nana”, che a tutti i costi vuole ritornare in manicomio, dove aveva lasciato le sue angosce e i suoi sogni; o ancora, come quelle due donne in gita al mare, alla ricerca di un passato che ha l’odore fortissimo delle alghe e che, una volta ritrovato, lascia macchie indelebili, come il catrame le lascia sui vestiti.
Colpisce, in queste pagine, una costante attenzione alle cose, vigile e serrata, maniacale, ma anche una componente quasi surreale della narrazione, che non diventa mai evasione, oppure incanto, ma intrinseco, connaturato, quasi consustanziale aspetto della realtà. C’è da dire che all’universo di angoscia tratteggiato dalla Santangelo, in cui domina la sofferenza del vivere, si sovrappone una visione che all’inizio appare luminosa, ardente, quasi infuocata (“… il sole si spalma quieto nel cielo del mezzogiorno”, “… un fiotto improvviso di luce”, e ancora “…. la faccia paonazza del sole”, “… sentiva il sole scoppiarle sotto la pelle”, e poi “… l’afa spessa del primo pomeriggio s’era già presa tutta la strada”, “il sole sbrana pezzi di cielo”), ma che alla fine diventa algida, glaciale: l’eccesso di luce cancella i chiaroscuri appiattendo la visione.
Nessuna atmosfera tenebrosa, dunque: tutto accade alla luce accecante del sole: ma si tratta di un sole malato, che sembra rimandarci a Camus e al suo Straniero. E una volta lette tutte quante queste storie, è possibile rispondere alla domanda che viene posta a Nanni, in uno dei racconti più riusciti, intitolato La storia di Amelia: “Dov’è l’inferno?” L’inferno, viene da dire, è dentro la testa di questi personaggi; e proprio la parola “testa”, assieme a “cervello”, ritorna quasi ossessivamente nelle pagine della raccolta. Testa “che galleggia nell’aria calda della stanza”, testa che ospita “un nido di vespe” o un “ronzare di api”; per non dire di quel personaggio che “chiudeva gli occhi, tappava le orecchie, la bocca, le orecchie di nuovo. Non c’era verso di strapparsi dal cervello quelle cose”. Cervello e testa, dunque, quali pirandelliane “stanze della tortura”.
Ma l’atmosfera in cui sono immersi i racconti della Santangelo riesce ad allontanare ogni frastuono, qualsiasi rumore, ad annullare i rovelli e le angustie che tormentano i protagonisti delle storie narrate, e quasi a smorzare il dolore del mondo. Un mondo illuminato dall’occhio dell’autrice, per niente cieco, che “si dilata”, per usare le sue stesse parole, e risucchia “tutto ciò che in qualsiasi altro occhio, avvezzo alle grandi distanze, avrebbe appena sfiorato o relegato ai margini del campo visivo”. Un occhio che, alla stregua di un bisturi, riesce ad aprire la testa dei vari personaggi, a illuminare le zone più recondite, a cogliere i meccanismi che si inceppano, a registrarne anche i movimenti più impercettibili.
Il tutto, attraverso una scrittura avvolgente e torrida, che dà calore alla pagina, infittendola di icastiche descrizioni pronte a tracimare dalla loro fisicità, per immergersi in uno spazio simbolico. Peccato che in alcuni passi la trappola del manierismo inceppa il ritmo della narrazione, appesantendo inutilmente certi monologhi, e qua e là punte di barocchismo narcisisticamente ostentato rischiano di far perdere di vista quelli che sono gli assunti generali dei racconti della Santangelo. Ma resta, comunque, la limpidezza dello sguardo di questa giovane autrice, che dà voce alla solitudine e all’emarginazione, sostituendo alla cecità del mondo il suo occhio crudele. Un occhio che, nel momento in cui mette a fuoco ed esamina, allontana “il frastuono del mondo”, attenua la sofferenza. E tutto, alla fine, sembra nuovo, come se Dio si fosse appena svegliato e avesse “fatto nuove tutte le cose”, come si legge in uno dei racconti. E se è vero, come ripete il professore protagonista della storia La casa sulla grande ansa del fiume, che “ognuno teme quello che meno conosce”, la Santangelo con questa raccolta ci vuol dire che il dolore “riconosciuto, compreso, custodito”, per citare Elias Canetti, non può farci paura: l’attitudine epistemologica della giovane narratrice palermitana, come ha rilevato opportunamente Massimo Onofri, “che induce il lettore a sorprendersi per la qualità dello sguardo del narratore e ad interrogarsi sulle sue ragioni”, fa sì che anche la sofferenza più nascosta si manifesti con prepotenza. Una sofferenza con cui convivere, e che dona senso alle cose.
Come del resto accade nell’ultimo racconto della raccolta, L’ospite della gamba, il più riuscito e significativo; quello che funge da vera dichiarazione di poetica, facendoci comprendere come funziona lo sguardo della Santangelo:
Aveva sentito un prurito rosicchiarle il muscolo del polpaccio all’attaccatura della caviglia, s’era abbassata per strapparlo via con tutte le unghie ed era rimasta così, chinata sulla sua gamba, a guardare rasoterra il mondo.
Questo sguardo rasente, che rinuncia alla verticalità, stravolge la prospettiva, facendo a meno della profondità e dello sfondo. È uno sguardo che si abbarbica sulle cose, che passa in rassegna maniacalmente tutto quello in cui si imbatte, deformando e alterando in continuazione gli oggetti che affollano queste pagine. Solo così, perdendo di vista le normali proporzioni, trasgredendo le regole della rappresentazione visiva, la Santangelo può introdurre il lettore nel suo universo strampalato; anzi, l’autrice ci costringe a camminare strisciando: ogni cosa ai nostri occhi appare diversa, mai vista, inaspettata.