(di DONATELLA LA MONACA)
“Esser compresi in un comune anche se terribile destino fa sentire meno soli”, recita una eloquente citazione di Claudio Magris tratta da Utopia e disincanto. Storie, speranze, illusioni del moderno, intarsiata con naturalezza nel tessuto narrativo dell’ultimo romanzo di Evelina Santangelo, Non va sempre così.
Si disegna sul titolo coniato dallo scrittore triestino l’orizzonte di senso entro cui si evolve la vicenda, individuale e collettiva, ideata dall’autrice. Come da lei stessa alluso in un’intervista, dal “disincanto” di un’ “idea sclerotizzata di società e di sviluppo che esige ci si adatti alle circostanze, rinunciando alle conquiste civili e sociali”, si rilancia l’ “utopia” della rifondazione.
Nessun empito eroico, nessuna vocazione salvifica muove la “storia ribelle” della protagonista di queste pagine che “non batte in ritirata” dinanzi ad una quotidianità costellata di mortificazioni delle aspirazioni professionali, di compromessi con le tensioni ideali, di delusioni affettive e relazioni effimere, in cui la mediocrità viene eletta a norma dell’esistere. Con il percorso vitale di questa donna, segnato dal naufragio matrimoniale e dalla repentina cessazione di un insegnamento precario, si intersecano i destini generazionali di un padre anziano, dallo sguardo malinconico e svagato, con la “mania” di acquistare e collezionare oggetti e di una figlia dodicenne, Matilde, “ripiegata nel bozzolo colorato della sua stanza”, “annichilita nella nudità acerba” delle sue contraddizioni adolescenziali.
Un impianto societario avviluppato nei gangli del consumo, delle leggi del benessere materiale, della sedazione mediatica ruota intorno a tale microcosmo familiare condizionandone le dinamiche, violandone i già fragili equilibri ma anche, inaspettatamente, accendendovi sollecitazioni inedite. Dalla creatività non omologata di un operaio licenziato dall’azienda in crisi, zampilla, infatti, l’embrione di “un progetto ecosostenibile”, la costruzione di un veicolo a due ruote realizzato con materiale riciclato, non inquinante. La carica idealistica di una simile prospettiva, riconducibile, peraltro, all’esperienza reale di un ingegnere israeliano, scovata dall’acribia documentaria della scrittrice, sferza come “un’improvvisa e violenta perturbazione metereologica” la vita della protagonista, offrendole un ‘gancio’ provocatorio per sfidare un mondo in apparenza immodificabile.
Prende corpo sulle quinte di questa storia di ordinaria lotta per la sopravvivenza il ritratto di un’Italia culturale e politica, scorciato tra luci ed ombre attraverso alcuni degli eventi più salienti, la cui memoria è affidata quasi sempre, nell’invenzione narrativa, alle rievocazioni paterne e agli scambi dialogici tra padre e figlia. Il passato ‘pubblico’ della nazione riemerge dal vissuto ‘ privato’ della protagonista e si colora di tragico quando a a riaffiorare siano le immagini dei “pilastri scheletriti della Banca Nazionale dell’Agricoltura (dicembre ’69)” o la “maschera rossa tumefatta di Pasolini (novembre ’75)”, legate a figure centrali nella sua formazione adolescenziale come il “professor basco”. Militante ambientalista di quel “formidabile strumento collettivo di trasformazione che era stato il Partito”, anch’egli con le sue metafore botaniche, le sue vibrate orazioni civili, reca i segni tangibili del logorio che i tratti deteriori della contemporaneità hanno inflitto persino alle motivazioni più accese.
Sull’abile andirivieni di presente e passato, pubblico e privato, si innesta la continua oscillazione tra attese frustrate, speranze nutrite, cocenti disillusioni che alimenta la vita interiore della protagonista entro cui convergono e si animano le figure degli altri personaggi. Ciascuna di esse offre una modalità diversa di interpretazione della realtà, dalla sregolata amica Milvia a Carlo che, con la ‘purezza’ del suo progetto, restituisce linfa vitale all’affettività inaridita della donna, a quel padre dall’ “aria scanzonata e svampita” che lo rende meno lucido e pure gli conferisce un’ “immensa selettiva smemoratezza”, controcanto, narrativamente riuscito, alla gravezza del ragionare di lei. Nell’orchestrazione di questo piccolo coro spiccano i pensieri e le parole di Matilde, corde sfiorate con accorta sensibilità dalla Santangelo per penetrare nel delicato e controverso universo adolescenziale, in quel “labirinto d’interconnessioni tecnologiche” avvolto nell’involucro di una “sua lingua cifrata, una sua simulazione di affetti”:
Sincronizzazioni di smartphone, i Pad, i Pod, computer, tutti i dispositivi che aveva facilmente estorto dalle tasche di suo nonno per rimpinzarsi di librerie musicali, caricare e scaricare miriadi di foto ritoccate o distorte in espressioni innaturali, taggare amicizie virtuali, chattare un’infinità di messaggi con un’infinità di sfoghi digitali condivisi con un’infinità di contatti che sembravano non aspettare altro che poter cliccare decine di “mi piace” a raffica su qualsiasi post di qualsiasi natura o incollare una qualche faccina triste, allegra, sghignazzante, per generare altri “mi piace”, altri sfoghi, altre faccine, come se il piacere stesse tutto lì, nel non spezzare quella fragile ragnatela virtuale, in quel tenersi costantemente, spasmodicamente in contatto nel chiuso delle proprie stanze. (p.40)
Sin dalla scaltrita mimesi espressiva la scrittrice mostra di riuscire appieno, senza apologie nè demonizzazioni, a “salire sulla navicella giusta” per penetrare nella stanza di Matilde, metonimia di una dimensione contemporanea dell’adolescenza che “prende la forma di una bolla, una galassia…miliardi di stelle, gas, polveri orbitanti…perduta in qualche parte remota e inaccessibile dell’universo”.
Senza pretese giudicanti, in linea con una scelta poetica che dagli esordi, con l’Occhio cieco del mondo sino a Cose da pazzi, si dispone all’ascolto intelocutorio della realtà, l’invenzione narrativa di Evelina Santangelo accoglie una pluralità di sguardi sul mondo e li interseca schiudendoli alla coscienza del lettore come domande aperte. Ed è una scelta compositiva che si esplica nell’intreccio dei linguaggi, plurivoci anche quando, come in questo romanzo, si riverberano da una ‘voce sola’, scortati da una riflessione esplicita sulle dinamiche dei processi espressivi. In questo “universo di valori economici da salvaguardare”, saturo di profili facebook che rigurgitano di “florilegi presi in prestito da Snoopy o da un qualche Coelho di turno”, di citazioni “sconciate”, “impiccate sulla pagina” a commento di intimità ferite ed esibite, in questa “appropriazione indebita e condivisa”, si infiltra indisgiungibile anche la vita vera.
Da quest’ibrido affiora, infatti, il culto paterno per ogni cimelio su cui si coaguli “un pezzo di Paese, la sua idea di paese” declinata, nell’epilogo del romanzo, in un ritratto ‘materiale’ identitario del volto sano di una collettività che ha saputo convertire le rovine in risorse. Analogamente, scorrono nella selva insidiosa dei social network attraverso gli sms, le mail, i post, le prime sconvolgenti passioni di Matilde. Si deve attraversare la palude ingannevole di queste realtà per demistificarne le sirene e opporvi una reazione, sembra riaffermare la Santangelo, impugnando le armi bianche di linguaggi ‘altri’, interpretando così l’esercizio della letteratura che con l’ “irriducibile libertà” della sua tensione conoscitiva, della sua non imbrigliabile vigoria immaginativa scompagina ogni prevedibilità:
Allora direbbe, come non esiste il cane-che vola così non esiste la –luna-nel-pozzo, giusto? E dunque nel mio modo di pensare alla luna e al mondo ci sarà anche quell’immagine irreale, senza la quale io e il mondo saremmo un pò diversi, non crede? Così sarà d’accordo con me nel dire che anche questa irrealtà farà parte del mio modo di pensare il mondo, e dunque anche di starci, e di agire.[…]Allora perchè non le diciamo queste cose ai nostri figli, non infiliamo le lune nei pozzi quando siamo ancora in tempo, invece di ridurli sempre alla ragionevolezza più mortificante? (p.88)
Risuona nel crescendo di questo monito la spinta agonististica a valicare il “simulacro convenzionale” della realtà, direbbe Elsa Morante, a smentirne le parvenze assiomatiche osando la risorsa della capacità di reinventarsi.
In tal senso credere nel “miracolo dell’ E-bike. Esempio di eccellenza, e anche dell’inventiva italiana. Economica ed ecosostenibile”, significa rivendicare potenzialità rivoluzionarie a idee e strumenti ‘diversi’ dall’arsenale schierato dalle leggi del mercato industriale, che non infieriscano con ulcerazioni irrimediabili sull’equilibrio naturale, già così minato, del pianeta. Allo stesso modo scegliere ancora il mestiere di scrivere equivale ad investire in pensieri e parole dissonanti dal coro dei codici usurati della massificazione, a generare sulla pagina immagini, finzioni allusive ad inediti mondi possibili, a ricordare, appunto , che “non va sempre così”.
Evelina Santangelo, Non va sempre così, Einaudi, 2015, pp.220, €. 19,00