Set 19

“Il silenzio coprì le sue tracce” di Matteo Caccia

(di SERGIO MUSCARELLA)

Ho scoperto Matteo Caccia quasi per caso: ero in macchina e, accesa la radio, sono stato catturato dalla voce di un conduttore radiofonico che, tra una canzone e l’altra, raccontava il blocco creativo di Henry Roth seguito al suo primo romanzo, successivamente diventato un capolavoro della letteratura mondiale, Chiamalo sonno. Il conduttore era Matteo Caccia. Ho ascoltato, in seguito, numerose puntate della sua trasmissione Pascal, in onda ogni sera su Radio 2, e la mia impressione originaria è stata confermata: una capacità di raccontare storie fuori dal comune, siano esse fatti di letteratura, storie di vita personali inviate dagli ascoltatori, storie riguardanti personaggi famosi. Il tutto con garbo e una eccezionale maestria nell’addentrarsi nelle pieghe più profonde dell’animo umano e nell’esporre sentimenti e particolari di vita a volte non facili da raccontare. Ho scoperto successivamente che Caccia, oltre ad aver svolto attività teatrale ed essere stato conduttore di altre fortunate trasmissioni radio come Amnèsia e Una vita – viaggio nelle età di ognuno, ha scritto anche tre romanzi, l’ultimo dei quali è Il silenzio coprì le sue tracce, edito da Baldini e Castoldi a marzo 2017. Già la copertina – non sappiamo se sia stata scelta autonomamente dalla casa editrice o vi abbia collaborato anche l’autore – oltre a essere molto evocativa, annuncia quanto si leggerà in seguito: una pagina bianca, a simboleggiare il silenzio e l’essenzialità dei dialoghi e, in alto, un bosco di abeti capovolti. Il bosco e la natura, in generale, sono delle presenze costanti nell’intero racconto, non solo come luoghi in cui la storia è ambientata, ma soprattutto come luoghi simbolici, come luoghi dell’anima. A sottolinearne l’importanza è uno schizzo che rappresenta la cartina geografica delle località attraversate dal protagonista del romanzo, Pietro Zambelli/Zambo. La cartina offre al lettore la possibilità di seguire visivamente il viaggio compiuto.

Tutte le località riportate nel disegno vengono attraversate o, quantomeno, menzionate dal protagonista nel corso del romanzo e alcune di esse vengono descritte minuziosamente dall’autore, come a volerne mettere in risalto l’importanza che assumono nella storia. Un esempio è costituito dalla descrizione iniziale con cui si apre il romanzo: una casa abbandonata, che poi scopriremo essere il podere Miramonti, custode di storie e segreti che riguardano molto da vicino il protagonista, immersa in un suggestivo scenario montano.

Quando l’ultimo ramo di caprifoglio coprì quello che rimaneva del tetto, la casa era ormai un rifugio per una famiglia di ghiri, una ghiandaia pronta a migrare e un istrice ferito nascosto sotto una felce in quella che era stata la cucina. […]
Fuori, alle spalle della casa poderale, i resti della Torre Giurisdavidica spuntavano, un centinaio di metri più in alto, come un comignolo sulla vetta del monte Labbro. Dalla cima di quel tempio diroccato lo sguardo raggiungeva il mare, abbracciando il Monte Argentario e l’isola del Giglio, fino alle torri fumanti delle acciaierie di Piombino. (p. 9)

Zambo è un uomo di Genova e, in compagnia del suo fedele cane Tobia, intraprende un viaggio a piedi e con mezzi di fortuna attraverso l’Appennino tosco – emiliano per raggiungere una località della Maremma, il podere Miramonti, e riportare lì una pistola, una Smith & Wesson calibro 357, appartenuta a suo padre che gli affida quest’ultima “missione” poco prima di morire. Il viaggio diventa un vero e proprio percorso di formazione per il protagonista: occasione di incontri che gli permettono di acquisire una maggiore consapevolezza di se stesso e delle cose; scoperta di luoghi, artificiali e naturali, densi e impregnati di storie che lo riguardano da vicino e capaci di metterlo continuamente alla prova. Zambo deve far fronte a una vera e proprio lotta di sopravvivenza per procurarsi il cibo, trovare un rifugio per la notte e far fronte alle mille difficoltà che la montagna presenta.
Il viaggio viene a configurarsi come un graduale allontanamento dalla dimensione urbana e un avvicinamento alla natura: dal semplice gesto con cui, sentendo vibrare il telefono in tasca, il protagonista ‹‹lo spense e lo lanciò lontano dal sentiero›› (p. 18), sino a episodi di estatica contemplazione degli scenari che la natura offre, che vengono ‘dipinti’ da Matteo Caccia innalzando lo stile della scrittura:

Raggiunse le pietre scure di un rudere, sulle quali si accovacciò. Fu lì che sentì dei tonfi. Su di un pianoro a un centinaio di metri un lupo balzava in aria e ricadeva sparando lapilli di neve verso il cielo. Si rotolava e si rialzava rimanendo per un istante immobile a fissare un punto dritto davanti a sé, e poi con uno scatto zompava a destra e a sinistra tenendo gli agguati immaginari di una danza solitaria e antica… il lupo era lì, davanti a lui – linea di confine di un pezzo selvatico di mondo che stava tornando. (p. 54 e 55)

Il lupo, animale selvatico per eccellenza, ritorna più volte nel corso del romanzo, prima solamente nei racconti dei pastori e della gente del luogo, poi in concrete apparizioni come creatura da ammirare in silenzio accovacciato sulle pietre scure di un rudere, come animale da salvare e da curare e, infine, come essere vivente col quale cercare di stabilire un contatto. L’evoluzione del rapporto con esso è simbolo anche di quell’avvicinamento alla natura di cui si è detto.
Ma non ci si illuda, perché se ci si aspetta l’ennesima storia sentimentale imbevuta di spirito romantico di un uomo, trasandato e poetico che, animato da spirito hippie, abbandona la città per abbracciare la montagna e vivere felicemente ristabilendo un armonico e ancestrale legame con la natura, stiamo proprio andando fuori strada. Come dice Dindon, vecchio amico del padre, durante una conversazione con il protagonista, ‹‹La favola del ritorno alla natura è una enorme cazzata inventata da chi non la conosce davvero. Questo posto può diventare un inferno e lo fa nel silenzio della neve che cade››, (p. 71) E se ci viene il dubbio che questo punto di vista sia proprio soltanto del personaggio Dindon, esso viene subito dissipato proseguendo la lettura del romanzo.
La natura, dunque, non è solo costituita da incantevoli paesaggi, sognanti apparizioni, alternativi al caos della città, ma è anche natura matrigna, spietata e insensibile nei confronti di coloro che, immersi in essa, vivono.
Luogo simbolo di differenti modi d’intendere la vita, specchio che riflette i sogni e i pensieri di uomini appartenuti a due diversi periodi storici, è la montagna.
La montagna del padre partigiano, luogo della Resistenza, habitat per eccellenza dei combattenti contro il nazifascismo, terreno di discussioni, dibattiti, condivisioni di sogni e speranze, progetti politici per l’Italia del futuro, anteposizione della collettività all’individualità – come afferma il protagonista riferendosi ad una conversazione avuta col padre: ‹‹Mi disse che erano amici sin dagli anni della montagna. Era così che chiamava la Resistenza›› (p. 68) – ma anche la montagna di Zambo, luogo di solitudine, di silenzio, di poche conversazioni, luogo di un percorso tutto individuale che non mira alla creazione di nessuna forma di socialità. Tutte le persone con cui egli instaura una qualche forma di legame e di rapporto, anzi, moriranno. E morrà perfino il cane, l’amato compagno di viaggio Tobia. La montagna vede così da una parte, la generazione che ha costruito l’Italia repubblicana dopo la dittatura fascista, dall’altra, la generazione dei nostri giorni, la generazione della postmodernità. La generazione in cui molti, come Zambo, hanno smesso di votare, di leggere i giornali e di occuparsi di politica perché ‹‹votare serve solo se sei molto ricco o se sei molto povero. Se sei ricco perché la politica ti serve, se sei povero perché speri che ti aiuti››. (p. 140)

Il romanzo si presenta suddiviso in quattro parti ognuna delle quali è costituita da brevi capitoli non numerati. A capitoli narrati in terza persona da una prospettiva extradiegetica, che seguono l’ordine logico e cronologico degli eventi e del viaggio intrapreso da Zambo, si alternano capitoli narrati in prima persona, in cui a narrare è il protagonista che ci presenta delle riflessioni personali, delle impressioni momentanee su persone ed eventi o rievoca, con dei veri e propri flashback, degli episodi accaduti nell’infanzia, affiorati alla memoria in seguito alla vista di un luogo o al presentarsi di una determinata circostanza.
Nel corso del racconto i dialoghi sono molto brevi e ridotti all’essenziale, il protagonista dà l’impressione di non sprecare nessuna parola, di parlare solo quando è strettamente necessario, limitandosi a laconiche battute date agli occasionali viaggiatori e alle persone che incontra durante il suo peregrinare. Molto spazio è invece lasciato alla narrazione del viaggio, delle esperienze nel bosco e nella montagna, degli incontri con le poche persone con cui ha o cerca di instaurare un rapporto. La narrazione privilegia sempre periodi molto brevi e coincisi. Fondamentali sono, poi, le descrizioni dei paesaggi, delle montagne, della natura. In esse lo stile di Matteo Caccia abbandona la colloquialità per degli slanci lirici capaci di fissare nell’immaginazione del lettore scenari che, anche se non visti realmente, diventano luoghi definiti, nitidi, quasi conosciuti:

Nella opaca luce autunnale, dalla soglia del bivacco, osservò il lago sottostante e la vetta del monte Torricella. Sembrava finita lì per sbaglio. Il cane si stava rotolando nella neve. Lo richiamò e tornò sul sentiero che si infilava nella faggeta trasformandosi in una mulattiera di placche rocciose. All’uscita, in una radura, la neve era scomparsa e siepi di mirtilli punteggiavano l’erba scura. Percorse il sentiero di cresta che segnava il confine tra Toscana ed Emilia e dopo un’ora raggiunse la nicchia votiva sulla cima del Monte Sillara. Su una lastra di arenaria i segni bianchi e rossi del segnavia indicavano la Grande Escursione Appenninica. (p. 85 e 86)

Le numerose descrizioni presenti nel romanzo mostrano una grande conoscenza da parte dell’autore dell’Appennino, della sua fauna e della sua flora, come testimoniano anche i passi in cui descrive dettagliatamente il comportamento dei lupi o di altri animali selvatici o in cui nomina ad una ad una le varie specie vegetali che lo popolano (caprifoglio, felce, convolvo, robinia ecc.)

Un ultimo accenno meritano due figure femminili presenti, in maniera manifesta o in maniera velata, nel romanzo: Agnese, ragazza che conosce nel corso del viaggio, che appare e scompare più volte e, soprattutto, la madre. Ad un certo punto della storia, al viaggio intrapreso per riportare la pistola al podere Miramonti, si sovrappongono altre due “missioni”. Una cosciente, deliberata, ossia trovare Agnese che scompare dopo avergli sottratto la pistola. L’altra inconsapevole, inaspettata: scoprire la verità sulla madre che Zambo non ha mai conosciuto e di cui ha avuto soltanto poche e imprecise notizie dal padre. Il pensiero rivolto alla madre è un motivo che percorre, in maniera carsica, tutto il romanzo, sin dall’inizio:

Come si sarebbe mossa, mamma, tra le stanze di casa? Come si sarebbe vestita, lì? Come si sarebbe arrabbiata? […] Non mi è mai mancata, mia madre – non può mancarti quello che non hai mai avuto. (p. 19)

È come se una spessa coltre di polvere sia caduta sulla storia di sua madre, come se qualcuno abbia voluto coprire, con un bianco manto di silenzio, le sue tracce. Ma alla fine una persona, arrivata ormai alla fine dei suoi anni, strapperà quel manto di silenzio, soffierà su quella polvere. E mostrerà a Zambo la verità.

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