Set 28

“Falsomiele. Il diavolo, Palermo” di Franco La Cecla

(di FABIOLA CASTELLO)

Nel 2014 esce per :duepunti edizioni il romanzo d’esordio dello scrittore palermitano Franco La Cecla: Falsomiele. Il diavolo, Palermo. L’opera racconta con raffinata ironia le disavventure di Caruso, personaggio inquieto, “insoddisfatto cronico”, come viene definito, il cui tragico destino sarà segnato dall’incontro con un moderno Mefistofele di faustiana memoria, che assume le sembianze di un manager senza scrupoli.
Il protagonista del romanzo è un antropologo palermitano che, dopo anni di assenza, torna nella sua città natale, con l’intento di condurre in giro per la Sicilia la sua compagna Fawzia. L’arrivo nella terra d’origine è suggellato da un evento inquietante: in un bar alla Marina conosce un individuo dall’aspetto sinistro, Gaetano Volpes. L’uomo offre a Caruso la possibilità di usufruire di un servizio erogato dalla sua “Agenzia Urbi et Orbi”: l’“ubiquity”. Si tratta di un’offerta che sembra configurare la possibilità una avventura eccezionale, come l’astuto Volpes lascia intendere a Caruso: materializzarsi nelle più disparate parti del globo, rivedere i luoghi e le persone che desidera e, in definitiva, vivere più vite contemporaneamente. L’abile manager formalmente offre al protagonista un bonus di una settimana per testare l’efficacia del suo servizio ma, di fatto, questo “periodo di prova” non sarà altro che un espediente per vincolare Caruso a un patto indissolubile con lui.
Così, ormai preda di Gaetano Volpes, il protagonista, sarà inghiottito da una cupa spirale di avvenimenti che lo porterà a riprendere una a una le fila del proprio passato e a rivedere le donne, i maestri e le città che ha conosciuto e amato. Questi incontri, tuttavia, saranno sempre brevi e si interromperanno prima ancora che Caruso possa scegliere se restare o se andar via da quel luogo. Un contrappasso crudele che lo costringe a muoversi caoticamente da un posto all’altro senza mai avere posa.

Il romanzo di Franco La Cecla esibisce una scrittura ricca di invenzioni, capace di impiegare sapientemente il registro ironico e di spaziare tra scelte espressive diversissime che vanno dallo stile comico e a tratti triviale di Gaetano Volpes, alle divagazioni e alle riflessioni erudite dei carnet di Karla Schlapfer, una vecchia compagna di Caruso, che tenta invano di seguirlo e di assisterlo nel suo tortuoso percorso. Per quanto concerne il livello strutturale, la scelta di alternare ai capitoli dedicati alla narrazione vera e propria alcune sezioni che riportano e-mail e pagine di quaderni determina una più vivace scansione dei diversi momenti della vicenda.
L’opera intesse una fitta trama di richiami intertestuali che assecondano un elegante gusto per la citazione: da Tomasi di Lampedusa a Jorge Luis Borges, da Hermann Melville a Samuel Taylor Coleridge, da Lewis Carroll a Philip Kindred Dick , da Raymond Queneau a Bulgakov.
Già il titolo del romanzo offre alcuni interessanti spunti di riflessione. Falsomiele, infatti, da un lato rimanda all’idea di una dolcezza effimera, dall’altro evoca l’omonima borgata palermitana, portando immediatamente l’attenzione del lettore sulla geografia del capoluogo siciliano.
La vicenda, che è ambientata prevalentemente nella Palermo dei giorni nostri, seguendo le vicende del protagonista, traccia le coordinate di una più ampia mappa che abbraccia luoghi di tutto il mondo: da Parigi a Berkeley, dall’Africa al Sud America.
Palermo si carica di significati simbolici, come emerge chiaramente dai dialoghi tra Volpes e Caruso. Si legga, a tal proposito, lo scambio di battute tra i due personaggi in occasione del festino di Santa Rosalia:

-Caruso, anche tu devoto?
-Sempre tra i piedi?
– Business. Ti presento il mio assistente, Mercurio. Si occupa di tenere buoni i clienti tra un contratto e l’altro.
-E come?
-Gli procura la roba.

-Lasci stare, non mi spieghi.
– Siamo colleghi, Caruso. La nostra filosofia è vincente. Noi siamo il progresso, l’avvenire, il mondo va verso di noi.
[…]
-Volpes, lei è molto folcloristico, ma non creda che io ci caschi nei suoi giochetti. Conosco fin troppo bene questa città per sapere che anche lei fa parte delle rovine e delle bolle di sapone.
– Caruso, io sto qui, solo perché questo è il posto più adatto. Qui si prepara davvero la fine del mondo. Quanta magnifica decadenza, quanto girare in tondo, quanto sprofondare senza speranza. Nessun posto come questo è la base più adatta per noi che crediamo che tutto finisce. (pp.66-67)

Nello scenario folcloristico della festa della Santa protettrice della città Gaetano Volpes si trova a gestire il suo “business”, organizzando loschi traffici e presentandoli come positiva espressione di un fantomatico “progresso”. Questo diabolico personaggio definisce Palermo “il posto più adatto al suo operare” e ne rappresenta la corruzione e la decadenza (“Quanta magnifica decadenza, quanto girare in tondo, quanto sprofondare senza speranza”).
Proprio la contrada palermitana di Falsomiele che dà il titolo al romanzo pare diventare un luogo simbolo del disfacimento di tutte le cose. Caruso, che non ha mai visitato la borgata, inizia a interrogarsi sulle ragioni di un toponimo così singolare. Attraverso il ricorso alla tecnica dell’indiretto libero il narratore alterna il flusso dei pensieri del protagonista alla descrizione del suo ingresso nel quartiere:

L’idea di una borgata della sua città che si chiama Falsomiele lo ha per anni divertito, ma non c’è mai andato. A cosa deve somigliare un posto simile? All’odore appiccicoso delle pomelie o delle belle di notte che si aprono al buio con il loro lampo bianco e giallo sui balconi o negli anfratti dei muri? E poi chi ha messo quel nome a una borgata sperduta? Qualcuno che voleva fare dell’umorismo sulla natura tutta siciliana della dolcezza che si rivela poi sempre una trappola, le donne siciliane che elargiscono profumi di seduzione per potersi negare, il cibo di Palermo, il suo clima, le illusioni delle lunghe notti d’estate e le delusioni degli inverni?
[…] Qui la città rivela la sua natura provvisoria. Una campagna umiliata, piuttosto, un fastidio di essere visitata.
[…]
I cancelli che si spalancano di fronte a Caruso sul lato della montagna guidano lo sguardo oltre i primi cumuli di materiali di riporto e di immondizie sino all’alta roccia soprastante. La bellezza possibile del luogo è subito contrastata da quest’aria di ripostiglio, di garage, grotte, anfratti e siepi malandate. La montagna si apre in spaccature, in dimenticati muretti e in sciatte costruzioni. Dunque è questa Falsomiele. Ci sono stati tentativi di rimboschimento, abeti, pini, eucaliptus, ma su tutto regna un senso di viscida dimenticanza. (pp. 15-16)

A partire dalla riflessione sul nome, l’autore delinea un’immagine della Sicilia che evoca alcune descrizioni de Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa (autore espressamente citato in alcune parti dell’opera). Gli odori “appiccicos[i] delle pomelie o delle belle di notte” ricordano quelli “untuosi, carnali e lievemente putridi” (Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, Universale Economica Feltrinelli, Milano 2009, p. 34) del giardino di casa Salina. Inoltre in entrambi i testi le sensazioni olfattive suscitate dall’odore dei fiori riconducono alla sensualità femminile (in Falsomiele si legge: “le donne siciliane […] elargiscono profumi di seduzione per potersi negare”, in Il Gattopardo si legge: “il Principe se ne pose una [rosa] sotto il naso e gli sembrò di odorare la coscia di una ballerina dell’Opera”).

Falsomiele, come si evince dalla descrizione che ne viene fatta, è il risultato di un contrasto tra nome e realtà che suscita nel protagonista una profonda delusione.
Caruso, abituato a viaggiare molto per via della sua professione ma anche per la sua intima irrequietudine, è naturalmente portato a interrogarsi e a esplorare i luoghi che attraversa. Percorrendo la borgata, tuttavia, e osservando il “senso di viscida dimenticanza” che su di essa domina, non può che rimanere deluso dall’impossibile corrispondenza tra essa e il suo nome evocativo ed essere costretto ad ammettere con amarezza che “si tratta solo di un nome” (pag. 16): nessuna dolcezza, neppure illusoria, ai suoi occhi, può essere ritrovata in quel luogo.
La città di Palermo assume un ruolo centrale nell’esperienza fantastica del personaggio, al punto da fargli ritrovare nell’essenza dei monumenti e delle architetture urbane frammenti del suo io disgregato. Particolarmente interessante è, a tal proposito, il momento in cui Caruso, dopo esser entrato nella Cattedrale, immagina di essere assorbito dall’abside (“l’abside lo assorbe”) e di camminare a testa in giù sulla volta della chiesa, eludendo le leggi della gravità, “come se ci fossero tanti Caruso spilli e grilli attaccati a una cupola immensa”, come scrive l’autore:

Si sposta, svogliatamente, verso il centro della chiesa e poi verso l’abside con il grande mosaico in cui campeggia un Cristo dall’aria assorta da rivoluzionario. Guarda verso l’alto.
Rimane così per un po’. Sente, forse è un effetto della posizione, che ha sempre voluto, fin da bambino, camminare su quell’abside e che gli sembra possibile, con la testa all’insù, perdere gli obblighi della gravità. L’abside lo assorbe e lui potrebbe, a testa in giù, percorrere quelle facce di profeti, quelle schiene di angeli e arcangeli. Non gli interessa cosa calpesta. Gli interessa capire come sarebbe camminare su quella volta. Immagina che l’abside sia parte di una vastissima concavità, tanto grande da non fargli sentire i cambiamenti della pendenza. Immagina di camminare lì in mezzo. […] Come se ci fossero tanti Caruso spilli e grilli attaccati a una cupola immensa e ognuno pensa che la sua posizione è quella normale e non riesce a capire come fanno gli altri a non cadere, al punto da dimenticare che ci sono altri sé.
Poi si sposta e diventa quegli altri sé, quei signori attaccati all’abside. E si immagina che intorno a quei signori ci siano mobili e case e alberi e città e che il mondo sia così, un luogo in cui uno, preso dall’equilibrio acquisito in quel preciso istante, si dimentica che altrove aveva un’altra legge di gravità, altri mobili, case, giardini e panchine e città.
E per la prima volta da quando si è svegliato, mentre gli sta venendo il torcicollo, sorride all’idea. (pp. 18-19)

Nel tentativo di stabilire un contatto inedito con le cose, il personaggio finisce per immergervisi con l’immaginazione, divenendo parte egli stesso dell’oggetto che osserva, quasi trasmutandosi in esso, in una dimensione narrativa che acquista tratti onirici e fantasmagorici. In questa operazione si configura forse il desiderio più profondo del protagonista-antropologo.
La geografia del romanzo, come sopra evidenziato, si estende ben oltre i confini del capoluogo siciliano per abbracciare svariate città del mondo, ognuna delle quali sembra lasciare una traccia indelebile nel protagonista, condizionandone profondamente i comportamenti e il rapporto con lo spazio circostante. Ecco, ad esempio, come viene descritto il momento in cui Caruso viene catapultato a Parigi:

Nel metrò verso Château Rouge. Caruso ha capito di essere a Parigi soltanto questa mattina, dalle maniere busche e assonnate della gente.
Quando si ritrova qui è chiaro che il suo corpo deve rispondere in modo diverso. […]
Il corpo della gente qui è un imbarazzo costante, diffuso, come se ogni presenza risulti loro estranea e il loro sistema immunitario sia in pericolo. Si comportano come se Parigi fosse un villaggio assaltato dai barbari e vedono dappertutto il pericolo di venire cancellati nella loro identità fisica. Qualcosa che si manifesta all’altezza delle anche, in una propensione a non girare il busto, in un blocco renale che impedisce di scivolare accanto agli altri. Caruso si trova a osservare lo sguardo smarrito di chi non sopporta che un estraneo gli stia accanto nel metrò. […]
A Parigi diventa razionale e ragionevole, ma la sua ragionevolezza è una rinuncia cosciente alla follia, all’andare fuori strada, al correre sui margini di sé e delle cose. Diventa più secco, ridotto all’osso e per questo più capace di lavorare, di pensare a cosa dovrebbe fare della sua vita. Una gran fortuna, se uno credesse che il lavoro è tutto. (pp. 93-94)

Il passo intende connettere i luoghi a peculiari tipologie umane. Gli atteggiamenti dei cittadini parigini vengono rappresentati con graffiante ironia: il loro corpo e quello degli altri è “un imbarazzo costante”, ogni presenza estranea è talmente minacciosa da far sì che “il loro sistema immunitario sia in pericolo”, Parigi è “un villaggio” che rischia continuamente di essere “assaltato dai barbari”.
Nella ricostruzione della topografia di Falsomiele. Il diavolo, Palermo un altro luogo particolarmente significativo è Quito, nel quale il protagonista si trova, in uno dei momenti più suggestivi del romanzo, insieme agli uomini e alle donne di una comunità indios. È proprio nella capitale dell’Ecuador, infatti, che lo sguardo curioso del protagonista-antropologo schiude al lettore mondi assai diversi da quello occidentale, all’interno dei quali la relazione dell’uomo con gli elementi della natura è segnata da un profondo dinamismo:

Il cielo di Quito è solcato da strisce di nuvole rosa. […]
L’aria di montagna è tersa. La città coloniale giace ai suoi piedi e le montagne intorno sembrano già costruzioni incas. La valle in cui la città è incastonata è punteggiata di quartieri che si arrampicano sulle pendici. La città è un levarsi di voci, un latrare di cani, un rumore di campane lontane che sembrano a due passi in quest’aria leggera. Grandi tettoie di mercati lasciano passare fumi e zaffate di frutta, di grassi, di arrosti, di erbe.
Caruso si siede sulla panca su cui ha dormito, si sente debole, è l’effetto dell’altura: il sangue gli fa fatica ad arricchirsi di ossigeno, l’aria di Quito è rarefatta. L’Apu, la divinità andina della Montagna, almeno qualcuno gli ha spiegato così, sembra quasi volersi difendere dagli stranieri e spesso li attacca con il soroche, quel mal d’altitudine che ti prende all’improvviso, che ti fa battere il cuore in modo inconsulto, che ti fa girare la testa vorticosamente. La montagna “ti possiede” e ti spiega subito che lei è più forte di te e del tuo corpo, e che se vuoi conoscerla devi farlo piano piano, rispettando i suoi tempi. (p. 122)

In tal caso l’autore pare offrire una rappresentazione positiva della città coloniale, che a tratti viene descritta in modo quasi idillico. Eppure, anche questo luogo “ameno” dell’opera si nega alfine al protagonista che, essendo percepito come “straniero” non può goderne a pieno (significativo a tal proposito il riferimento al “sorache”, “quel mal d’altitudine” che sembra inflitto a Caruso dalla stessa divinità della montagna).
L’intera esperienza di Caruso così profondamente segnata dal contatto con gli spazi urbani di tutto il mondo, può essere letta come un ‘esercizio dello sguardo’ nei confronti delle città e dei paesaggi che percorre.
D’altra parte, ancor prima dell’incontro con Gaetano Volpes, il protagonista rivela una natura instabile, incapace di sostare in qualsiasi luogo e preda di viaggi continui, di continue illusioni di libertà, che non gli consentono di avviare un percorso di approfondimento interiore autentico. Il bonus concesso da Volpes non fa che acuire drammaticamente una condizione di disorientamento che è già presente in nuce all’inizio del romanzo.
Caruso, insomma, è facile preda per il diabolico manager che gli concede bellissime donne e la possibilità di ritrovare luoghi a patto che di tutto ciò egli goda solo superficialmente, come avverrebbe per un prodotto commerciale ed effimero. Gli incontri e i viaggi del protagonista divengono agli occhi del lettore l’espressione più chiara della percezione del senso di perdita che grava su tutte le cose, che costituisce sin dall’inizio il vero dramma esistenziale del protagonista.
L’inganno ordito da Volpes fa leva su un’inquietudine di natura nostalgica e sentimentale, come rivelato proprio dalle parole dello stesso Caruso:

Un attimo, Dove sono? Sospeso, ma dov’è che voglio andare ora? Tornare a casa no. Dov’è casa? Accade che i posti diventino paure e nostalgie, lo so, e allora qual è la regola? Vorrei arrivare sul terrazzo blu a guardare i cieli equatoriali, vorrei perché lì ho lasciato me che cominciavo. Come funziona questo coso? Mi dà diritto di stare in più posti? Ma posso tornare indietro? O l’ubiquità è solo un surrogato della nostalgia? […]
Ecco come funziona, posso riprendere io, i pezzi di io lasciati altrove, dal momento in cui li ho abbandonati. Ma solo da quel momento. Non posso rivivere niente, solo percorrere il lastrico del terrazzo per riprendere un pezzo d’anima che ci sta attaccato. (p. 121)

Nel momento in cui la vicenda si avvia a raggiungere la sua acme il tono concitato e il susseguirsi di frasi interrogative accentuano la tensione drammatica, in una atmosfera in cui comico e tragico si fondono. I “pezzi di io lasciati altrove” richiamano quei “tanti Caruso spilli e grilli” (pag.19), suscitati dalla vista dell’abside della Cattedrale di Palermo all’inizio del romanzo. Queste immagini non appaiono peregrine, ma prefigurano, al contrario, la sorte del protagonista, il cui corpo, alla fine dell’opera, verrà scomposto e frammentato per far sì che ogni sua parte possa vivere in un luogo diverso. Un simile destino non può che essere una chiara metafora della totale disintegrazione dell’identità individuale.
La vicenda di Caruso diviene emblema della condizione dell’uomo contemporaneo, alienata dalle logiche di una società globalizzata, che rischia talvolta di allontanarlo da ogni possibile ricerca di senso e di integrità. Tuttavia, pur nell’inquietante finale del romanzo, che rimane aperto, al lettore è offerta la possibilità, ripercorrendo a ritroso le ‘tracce di anima’ lasciate da Caruso, di costruire una propria personale geografia, di affinare il proprio sguardo su luci e ombre della realtà odierna per mettersi in salvo dal pericolo della frammentazione esistenziale.

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