(di DOMENICA PERRONE)
Fino all’anno prima, avevo preso i sermoni di papà come qualcosa di logico e lineare. Il trascorrere del tempo doveva avere complicato la mia intelligenza, o forse erano i libri e i fumetti divorati negli ultimi mesi. Così, quando disse: “Ma con il mio francese non potrei mai sedere al tavolo di un ministro o di un ambasciatore. Tu invece …”, non mi sembrò soltanto una benedizione (Riportando tutti a casa, p. 8)
Appare subito evidente al lettore di Riportando tutti a casa (Einaudi, 2009) che la letteratura e la scrittura sono per Nicola Lagioia un’esperienza totalizzante e assoluta. Sono “la faccenda seria della vita”, si potrebbe dire, prendendo a prestito le parole usate da Giacomo Debenedetti, lettore di un’ancora sconosciuta Elsa Morante, autrice, sul “Mercurio di Roma”, de L’uomo dagli occhiali.
E non è un caso che nel romanzo l’emancipazione del giudizio dato sui genitori da parte del giovane protagonista venga siglato, ogni volta, dal progredire di nuove letture. Come accade ad esempio nel momento in cui i sermoni di papà improvvisamente non suonano più “come una benedizione” e quando, poco tempo dopo, egli comincerà a diffidare, scortato da riviste e libri sempre più stimolanti, persino della madre:
Ascoltavo mia madre, in quello come in altri pomeriggi, e non erano le parole a convincermi ma la sua incontestabile bellezza. Oh, lei era uno di quei meravigliosi cocktail di geni corretti al Plasmon che iniziarono a far tremare i sedili delle sale cinematografiche dal dopoguerra in poi […]
E tuttavia, con il trascorrere dei mesi, cominciai a diffidare anche di lei.
Da “Tintin” ero passato a “Frigidaire” e “ Mucchio Selvaggio”. Ero riuscito a procurarmi una copia francese di “Métal Hurlant” Poi i romanzi. Le avventure di Jim Hawking e Long John Silver avevano ceduto il passo ai rovelli di Marlow che risaliva il fiume Congo. Nelle nuove storie da cui mi lasciavo catturare, non erano soltanto i personaggi a essere ambigui o indecifrabili ma il mondo intero. Così, osservando i miei alle prese con la vita che gli girava intorno notai come persino i litigi – più che segnare la frattura della loro presunta diversità- li avvicinassero pericolosamente. (Riportando tutti a casa, p. 21)
Il ragazzo può emanciparsi, per via di un crescendo di letture, non solo dall’ingombrante egemonia paterna ma anche dalla più gentile e a lungo accettata influenza materna. La letteratura si prospetta dunque come lo strumento privilegiato e indispensabile per decifrare e giudicare il mondo, per smascherare la trama di desideri e frustrazioni che sta dietro l’agire degli uomini. Ma, se fa maturare uno sguardo più libero e consapevole, la letteratura, per Lagioia, deve giudicare, in primo luogo, se stessa, come si postula nel romanzo d’esordio Tre sistemi per sbarazzarsi di Tolstoj (senza risparmiare se stessi) (Minimum fax, 2001).
Qui il giovane scrittore in convalescenza lega la propria guarigione a quella di Tolstoj, il «grande romanziere» con i «piedi ben piantati nella pianura russa. La barba lunghissima. Il fiato grosso di chi ha scritto Guerra e pace»:
Questa è la storia di una guarigione. Scritta da un convalescente. La guarigione è quella di Tolstoj. Di Tolstoj non so quasi più niente […] È la storia questa di Tolstoj che, di fronte a una contraddizione, non è più costretto a fuggire. Il tentativo di piegare i suoi tormenti ottocenteschi ai paradossi che marcano il visto d’ingresso per l’epoca attuale. (p. 17).
Guarire Tolstoj vuol dire scovarne le contraddizioni e «piegare i suoi tormenti ottocenteschi ai paradossi che marcano il visto d’ingresso per l’epoca attuale», vuol dire avvicinarlo alla nostra sensibilità e raccontarne una storia diversa alla luce della fuga a ottantadue anni da Jasnaja Poljana. In questo atto finale, che condurrà lo scrittore russo a morire in una stazione, il protagonista trova la possibilità di trasportarlo nel nostro tempo e dunque di farlo convivere senza effetti disastrosi con la sua incoerenza:
A ottantadue anni, sempre più tormentato dalla contraddizione tra i principi che professava e l’agiatezza in cui viveva, sfiancato dai continui dissidi con sua moglie Sof’ja Bers, abbandonò la casa coniugale di Jasnaja Poljana (p. 17)
Con un esame smaliziato e ironico, Lagioia cerca di smontare il capolavoro tolstojano e di mostrarne la convenzionalità di alcuni passaggi indicando, per esempio, nel capitolo XXXII, il ricorso ad abusati topoi letterari e perfino “l’apoteosi del kitsch”.
E allora è possibile incontrare Tolstoj nella Roma del nuovo millennio, giocare a dama, bere coca cola e discutere direttamente con lui di romanzi giocando a scopa. Si può costringerlo cioè a riflettere che “la letteratura come progetto è finita”, ma nello stesso tempo essere smascherati ed essere battuti da lui. Come quando, alla dimostrazione che non è più possibile scrivere Anna Karenina, egli ribatte:
“Se le cose stanno esattamente come dici…”
Lo ascolto con la massima attenzione.
“Se le cose stanno esattamente come dici… perché continui a considerare Giulia come la donna della tua vita?”
Touché
Dannato vecchiaccio (p. 32)
O, ancora, come quando annuncia “una magnifica idea” per un nuovo romanzo facendo la parodia dell’Ulisse. Secondo il modello joyciano, nell’arco di una giornata, il 2 febbraio del 1922, l’ultimo rappresentante di una ricca famiglia, il principe Andrej Kirillov vagando senza meta per ‘Pietroburgo’ incontra, “mentre tiene testa a tre redattori che lo accusano di propaganda controrivoluzionaria, Boris, “un agente pubblicitario prossimo alla pensione il quale affascinato dall’irruenza del giovane, lo sottrare alla discussione portandoselo a bere un bicchiere di vodka”. Una trama che mette in sospetto il suo interlocutore:
Su questa storia dell’agente pubblicitario ho come un irrigidimento. Un sentimento di sospetto mi porta a controllare con estrema attenzione le carte sul tavolo e, contemporaneamente, a ricercare nelle parole di Tolstoj la breccia spalancata su un qualche possibile inganno. Del resto, rifletto tra me e me, nel 1922 Pietroburgo non si chiamava più così da almeno cinque anni.
[…]
“Questo Boris è sposato?”
Domando a bruciapelo come avolermi liberrare da un dubbio angoscioso.
“Certo che è sposato”.
Fa Tolstoj cercando con lo sguardo il cameriere.
E come… come si chiamerebbe sua moglie?”
“Sof’ja”.
Risponde imperturbabile.
“Sof’ja Bloom”
Così, mentre si ridimensiona Guerra e pace e il romanzo naturalista, si fa il verso a quello novecentesco di Proust, Musil, Joyce, se ne mettono a nudo i possibili risvolti manieristici. La dissacrazione della tradizione del romanzo non impedisce infatti di svelare allo stesso tempo la provvisorietà e l’artificiosa costruzione delle nuove narrazioni contaminate dalla pervasiva industria dello spettacolo.
È quanto viene esemplarmente rappresentato in Occidente per principianti(2004) in cui si punta una lente di ingrandimento sulla scrittura asservita alla logica dello scoop mediatico. Un ghostwriter, giornalista fantasma che scrive per conto di altri, che firmeranno i suoi articoli, va alla ricerca della prima amante di Rodolfo Valentino e intraprende per questo, il 28 luglio, un viaggio per l’Italia insieme ad una laureanda e a un regista. Il giorno prima egli ha consegnato un pezzo riguardante la storia d’amore, tutta da verificare, tra Ferruccio Parri (eroe della resistenza) e Luisa Ferida (la famosa attrice del cinema fascista coinvolta nella Repubblica di Salò). Un aneddoto, questo, che è stato tirato fuori durante una trasmissione radiofonica dal figlio di un attore famoso a corto di argomenti seri.
Il contesto (e Contesto si intitola appunto la prima parte del romanzo) è quello della mostruosa e ottusa onnipotenza dell’informazione che manipola qualsivoglia notizia per darla in pasto a un pubblico narcotizzato dai media, eccitato nei suoi bassi istinti fino a desiderare “con inaudita ferocia” perfino l’orrore.
Si annuncia così già in questo romanzo, in una Roma dalle piazze affollate e dall’“apparenza conviviale” un’aria che ha “qualcosa di macabro e feroce”, una “sensazione di caccia, di fiato corto, di tendini in procinto di strapparsi”.
Una sensazione che emana pure in un racconto del 2005 (poi riscritto per una versione definitiva nel 2009), Fine della violenza, in cui Lagioia sorprende nella difficile bildung di un ragazzino, Carlo Fiore, ripercorsa a ritroso, l’intreccio perverso tra degrado urbano e “l’istigazione a delinquere”. Nel cortile di un condominio vicino alla Tangenziale est di Roma -il mostruoso viadotto che serpeggia, vola, a dieci metri dal suolo e a pochi metri dalle abitazioni-l’incontro salvifico con una gattina, subito adottata, favorisce la maturazione del giovanissimo protagonista.
Si rivela così, in questa prosa dalla orditura perfetta, una peculiarità della scrittura di Lagioia ovvero la relazione intrinseca che si stabilisce nelle sue opere tra agire umano e luoghi, tra agire umano e paesaggio. Ha affermato Franco Moretti che «nel romanzo moderno quello che accade dipende strettamente dal dove esso accade». E veramente nei romanzi dello scrittore pugliese ci si imbatte in pagine che sembrano la perfetta esemplificazione di tale proposizione. Come pure alla definizione morettiana che «ogni spazio determina, o quanto meno incoraggia un certo tipo di storia», sembrano ricondurre le considerazioni del protagonista del romanzo del 2001 quando racconta «la prima volta» della droga:
La prima volta fu in un parcheggio di domenica. L’urbanistica ha avuto la sua parte […].
La città si risvegliava all’orizzonte. Il corpo dei palazzi, freddo e compatto, si disegnava nella caligine dei quartieri dormitorio. Poco più avanti, il movimento delle auto scavava un tempo morto, una sacca di vuoto, un ritmo circolare destinato in poche ore a sfasciarsi nel disordine del lunedì mattina. Avresti alzato il volume dell’autoradio perché tutto fosse ancora più vero.
La prima volta fu perché nessuno riusciva a evitarlo. L’urbanistica, nella questione della droga, è quasi tutto (pp. 26-27)
Lagioia sa che ogni bildung acquista senso nello spazio e che la città è una stazione imprescindibile che offre ad essa scenari più vasti. Ma ancora più è il centro di gravità in cui convergono e precipitano le dinamiche e le contraddizioni del vivere contemporaneo.
E la città assurge ancora al ruolo di fondamentale comprimario nel romanzo del 2014 La Ferocia. Qui la condizione di pervasiva e travolgente brutalità in cui si muovono i protagonisti si fa motore narrativo, vero e proprio nucleo ideativo e tema fondante dell’opera.
Teatro dell’irreversibile imbarbarimento di una società adulterata, volta interamente al guadagno e impegnata a tessere trame sempre più ciniche tra potere e affari, nel disprezzo della legge e di ogni regola, è la Puglia, tra Taranto e Bari, e con essa l’Italia. Lo sguardo puntato sulla provincia consente allora di osservare l’intera nazione. Il Sud con i suoi accesi contrasti diviene il sismografo sensibile della deriva morale e sociale dell’Italia contemporanea e produttore di significati universali attraverso il percorso di formazione compiuto da Michele il figlio bastardo di Vittorio Salvemini.
Così il romanzo tradizionale, ‘salutarmente criticato’, in Tre sistemi per sbarazzarsi di Tolstoj, dopo essere stato variamente saggiato, torna a farsi strumento di indagine della contemporaneità.
Il prospettivismo con cui esso si piega a rappresentare la pluralità dei punti di vista, la sua capacità di contaminarsi con altri generi, la sua natura di genere impuro si rivelano ancora una volta idonei a raccordare privato e pubblico, ad uncinare dalla specula di una vicenda familiare una più generale ricognizione del presente.
Per merito di Lagioia, della sua narrativa, della sua scrittura che incide nel cuore vivo delle contraddizioni del nostro presente la topografia letteraria italiana contemporanea si è arricchita di nuove stazioni fondamentali.