Feb 23

Tra le maglie della costruzione narrativa: alcune riflessioni su “La ferocia” di Nicola Lagioia

(di ALBA CASTELLO)

La ferocia (Einaudi, 2014), ultimo romanzo di Nicola Lagioia, vincitore del Premio Strega 2015, traccia l’impietosa parabola dei Salvemini, facoltosa famiglia di “palazzinari” arricchitasi con la speculazione edilizia e scossa da drammi privati che ne mettono a rischio l’impero materiale.

L’inquietante epopea familiare raccontata nelle pagine del romanzo si riconnette a una lunga tradizione letteraria che si può far risalire a I Vicerè di De Roberto. L’orizzonte negativo e l’amaro pessimismo che pervadono il capolavoro derobertiano sono ampliamente assimilati dal romanzo di Lagioia ma attualizzati e tradotti in un’accezione nuova. In La ferocia, infatti, sarà proprio il sentimento che dà il titolo al libro a guidare, seppur con modalità differenti, l’agire dei personaggi. Ma, inaspettatamente, l’epicentro di un romanzo che racconta di corruzione ed erotismi perversi è un amore autentico, quello che lega Clara Salvemini e il fratellastro Michele.

Ecco come lo scrittore definisce la ferocia in un’intervista-dialogo rilasciata a Giuseppe Zucco e riportata su Nazione Indiana:

“La ferocia è il ritorno allo stato di natura ogni volta che ci siamo illusi di essercene emancipati. Mentre no, la legge della giungla è sempre dietro l’angolo, basta darle l’opportunità di scatenarsi. Per esempio una crisi economica. […] Nessuno, o pochi, pochissimi, possono dirsi al riparo da questo rischio. Metti cinque bravissime persone a una tavola con cinque piatti di pasta. Converseranno amabilmente, daranno il meglio di sé. Riduci i piatti a quattro, a tre, a due, a uno solo, e vai avanti così per giorni. Chi sarà il primo a cedere alla tentazione di fare fuori gli altri per sopravvivere lui? La ferocia è questa cosa qui.
Il contrario della ferocia è invece in questo caso l’amore. Quando (ed è ciò che succede a Clara e al fratellastro Michele) riusciamo incredibilmente a sabotare l’istinto di prevaricazione che altrimenti ci porterebbe a sbranarci l’un l’altro. Questo gli animali non riescono a farlo. […] Gli animali non costruiscono campi di concentramento ma non sono capaci di spezzare l’anello della violenza. Noi sì, raramente, episodicamente. E non so neanche se questo autosabotaggio (meraviglioso quanto raro) sia il frutto di un mostruoso atto di volontà o di qualcosa assimilabile ad altro, alla grazia”.

La presa di coscienza della bestialità umana e della ferocia che imperversa nel mondo, si affiancano alla scoperta di una più profonda umanità, quella che “riesce a spezzare l’anello della violenza” e a superare “l’istinto di prevaricazione” che accomuna gli uomini agli animali. Come una “grazia” o un “miracolo” laico, l’amore tra Clara e Michele, autentico ed estremo, getta una luce di speranza e di positività in tutto il romanzo.

L’intreccio narrativo è contrassegnato da una complessa concatenazione di piani temporali. Fin dalle prime pagine è sistematicamente scardinata ogni linearità cronologica. Il raffinato gioco di giustapposizioni temporali, inizialmente destabilizzante per il lettore, rivela poi tutta la sua coerenza e diventa l’asse portante della struttura romanzesca. In tal modo, se già nel primo capitolo è di fatto contenuto l’epilogo della vicenda -cioè la morte misteriosa di Clara- questo affascinante personaggio femminile continuerà a rimanere protagonista attivo per quasi tutta l’opera.

La ferocia è un romanzo poliprospettico, che passa letteralmente “allo scandaglio” la realtà da angolazioni differenti. Scene ed eventi vengono di volta in volta deformati dallo sguardo di un personaggio diverso. Attraverso una vorticosa giostra dei punti di vista Lagioia scongiura ogni possibile approdo ad una verità semplice ed univoca. L’unico percorso possibile per indagare la morte misteriosa della ragazza impone una continua riconsiderazione degli eventi e dei personaggi, un incessante cambio di prospettiva e la conseguente scoperta di verità nuove e inattese.

Allo sguardo di Michele e di Clara si affiancano e si contrappongono quello di Vittorio, di Gioia, di Alberto, di Annamaria e di altri personaggi esterni alla famiglia Salvemini. Attraverso tali plurime incursioni prospettiche l’autore mette a nudo vizi e debolezze dei suoi personaggi e ne traccia spesso ritratti impietosi.

Ne deriva una rappresentazione multipla e dinamica della realtà romanzesca che conduce anche a esiti imprevisti, provocando singolari effetti di “straniamento”. Un passo esemplificativo è quello del dialogo tra Michele e il padre Vittorio:

– “Hai sentito per caso il geometra Ranieri? – disse l’uomo più anziano a quello giovane nel fresco della veranda.

Ma per il minuscolo acaro attaccato all’addome della vespa si trattava di ombre che la distanza non trasformava ancora in pericoli reali. Nonostante la vespa fosse grossa dieci volte tanto – la sua puntura in grado di provocare uno shock anafilattico in un cane di piccola taglia – la forza impersonale che governava l’acaro la spinse ad aggredirla non appena ne individuò la presenza nel vaso di ciclamini. La vespa provò a reagire, ma era lenta. L’acaro poté artigliarle l’addome con i suoi dentini aguzzi, fino ad infilarci dentro le potenti appendici saldate a tubo. Non poteva sapere che la vespa era vecchia e malandata, e che questa era l’unica ragione per la quale avrebbe avuto la meglio. Lo sapeva la sua forza e tanto bastava”. (p.304).

Il lettore conosce già i contenuti della conversazione, raccontata nelle pagine precedenti. Questa volta, però, l’incontro è ripresentato in modo singolare, le voci dei due personaggi sono ora avvertite come quelle di “ombre” lontane e fanno da sfondo a una lotta tra insetti. Per l’acaro, spinto dall’istinto ad aggredire la vespa, Vittorio e Michele sono soltanto un “uomo più anziano” e uno “giovane”, due figure distanti e quindi irrilevanti. Un così raffinato effetto di straniamento, –che già Verga, sebbene in un contestoesclusivamente antropologico, aveva sperimentato- sembra aver fatto tesoro della lezione di grandi autori della letteratura europea del Novecento, prima fra tutte quella di Kafka.

L’attenzione agli animali si riconnette anche alla volontà di ampliare il proprio spettro d’osservazione sul mondo, a partire dalla consapevolezza che qualunque percezione della realtà non può che rivelarsi parziale e limitata. Si legga, a tal proposito, parte dell’intervista rilasciata dallo scrittore a Gianni Montieri e pubblicata sul blog Poetarum Silva (Interviste credibili #16 Nicola Lagioia: La ferocia, i sogni, la scrittura):

Se siamo un mistero a noi stessi, figuriamoci cosa dev’essere per noi il mistero dei gatti, delle mucche, delle mosche e degli scarafaggi. Come sente il mondo uno scarafaggio? Ce l’ho tra le dita, lo potrei schiacciare, è in mio dominio, il piccolo scarafaggio, e al tempo stesso non ho idea come questa creatura formatasi milioni di anni fa percepisca la luce, il vento, la luna. Non siamo soli sulla terra, e il mondo che percepiamo è solo una parte della realtà. Il realismo non esaurisce la realtà, e di questo gli animali credo siano i testimoni più squillanti e ineludibili.

Nella consapevolezza che “il realismo non esaurisce la realtà”, Lagioia è incuriosito da differenti forme di percezione. E in un romanzo il cui fulcro narrativo è proprio l’indagine su una morte misteriosa, l’apertura a percorsi conoscitivi inattesi, che a tratti tradiscono l’avvertimento di un livello soprannaturale, rappresenta sicuramente una sfida accattivante.

All’interesse per l’etologia corrispondono, sul piano formale, la ricerca di un lessico specifico, la scelta di termini connessi all’anatomia animale e degli insetti, l’uso di tecnicismi e la predilezione per figurazioni e metafore zoomorfe.

A un’analisi più attenta di La ferocia è possibile notare come l’autore, in punti diversi del romanzo, ritorni sulle stesse frasi o sugli stessi passi. A ben vedere, quella che potrebbe sembrare una semplice “ripetizione”, rivela invece la consapevole e studiata “ricorsività” della narrazione. La ripresa di un passo, infatti, da un lato, è funzionale all’inserimento di elementi nuovi, dall’altro, permette di conferire un risalto particolare ai passi ripetuti. È esemplificativo a tal proposito l’attacco narrativo che precede l’incontro tra Michele e il medico legale Gennaro Lopez. Lo stesso episodio ritorna in ben tre occasioni e ogni volta ampliato ed esteso:

“Quando, molti anni dopo, Gennaro Lopez, ex medico legale dell’azienda Asl 2 di Bari, si sarebbe trovato a estrarre dai suoi molti benché confusi ricordi il più spaventoso, cioè quello che avrebbe potuto causargli maggior danno, avrebbe scelto la sera in cui un ragazzo sui trent’anni bussò alla porta di casa sua e iniziò a riempirlo di domande sul certificato di morte di sua sorella”. (p. 297)

E più avanti:

“Quando, molti anni dopo, Gennaro Lopez, ex medico legale dell’azienda Asl 2 di Bari, si sarebbe trovato a estrarre dai suoi molti benché confusi ricordi il più spaventoso, cioè quello che avrebbe potuto causargli maggior danno, avrebbe scelto la sera in cui un ragazzo sui trent’anni bussò alla porta di casa sua e iniziò a riempirlo di domande sul certificato di morte di sua sorella.

A quel tempo Lopez era pieno di debiti e consumava due grammi di cocaina al giorno. Era scampato all’apertura di un fascicolo disciplinare. Assumeva Diamet, Ipnolor, Depamag gocce, andava a puttane in modo regolare e tutto questo faceva sì che fosse tormentato da un imprevedibile effetto di raddoppio – la sensazione di aver letto la stessa pagina di giornale, di aver vissuto una scena il giorno prima rispetto a quando gli identici dettagli sinestetici si organizzavano davanti ai suoi occhi”. (p. 334)

Solo in seguito sarà finalmente raccontato, nella sua completezza, l’incontro tra Michele e Gennaro Lopez, episodio cruciale per lo sviluppo della storia. E non è forse un caso che la reiterazione di queste formule narrative susciti nel lettore una sensazione simile a quella provata dalla mente allucinata del medico legale: uno strano “effetto di raddoppio”,  la sensazione “di aver letto la stessa pagina”.

A una più accorta osservazione è possibile carpire anche altri aspetti della narrazione. Infatti, come lo stesso scrittore ha affermato dialogando con i ragazzi del laboratorio Incontro con gli scrittori, l’incipit del passo sopra citato riporta alla memoria quello di Cent’anni di solitudine:

“Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendía si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio”. (Gabriel Garcia Màrquez, Cent’anni di solitudine, 1967).

L’omaggio allo scrittore colombiano, Gabriel Garcia Màrquez, è solo uno dei tanti riferimenti letterari disseminati nel romanzo.

Già nel suo libro d’esordio, Tre sistemi per sbarazzarsi di Tolstoj (senza risparmiare se stessi) (2009), il dialogo intertestuale appare, a più livelli e in modo diversi, un momento irrinunciabile della scrittura di Lagioia. E anche in quest’ultimo romanzo il lettore è invitato a cogliere i sottili giochi di citazioni e autocitazioni che contribuiscono a delineare i caratteri di un’opera onnivora e stabiliscono un dialogo interessante con alcuni grandi capolavori della letteratura europea e americana.

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