Mag 29

“Sguardi incrociati” fra tempo e spazio: quando il made in Italy diventa cultura

RECENSIONE A: MODA MADE IN ITALY. IL LINGUAGGIO DELLA MODA E DEL COSTUME ITALIANO, A CURA DI DAGMAR REICHARDT E CARMELA D’ANGELO
FRANCO CESATI EDITORE (CIVILTÀ ITALIANA. TERZA SERIE, N. 10)
FIRENZE 2016
228 pp.


(di ELLI CARRARO)

“La moda è la spuma dell’onda”, così risponde la scrittrice Dacia Maraini alla domanda sul significato della moda nel mondo accademico, nell’intervista che troviamo in postfazione al libro Moda Made in Italy. Il linguaggio della moda e del costume italiano a cura di Dagmar Reichardt e Carmela D’Angelo. Il volume, pubblicato nel 2016 da Franco Cesati Editore, raccoglie una selezione paritaria delle relazioni presentate nella sessione Il linguaggio della moda e del costume italiano del XXI Congresso A.I.P.I. (Associazione Internazionale dei Professori di Italiano, 27-30 agosto 2014) Est-Ovest / Nord-Sud. Frontiere, passaggi, incontri culturali e si propone, attraverso l’approccio multiprospettico, di offrire un contributo all’inserimento della moda nell’ambito scientifico, riconoscendo un “vuoto” in tal senso.

Il volume è diviso in due sezioni principali: nella prima vi sono raccolti i contributi che studiano la moda nella storia letteraria italiana dal Cinquecento ad oggi; la seconda, invece, si concentra esclusivamente sulla prospettiva glottodidattica e sociolinguistica, ossia sull’inserimento dell’insegnamento della moda in quanto parte integrante della cultura nella lezione di italiano come lingua straniera.

Il viaggio nel costume italiano lungo i secoli consente una decodificazione dei testi letterari (e non solo) tramite lo studio dell’abbigliamento. È questo il caso della raccolta di novelle Le piacevoli notti (1550-1553) di Giovan Francesco Straparola, in cui i vestiti, volti “a differenziare, socialmente, i personaggi o a supportare le loro azioni e intenzioni” (p. 45), ricoprono una funzione sociale specifica in quanto testimonianza di un determinato status, assumendo, talvolta, il ruolo di travestimento e quindi di inganno.

Nell’Italia risorgimentale, dove “l’abito è tutto”, come scrive Daniela Bombara nel suo saggio, l’abbigliamento diviene l’emblema di quella “classe borghese in ascesa” (p. 51) che contraddistingue l’intero secolo: nell’intento “di fornire un quadro complesso della realtà nazionale” (p. 52) proprio in quel periodo della storia, in cui l’Italia ha conseguito l’unificazione, lo studio del codice vestimentario nella poesia satirico-giocosa dell’Ottocento prende in esame opere di autori provenienti da diverse parti della penisola.
Nel campo più vasto della prospettiva intermediale si muove il contributo di Irmgard Scharold, che pone l’accento sull’importanza del dress-code nella trasposizione cinematografica di un’opera letteraria: è questo il caso del film Il Gattopardo di Luchino Visconti, in cui i costumi, gli accessori e il maquillage “devono essere […] perfettamente adeguati al corpo del rispettivo attore” (p. 62) in una “relazione dialettica tra il corpo e l’abbigliamento [che permetta] la visualizzazione dei corpi letterari” (p. 63) del romanzo.

La parte finale di questa prima sezione contiene in prevalenza letture più recenti. Da quella di Danilo Capasso sul fumetto Paninaro negli anni Ottanta, in quella “civiltà dell’immagine, [in cui] l’apparire [è] più forte dell’essere [e] l’effimero [è] più necessario del duraturo” (p. 79), ci si sposta, con la lettura di Sandra Dugo, in pieno ambito postcoloniale, all’“ibridimo estetico, artistico, culturale”, che ricerca e promuove, tra l’altro, l’“eterogeneità delle altre culture contemporanee, in primis quella asiatica” (p. 85). Proprio sul dialogo letterario tra Italia e Asia si concentrano i due ultimi contributi della prima parte. Il rapporto problematico tra Italia e Cina nell’ambito dell’imprenditoria dell’abbigliamento viene messo a fuoco attraverso la lettura comparata di Silvia Camilotti di due case studies letterari, che “permette di riflettere non solo sulle dinamiche di potenziale conflitto […], ma soprattutto […] [sulle] potenzialità positive che un tale incontro può offrire, al fine di ripensare positivamente le relazioni e la società che le ospita” (p. 95). Nell’ultimo saggio di Monica Biasolo la cultura nipponica compare, invece, come “quella cosa che interrompe il consueto per crearne un altro”, in cui l’interesse della cultura italiana verso il Sol Levante, documentato attraverso un ricco excursus storico-letterario, che va dai diari di viaggio nel XVI secolo fino ai testi letterari dei nostri giorni, è codificato anche in termini di abbigliamento.

Sul piano pratico della didattica si muove la seconda parte del volume, in cui il marchio Made in Italy viene collocato all’interno della dinamica dell’insegnamento-apprendimento dell’italiano come lingua straniera all’estero, in quanto uno dei simboli dell’identità culturale del nostro Paese. Attraverso i contributi riguardanti la moda italiana vista dalla Polonia (Małgorzata Lewandowska), la costruzione di identità e comunità virtuali nei fashion blogs italiani (Kamila Miłkowska-Samul), la presentazione della moda nei manuali di italiano LS (Marilisa Birello – Albert Vilagrasa), lo studio del costume medievale in prospettiva interculturale (Antonella Filippone), l’insegnamento della lingua e della cultura italiana attraverso la moda (Rita Pasqui), l’analisi degli anglicismi nel lessico della moda sulle riviste femminili (Vivian Orsi) e l’uso degli eponimi nel linguaggio della moda italiana (Maria Teresa Albano) si innesca un dialogo interculturale di largo respiro, sostenuto da un lato dalla presenza di questionari ed esempi di unità didattiche e dall’altro dalla riproduzione di materiale autentico tratto dalla rete e dai manuali di lingua.
L’interdisciplinarità degli approcci, nonchè l’ampiezza tematica e temporale dei vari campi di ricerca fungono da sostegno alla tesi iniziale del libro: l’abito inteso come habitus, dunque come abitudine sociale, ovvero come un preciso comportamento collettivo, per dirla con Pierre Bourdieu, ma anche come espressione di un determinato Zeitgeist (“spirito del tempo”) in cui si incontrano, si scontrano e si conglomerano non soltanto gli “effetti esteriori e collettivi della psicologia di massa”, ma anche quei “processi interiorizzati, connessi alla ricerca dell’io, all’espressione individuale, all’immagine che portiamo dentro di noi e che vogliamo rivelare intenzionalmente o meno, tramite l’abbigliamento, a chi ci guarda, ammira o osserva” (p.12).

Facendo leva da un lato su affermazioni come quella di Roberto Cavalli, che si considera “un artista, con l’unica differenza che le [sue] creazioni si indossano, non si appendono ad un muro” (p. 17) e dall’altro sul pensiero del sociologo e filosofo Pierre Bourdieu, che parla di segni nei vari contesti (Pierre Bourdieu, La Distinction. Critique sociale du jugement, Paris, Minuit, 1979) e del linguista e semiologo Roland Barthes, che riconosce la moda come vero e proprio sistema in sé (Cfr. Roland Barthes, Système de la Mode, Paris, Seuil, 1967), si arriva alle teorie postcoloniali dei turns, in particolare all’iconic turn, fino al connubio della moda con i gender studies, a partire dalla terza ondata degli anni Ottanta e Novanta: i performative acts di matrice butleriana e i queer studies incontrano il termine cross-dressing, ossia l’abitudine di indossare abiti solitamente associati al sesso opposto, riflettendo così, anche nel codice vestimentario, il concetto di transgender.

Si ritorna dunque all’affermazione di Dacia Maraini, citata qui all’inizio: “la moda è la spuma dell’onda” – diremmo anche: la punta dell’iceberg, ovvero la parte esteriore, frivola e ludica di un complicato sistema di dinamche storico-sociali e culturali. La moda è effimera: essa cambia, si evolve, si autodistrugge e rinasce, come una fenice, dalle proprie ceneri, a volte come portavoce di un determinato status quo, altre invece come protesta, sovversione, grido di emancipazione. L’abbattimento delle frontiere, perlomeno di quelle nazionali, e la conseguente (alquanto) libera circolazione delle idee, favorisce in ambito postcoloniale un concetto di moda transculturale, che supera di gran lunga i confini nazionali, corroborato soprattutto dalla vasta diffusione delle nuove tecnologie, in particolar modo dalla rete: la moda si fa ibrida, multiforme e multietnica e si arricchisce di nuovi contenuti.

È dunque con queste nuove sfide che la moda italiana si trova a dover fare i conti: se da un lato, in un Paese come l’Italia, a cui non a caso è stato dato il nome di Belpaese, la moda assume una rilevanza particolare e il Made in Italy è molto di più di un semplice modo di apparire (basti pensare alla scena politica italiana, che viene costantemente tradotta in termini di stile), dall’altro si fa sempre più urgente (ri)definire il Made in Italy nel contesto della società globalizzata.

Dal tentativo di tracciare un saldo profilo storico-letterario della moda italiana, nella prima parte, al bisogno di “esportare” la moda italiana all’estero, come aspetto fondamentale della sua cultura, l’auspicio del libro Moda Made in Italy è proprio quello di promuovere l’approfondimento accademico dei rapporti della moda con la letteratura, la cultura e la didattica, in direzione di un’espansione su ulteriori campi, “diversi ma intrinsecamente connessi ad essi” (p. 36), che costituiscono terreni ancora tutti da esplorare.

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