Lug 28

Identità e alterità. Il lungo viaggio di Gabriella Ghermandi, Cristina Ali Farah, Igiaba Scego e Ornela Vorpsi

(di DOMENICA PERRONE)

In un bel libro sulla filosofia della narrazione, pubblicato nel 1997, Tu che mi guardi, tu che mi racconti, Adriana Cavarero, sulla scorta di alcuni scritti di Hanna Harendt e di Karen Blixen, riflette acutamente sulla capacità che ha il racconto di rispondere alla domanda: chi sono?

La studiosa muove dal mito, dalle storie di Edipo e di Ulisse, per ricavare dalla loro esemplarità alcuni principi fondanti della narrazione. Pur nella diversa consapevolezza che i due eroi hanno della loro nascita (l’uno la ignora, l’altro sa bene quali sono i suoi natali), entrambi acquisiscono, infatti, piena nozione della propria identità attraverso il racconto degli altri. Insieme all’autrice della Vita activa e della Vita della mente, la Cavarero si sofferma sul «paradosso» del personaggio omerico il quale pur conoscendo le sue origini apprende veramente chi è sentendo raccontare dall’aedo la sua storia: «Soltanto ascoltando il racconto [Ulisse] acquista piena nozione del suo significato» (cfr. Cavarero, 1997; cfr. Arendt, 1987).

Si rileva, in tal modo, sin dalle prime argomentazioni saggistiche (e il titolo lo anticipa ponendo l’accento sul protagonismo della seconda persona) l’intreccio inscindibile io-tu che pone in essere ogni narrazione e, attraverso di essa, permette il riconoscimento di sé. Viene cioè affermato lo «statuto relazionale dell’identità» che postula «sempre l’altro come necessario» (cfr. Cavarero, 1997) perfino nel caso dell’autobiografia, in quanto «la memoria pretende di aver visto ciò che invece si rivela soltanto allo sguardo dell’altro» (cfr. Cavarero, 1997) .
Tale processo fondante della narrazione emerge con caratteri ancora più evidenti nelle scritture, maturate nel tempo della globalizzazione e degli incessanti flussi migratori, che hanno generato la condizione permanente del nomade e, nell’ambito letterario, l’aggiornamento del tema dell’esilio in quello dell’erranza con la conseguente «caduta del mito del ritorno» (cfr. Santangelo, 2013). Una siffatta evoluzione ha portato gli scrittori che l’hanno vissuta a sentirsi in-between, a vivere gli spazi in una prospettiva mobile e a porre sempre una distanza tra se stessi e i luoghi attraversati. Perduta una patria, lo scrittore migrante (ma la sua condizione appartiene oggi all’uomo globalizzato) deve continuamente ricollocarsi e ripensarsi. La sua identità non può essere statica, fissa: essa si costruisce, si sostanzia, nell’illimitato prolungarsi della lontananza da cui egli guarda il mondo. Ne deriva un costitutivo straniamento che offre al lettore narrazioni inedite e lo obbliga a rinnovare, a sua volta, il proprio sguardo. Ma la necessità di raccontare, per dire ogni volta chi si è, diviene spesso essa stessa tema. Alcuni romanzi pullulano di storie; al loro interno i personaggi si esprimono raccontando spesso secondo le modalità della tradizione orale. Ciò accade per esempio nel romanzo della scrittrice italo-etiope Gabriella Ghermandi (nata ad Addis Abeba, nel 1965, da padre italiano e da madre etiope, si è trasferita nel 1979 in Italia dove vive), Regina di fiori e di perle, in cui la protagonista Mahlet ha avuto assegnato dal vecchio Yacob il compito di raccogliere, come fiori e perle, le storie legate al tempo del colonialismo italiano e della resistenza etiope. E, nel gioco di specchi autore-personaggio, il suo è anche un personale «lungo viaggio nella memoria», come si evince dai Ringraziamenti finali che accompagnano il romanzo (cfr. Ghermandi, 2004). Questa metafora, usata dalla Ghermandi più volte, condensa il senso di un’esperienza vitale che vede protagonista la lingua italiana: essa è il mezzo che veicola l’incontro fra culture diverse. In un’intervista rilasciata a Federica Sossi, la Ghermandi parla del suo «italiano d’Ethiopia» che è un «italiano d’ascolto» abitato dai paesaggi culturali della terra della fanciullezza:

A causa delle vicende coloniali che ha subito la mia famiglia materna, forse mio padre mi ha regalato più Ethiopia di quanta non me ne abbia donato mia madre. Quindi la mia lingua paterna veicola affetto, sicurezza e anche Ethiopia al pari della mia lingua materna. Da ciò puoi capire come l’italiano fosse già la mia lingua a 360 gradi, ma per farla rimanere tale, per farla rimanere viva della vita vissuta in Ethiopia, l’ho abitata con le storie della mia madre terra. L’ho abitata prevenendo il rischio di riassorbirla come veniva usata qui. Cerco di spiegarmi. La lingua veicola l’interiorità o il modello culturale di chi la usa […]. Sì, il mio italiano d’Ethiopia è un italiano di ascolto. L’essere così nutrita dai racconti, anche quelli più semplici, della mia gente che riesce a farti viaggiare anche quando ti racconta i fatti ordinari di tutti i giorni (cfr. Sossi, 2008, online).

La lingua diviene così una dimora e un ponte fra culture diverse. L’Etiopia trova voce nell’italiano che, a sua volta, ne accoglie il respiro, i valori, le esperienze vitali, acquistando una pronuncia e un ritmo inediti. Gabriella Ghermandi si serve del suo «italiano d’Etiopia» per raccontarci il viaggio «da un mondo all’altro», come recita il titolo di un suo scritto autobiografico che ha per protagonista l’ottantacinquenne eremita Abba venuto a visitare Roma, la città dei santi Pietro e Paolo (la figura dell’eremita è presente peraltro, con il nome di Abba Chereka, in Regina di fiori e di perle). Attraverso lo sguardo ‘estraneo’ di questo personaggio che ignora i modi di vivere della nostra società e se ne meraviglia, la scrittrice legge e fa leggere la lontananza. «Poveretti questi bianchi […] Non riescono a sopportare il caldo» (cfr. Ghermandi, 2004),  esclama Abba osservando la folla nuda che si accalca nelle spiagge; e, ancora, nel vedere tante macchine e tanta gente si affretta a consigliare preoccupato: «Frena frena! Rallenta! […] Mamma mia quanti sono. Un popolo di formiche» (cfr. Ghermandi, 2004). Le manifestazioni di stupore dell’anziano ospite inducono la scrittrice a riflettere:

L’immagine del mondo in cui vivevo, restituitami da Abba, nel tempo si delineava con sempre maggiore nitidezza. Anche io andavo al mare e mi sdraiavo mezza nuda, impataccata di creme, a prendere il sole. Era normale, in questo paese progredito e civile spogliarsi di uno stupido e inutile pudore e godersi la libertà dell’aria. Non avevo mai considerato questo comportamento come strano. Strano è un termine che non si addice a noi abitanti di questa zona del pianeta. Strane sono quelle popolazioni di cui trattano i documentari. C’erano voluti gli occhi di Abba per scuotermi dalla presunzione e restituirmi la capacità di relativizzare. Quel comportamento era normale per noi, una piccola percentuale della intera popolazione terrestre, non per tutti; inoltre, quei culi al vento, ammassati sulla sabbia, non erano certo l’immagine della cultura e del progresso con cui ormai mi identificavo, ma piuttosto l’immagine di un branco di ‘selvaggi’ (cfr. Ghermandi, 2004, online).

Lo spostamento del punto di vista capovolge la percezione abituale della realtà rivelandone aspetti inediti.
Il tema qui proposto in forma di facile apologo viene declinato con ben altra intensità nel romanzo. Ciò accade, per esempio, nel capitolo intitolato Partenza in cui si narra il soggiorno in Italia della protagonista e la sua esperienza della solitudine: «Mi dovetti rassegnare a subire le malattie dell’Occidente: solitudine e individualismo» (cfr. Ghermandi, 2004). A Bologna, dove Mahlet si è recata per studiare, i compagni di università non sono in grado di comprendere fino in fondo il suo attaccamento agli anziani di casa:

Due anni dopo, mentre terminavo il primo anno di università morì il vecchio Yohanes.
Piansi immersa in quella solitudine a cui non ero abituata. Nessuno in Italia ergeva la tenda del pianto per accogliere parenti, amici e tutti coloro che vogliono stringersi ai familiari del defunto per condividere il lutto e sostenerli nel dolore. I miei compagni di università pensarono di lasciarmi sola. Ancora più sola. Secondo loro la solitudine mi avrebbe aiutato ad abbandonarmi al dolore. Era il loro modo di vivere il lutto. Volevo dirgli che per me non era così, che la solitudine avrebbe reso il mio dolore più acuto e insopportabile. Ma loro erano italiani e io etiope. Un crepaccio largo e profondo divideva i nostri modi di vivere […]. Alcuni compagni di università mi confessarono di trovare singolare il mio attaccamento a quei vecchi parenti di seconda e terza generazione. Non spiegai loro il mio legame con gli anziani di casa, come fossi stata sostenuta nella crescita dalla loro saggezza, come si fossero presi cura della mia anima, scrutandomi ogni momento. Non spiegai neppure il significato e il ruolo dei nostri anziani, e come essi siano le colonne portanti delle nostre famiglie. Ancora una volta non avrebbero capito (cfr. Ghermandi, 2007, p. 116).

Essi non conoscono il sistema di valori e di relazioni su cui si incardina la numerosa famiglia etiope e il ruolo importante che gli anziani, «appollaiati in un cantuccio» (cfr. Ghermandi, 2004) della casa, hanno nell’educazione affettiva dei bambini. Essi ignorano quanto il vecchio Yacob abbia vigilato con discrezione su Mahlet e osservato con occhio attento la sua crescita tanto da affidarle l’importante compito di diventare da grande la loro «cantora»:

Quando ero piccola, me lo dicevano sempre i tre venerabili anziani di casa: «Sarai la nostra cantora». Attorno al braciere del caffè stavano le donne; loro in un angolo un po’ discosto, imbozzolati negli shemmà bianchi, con quel singolare aspetto di uccelli protettori, benedicevano il caffè alle donne e osservavano tutt’attorno (cfr. Ghermandi, 2004, online).

Il tema centrale di Regina di fiori e di perle è, come mostra questo incipit, la consegna di raccontare, ricevuta dalla protagonista bambina, e la sua finale attuazione. Attorno ad esso si sviluppa il romanzo scandito in due parti, La promessa e Il ritorno, e intessuto di tanti racconti: in primo luogo, quello di Yacob, della sua lotta per un’Etiopia libera, e quello di Mahlet e della sua bildung, dalla fanciullezza alla partenza per l’Italia, e poi, nella seconda parte, quelli dei tanti personaggi che lei incontra, al suo ritorno in Etiopia, nella chiesa di Giorgis, a partire dal vescovo, il primo a raccontare una storia (quella «dello stupido leone con la scimmia»), per arrivare a Woizero Bekelech che narra la sua storia e del signor Antonio. Un rosario di racconti sul tempo dell’invasione italiana si sgrana perché Mahlet le accolga e le narri a sua volta mantenendo fede alla promessa fatta al venerabile anziano di casa, di cui crescendo si era dimenticata. Il disegno di Yacob si compie attraverso un percorso che riattivi la memoria. Alcuni protagonisti di quegli eventi dolorosi per il popolo etiope vengono mandati a Mahlet (senza che lei lo sappia) per consegnarle la propria storia in modo che finalmente ne scriva. Attraverso il racconto delle loro azioni, i personaggi (e con loro l’Etiopia) si rivelano, dicono chi sono, e inducono anche noi italiani, che siamo stati in relazione con loro (cfr. Arendt, 2005), a guardarci dall’esterno come suggeriscono le parole usate dal vescovo incontrato da Mahlet, e a prendere piena coscienza di una pagina certo non gloriosa della nostra storia:

Ecco, il governo italiano di allora era […] incrostato e bloccato in un’unica posizione – il vescovo si portò una mano all’altezza del petto e ripetutamente si toccò con la punta delle dita – stavano sempre così, con la mano sempre rivolta verso se stessi e con in bocca una sola parola: ‘Io’. Si sentivano superiori, e non accettavano di guardarsi dall’esterno, con gli occhi degli altri. E cara figliola mia, solo quando accetti di specchiarti in altri occhi puoi vedere e misurare te stesso (p. 130).

Il viaggio della Ghermandi è dunque duplice: quello reale compiuto da lei quattordicenne da Addis Abeba verso l’Italia (dove oggi abita) e quello metaforico che si compie principalmente attraverso la riattivazione-riappropriazione della memoria. All’orizzonte metaforico si riconnette, infatti, nell’invenzione romanzesca, il viaggio di andata e ritorno della protagonista di Regina di fiori e di perle, che parte per studiare e promette di tornare.
Una diversa declinazione del tema del viaggio si ha, invece, nel romanzo di Cristina Ali Farah, Madre piccola. Qui esso coincide con la diaspora dei somali e si riassume nella condizione del nomade, del «pellegrin[o] del pianeta» (cfr. Ali Farah, 2007). A dare questa definizione è Domenica Axad, l’italo-somala che a causa dell’imperversare, a partire dal 1991, della guerra civile in Somalia, senza riuscire a rivedere la sua Mogadiscio, si trasforma in profuga, come lei stessa afferma rivolgendosi alla cugina Barni:

Barni mia, quello che sapevi di me, niente è rimasto uguale. Notizie ti devono essere arrivate da qualche parte. Di questi miei anni, dei miei trascorsi. Anche il discorrere, il mio modo di parlare, è cambiato assai. Come dicono siamo spugne noi mescolati. Mescolati viaggiatori. Quante lingue ho dovuto, ho voluto imparare qua e là, per entrare dentro la gente […]. La seconda metà dei vent’anni trascorsi? Vita di diaspora, peregrinazioni senza destino (pp. 97-98).

Nell’intrecciarsi polifonico dei racconti in prima persona di Domenica-Axad, di Barni e Taageere, si compone, in tal modo, anche quello del popolo somalo funestato da una tragedia storica e disperso per il mondo.
La narrazione procede a incastro e si sviluppa utilizzando la tecnica del flusso di coscienza che per Cristina Ali Farah è anche un modo di seguire «il ritmo del narrare somalo» (cfr. Di Maio, 2006). Ciascuno dei tre personaggi (due donne e un uomo) parla rivolgendosi a un interlocutore esterno che non interviene mai direttamente. Una scelta narrativa che la scrittrice spiega in una conversazione intrattenuta con Alessandra Di Maio:

La prima persona, con il suo punto di vista individuale, è una voce più sfumata, meno autoritaria, più lacerata e offre una prospettiva della realtà che il lettore è libero di prendere e interpretare nel modo che predilige. Una tecnica a cui ricorro spesso […] è quella di immaginare un interlocutore esterno, in modo da connotare ancora di più la voce: il modo di parlare di ciascuno cambia infatti assai in base a chi si ha di fronte. In modo più generale, usare la prima persona mi permette di cimentarmi nei vari modi in cui si forma la voce, che credo sia il campo di mio maggiore interesse da quando ho cominciato a trascrivere storie orali (cfr. Di Maio, 2006).

Su tale opzione si realizza un «modo concentrico» di imbastire il racconto, come spiega Barni alla sua silenziosa eppure ‘necessaria’ interlocutrice (in questo caso intervistatrice da quanto si apprende alle prime battute del racconto: «La mia amica mi ha detto al telefono che lei sta scrivendo un reportage sulla comunità somala. I somali che vivono a Roma giusto? Sono la prima persona che intervista? Bene», cfr. Ali Farah, 2007): «Credo di sapere quello che pensa. Il mio è un modo concentrico di raccontare. Le sembro folle? No, non cerco rassicurazioni. Desidero – più di tutto – che rimanga allertata, che si concentri. Tutto ciò che le dico è profondamente collegato» (cfr. Ali Farah, 2007). E ciò vale per ogni storia narrata da ciascuno dei tre protagonisti che è collegata alle altre: esse sono, per adoperare le parole della scrittrice, «finestre concatenate che si aprono una dietro l’altra» (cfr. Di Maio, 2006). Omologo al nomadismo e all’errare continuo dei personaggi è dunque l’articolarsi dei loro discorsi divaganti, infittiti di storie secondarie quasi a inseguire il filo logico del proprio cammino. Non è un caso che una delle voci narranti, quella maschile di Taageere, si affretti a precisare: «Amico, non sto divagando. Se non ti sta bene come racconto le cose, allora porta le tue domande da qualche altra parte. Io sto seguendo un logicammino» (cfr. Ali Farah, 2007) .
Alla difficoltà di offrire resoconti lineari e ordinati corrisponde anche quella di descrivere i luoghi, di disegnare mappe:

Quello che non riesco a fare è descrivere i luoghi. Era tutto un movimento interno da una casa all’altra. Essere potevi essere ovunque. Per me, per noi tutti era indifferente. Ti dovevi solo abituare alle insegne diverse, i prezzi diversi e ricostruire la mappa: mappa dei legami con gli altri e i luoghi-snodi dove incontrarsi, dove telefonare, dove comprare, come perennemente trasportati nella bolla d’aria e dentro la bolla il nostro suono, il nostro odore. Suoni e odori così pungenti da coprire tutti gli altri. Alienandoci, vivevamo (p. 112).

Con un’efficace definizione, Alessandra Di Maio ha parlato, riferendosi alla scrittura di Ali Farah, di «poetica di passaggi», capace di collegare «ambienti, spazi, voci, ricordi che appartengono» (cfr. Di Maio, 2006) tanto alla Somalia quanto all’Italia. E fra questi due poli si compie, dopo dieci anni di peregrinazioni fra Europa e America, la sofferta maturazione dell’italo-somala Domenica-Axad: il suo ritorno in Italia costituisce una tappa indispensabile per «rimettere insieme tutti i pezzi» e «raggiustare le cose che avev[a] lasciato in sospeso» (cfr. Ali Farah, 2007). Ma abitare l’Italia significa per lei soprattutto abitarne la lingua, riconoscersi in essa e farne l’unico vero luogo identitario da consegnare al figlio appena nato:

Al mio Taariikh io balbetto le parole italiane che mi escono prime e spontanee. Lingue diverse che provengono dalla sua stessa madre non lo sovraccaricherebbero? Una madre non può rischiare di essere scissa. Indicare ogni volta la stessa cosa con un nome diverso, non può indurre un bambino alla schizofrenia? É per via di questo timore recondito che ho deciso di parlargli la mia lingua madre che, come ripeto a tutti, è l’italiano, perché non ve n’è nessuna che parlo con altrettanta disinvoltura (p. 258).

La scelta di questo personaggio femminile di cominciare a parlare al proprio bambino nella lingua madre, di affidare ad essa una fondamentale funzione identitaria che non escluderà naturalmente il successivo apprendimento della lingua somala, è peraltro il passo indispensabile per ricomporre la propria geografia interiore fatta di incroci, di «luoghi-snodi». Alle seconde generazioni, ai figli di questi nomadi, di questi «pellegrini del pianeta» spetta, allora, il compito di ricostruire le mappe necessarie per non smarrirsi, le mappe ibride che disegnino le tappe del loro accidentato cammino.
É quanto ha fatto in modo esplicito Igiaba Scego nel suo ultimo romanzo autobiografico La mia casa è dove sono che prende avvio, a Manchester, con una riunione dei membri sparsi per l’Europa della sua famiglia somala costretta alla diaspora dalla guerra civile. Ogni componente ha infatti una cittadinanza diversa (inglese, Abulkadir; finlandese, il cugino O.; italiana, la scrittrice). I tre somali, cittadini di stati diversi, si ritrovano a parlare della Mogadiscio da cui sono costretti a stare lontani e a disegnare la mappa dei luoghi cari perduti. Il romanzo prende così a configurarsi come una topografia che ovviamente diviene soprattutto una topografia interiore della protagonista. La storia che vi si narra è scandita, dopo l’iniziale tappa inglese, da sei tappe romane ciascuna delle quali corrisponde a un tassello della vita della Scego. Una mappa necessaria che l’io narrante, su invito della madre, si mette a disegnare, stazione dopo stazione, e in cui far incontrare le varie traiettorie della propria storia. Una cartografia che ha come teatro Roma, la città natale che non sempre è stata accogliente e materna con i suoi figli, con i figli dell’immigrazione. I capitoli del romanzo, in tutto otto, dal secondo al settimo, prendono il titolo da alcuni luoghi che rivestono per Igiaba un significato insieme storico e privato e sono introdotti da corsivi che dall’annotazione topografica ogni volta aprono a squarci memoriali. La vicenda privata si intreccia con quella di fatti storici importanti: la crisi dell’imperialismo, l’amministrazione fiduciaria dell’Italia in Somalia ecc. La narrazione dunque si spazializza toccando luoghi della città che via via consegnano altrettanti frammenti autobiografici: il teatro Sistina, piazza Santa Maria della Minerva, Porta Capena, Stazione Termini, Trastevere, lo Stadio Olimpico. Ma questa geografia romana ne include sempre una africana perché, come la scrittrice stessa dichiara alle ultime battute del suo memoir, lei è «italiana, ma anche no […] somala, ma anche no. Un crocevia uno svincolo» (cfr. Scego, 2010). Insomma, come ha ancora dichiarato in un saggio, Igiaba è sempre «in between tra le lingue, gli odori, la geografia» e la sua lingua è una «lingua dell’incontro» (cfr. Scego, 2015) una lingua multiforme, meticcia come il mondo in cui viviamo. Perciò è nel capitolo finale (dal titolo eloquente Essere italiano per me) che troviamo racchiuso il senso del suo romanzo. La mappa disegnata dalla scrittrice è un modo di rispondere alla domanda «Chi sei?». E la Scego sa bene, con Karen Blixen, il cui Primo racconto del cardinale (in cui il protagonista è il Cardinale Salviati che, abituato ad aver chiesti consigli, dopo un’iniziale meraviglia, risponde a una signora in nero che gli domanda «Chi siete voi?»: «Consentitemi dunque, per salvare la mia modestia, di rispondervi secondo la regola classica: raccontandovi una storia», cfr. Blixen, 2000) non a caso cita nelle ultime battute del suo romanzo, che può rispondere a questa domanda raccontando una storia!

Come si può notare emerge una circolarità di discorso nelle opere di queste scrittrici, in cui ricorrono temi comuni quale quello della migrazione, dell’identità, dello spaesamento, della necessità di raccontare e infine quello della lingua che li riassume e risolve.
Da una prospettiva diversa essi vengono invece declinati nelle opere di Ornela Vorpsi: a cominciare da Il paese dove non si muore mai per finire con La mano che non mordi. Il racconto dell’alterità passa, infatti, innanzitutto da una critica che la scrittrice muove al modo d’essere del suo paese. Attraverso lo sguardo di una bambina, che cresce nell’Albania comunista sotto la dittatura di «Madre-Partito», la Vorpsi imbastisce un romanzo dallo stile secco e tagliente che denuncia la crudeltà dei rapporti non solo sociali, ma anche familiari. Il racconto prevalentemente in prima persona, che alterna passato e presente mescolando il ricordo della protagonista divenuta adulta al resoconto attualizzato delle esperienze infantili, restituisce una lettura straniante della realtà. La bambina (che di volta in volta assume nomi diversi: Ina, Eva, Ornela), col suo modo ingenuo di osservare e di prendere alla lettera ciò che ascolta, permette di mettere a nudo con spiazzante ironia un mondo «iperbolico e contorto» (cfr. Vorpsi, 2005). Un’iperbole che è il frutto tragicomico della combinazione di dati antropologici e fatti politici e rivela tutta la sua inconsistenza e falsità. La scrittrice prende di mira la mancanza di umiltà degli albanesi, il loro sentirsi eterni, il loro appuntarsi sulle cose del sesso (la cosiddetta «puttaneria»), l’asprezza dei loro sentimenti e insieme la retorica comunista e la violenza del potere. Tale severa rappresentazione che ha squadernato una disarmante condizione del paese d’origine si estende anche a quella che, da lontano, appare la «terra promessa», l’Italia. Il viaggio compiuto dalla protagonista con la madre, che sigla in poche pagine la conclusione del romanzo, svela, infatti, senza indugi la triste condizione dell’emigrante. Toccato il suolo tanto sognato, la realtà si manifesta in tutto il suo inaspettato squallore:

In quali luoghi si nascondevano le straordinarie mogli di casa, che pur circondate da tre figli avevano corpi sontuosi e che stendendo il bucato fatto con il detersivo Dash stendevano a terra anche i cuori degli uomini? I maschi delle nostre parti, quando le vedevano di nascosto alla televisione sospiravano: «Ah bella mia, vieni che ti farò vedere il paradiso… mia colombella… Ah, oh…» per poi lanciare una sorta di ululato amaro e disilluso alla propria moglie, ormai appassita e asessuata: «Dai, sbrigati te, portami il mangiare e sta zitta!» […] Eva entrò da un tabaccaio per comprare due biglietti dell’autobus. La mamma restò fuori ad aspettare con le valigie di pelle finta, dove, in mezzo alle poche cose che avevano, puzzava il formaggio salato accompagnato da fettine di pane […]. Fuori ritrovò la mamma, che tutta gentile e intimidita spiegava a un giovanotto:
– Lei i bagagli tiene sola, lei straniera, lei soldi no, lei valigie sola, grazie, ma lei valigie sola. Cosa succede, chiese Eva, e la mamma porpora di piacere disse:
– Penso che volesse portarmi i bagagli.
– Che ti ha detto?
Lei si era sforzata di tenere in mente la frase.
– Mi ha detto: «A quanto scopi?» Deve essere qualcosa che ha a che fare con le valigie. «A quanto scopi?» Anche Eva prestò attenzione per fissare nella memoria la frase detta da uno straniero tanto sognato; poi avrebbero chiesto alla cugina che sapeva bene l’italiano cosa volesse esattamente dire (cfr. Vorpsi, 2005).

Tra il mondo immaginato, soprattutto attraverso le rappresentazioni artefatte della televisione, e quello vero c’è un divario incolmabile. I primi incontri fanno crollare ogni possibile speranza e fanno affiorare tutte le fragilità dello sradicamento per superare le quali l’unica soluzione è il ritorno:

In questa terra, gli albanesi hanno capito che possono morire. Nonostante il loro animo rapace e coraggioso, cominciano a sentire che le vertebre dolgono veramente, che la testa può fare tanto di quel male, i denti anche… i rimedi delle nonne albanesi qua non funzionano.
La solitudine prende la forma dell’ulcera allo stomaco, si ha bisogno di pillole strane per prendere sonno. Pillole che alla fine non fanno le meraviglie che promettono; non liberano l’animo dall’afosità dell’esistere. La spensieratezza lascia il posto all’angoscia, e tanti per guarire dall’ulcera tornano nell’assolata Albania.
Lì va meglio – assicurano.
Non ne vogliono più sapere delle terre promesse. Hanno capito che lì si muore, e loro morire non vogliono (p. 111).

Non è un caso che il romanzo La mano che non mordi prenda il via proprio da un viaggio verso l’est, da Parigi a Sarajevo, compiuto dalla protagonista per andare a consolare un amico, Mirsad, che, tornato nella sua città dopo un’esperienza di emigrazione, si è rinchiuso a casa senza volerne più uscire: vinta la paura di volare e dunque la difficoltà di viaggiare -anche se il «pensiero ama […] viaggiare» (cfr. Vorpsi, 2007)- si ritrova, lei che è cresciuta nell’Albania comunista, nuovamente in un paese dei Balcani dove constata che “nulla è cambiato” e le differenze vengono appiattite da un malinteso egualitarismo. Ne è un esempio la conversazione che alcune donne di Sarajevo intrattengono sulla bellezza interiore: in una società comunista la bellezza fisica è sottovalutata perché è un elemento di differenza! Nei luoghi che le sono familiari la giovane donna sente dunque di essere diventata straniera e, come il suo amico Mirsad, di essere «col corpo messo a nudo» e le «radici in aria» (2007, p. 51). Perciò non le rimane che tornare a Parigi e solo proustianamente riappropriarsi del tempo passato gustando il cibo dell’infanzia, il byrek:

Il cibo dell’infanzia è magico: ho riempito la bocca, ho chiuso gli occhi e sento i passi della nonna dietro le spalle, l’odore dei cachi maturi, la luce forte del sole di Tirana che mi penetra le palpebre, l’amichetta che mi chiama (cfr. Vorpsi, 2007, p.78).

Come si può notare, la scrittrice albanese approfondisce con un inedito punto di osservazione il nodo dell’identità consegnandoci una più articolata esperienza della migrazione. Attraverso le sue opere la lettura della lontananza si arricchisce di nuove sfumature e ulteriori apporti conoscitivi.
Ma è nelle diverse tipologie di scrittura, nel diverso procedere narrativo delle quattro voci femminili qui analizzate che è possibile comporre un racconto polifonico. Ed è dalla pratica dell’ascolto e dell’incontro che esso ricava una lingua della memoria e insieme una lingua meticcia del presente.
Attraverso la varietà delle rappresentazioni delle opere prese in esame si è potuto mostrare infine come il tema del viaggio si configuri in modo nuovo, come un esilio che è diventato una perenne erranza. E, per questo, ancor più la lingua diviene l’unica vera dimora, una vera e propria casa ‘mobile’, in cui potere abitare.

tratto da Leggere la lontananza. Immagini dell’altro nella letteratura di viaggio della contemporaneità
a cura di SILVIA CAMILOTTI, ILARIA CROTTI e RICCIARDA RICORDA

Bibliografia

Arendt, Hannah (1987). La vita della mente. Trad. di Giorgio Zanetti Bologna: Il Mulino. Trad. di The Life of the Mind (1978)
Arendt, Hannah (2005). Vita activa. Trad. di Sergio Finzi. Milano: Bompiani. Trad. di The Human Condition (1958)
Blixen, Karen (2000). Il primo racconto del cardinale. In Ultimi racconti, Milano: Adelphi Edizioni.
Cavarero, Adriana (1997). Tu che mi guardi, tu che mi racconti. Milano: Feltrinelli.
Di Maio, Alessandra (2006). «Una poetica di passaggi. Interwiew with Ubax Cristina Ali Farah» [online]. Metamorphoses-journal of literary translation. (2 settembre 2014)
Ali Farah, Cristina (2007). Madre piccola. Roma: Frassinelli.
Ghermandi, Gabriella (2007). Regina di fiori e di perle. Roma: Donzelli Editore.
Ghermandi, Gabriella. (2004) Da un mondo all’altro, [online] El Ghibli. (2015-03- 10; 2014-09-01)
Santangelo, Giovanni Saverio (2013). «Nuove frontiere della Letteratura». In verbis, 1, pp. 11-46.
Scego, Igiaba (2010). La mia casa è dove sono. Milano: Bompiani.
Sgego, Igiaba, «La piccole madri che parlano in me» [online].  (2015-03-14)
Sossi, Federica (2008). «Dialogo a distanza con Gabriella Ghermandi» [online]. Storie migranti. (2014-09-01)
Vorpsi, Ornela (2005). Il paese che non muore mai. Einaudi: Torino.
Vorspi, Ornela (2007). La mano che non mordi. Einaudi: Torino.

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