Ott 01

“Piccola guerra lampo per radere al suolo la Sicilia” di Giuseppe Rizzo

(di DAVIDE FRANCESCO FRAGAPANE)

Una lotta contro i pidocchi nella Sicilia fuori dal mito

La Sicilia non esiste, io lo so perché ci sono nato.

Giuseppe Rizzo, giovane autore agrigentino, classe 1983, apre così il suo secondo romanzo Piccola guerra lampo per radere al suolo la Sicilia, edito da Feltrinelli nel 2013, a tre anni di distanza dal primo, L’invenzione di Palermo, pubblicato da Giulio Perrone editore.
Quella che mette in scena l’autore, attraverso le parole e le azioni dei suoi protagonisti, è una vera e propria rivolta contro gli stereotipi, contro gli abusati cliché che hanno dipinto e raffigurato l’isola e gli isolani. Luoghi comuni che secondo Rizzo hanno fissato definitivamente la Sicilia nell’immaginario collettivo mondiale, all’ombra del mito culturale dell’irredimibilità del tempo storico (del tutto cambia affinché non cambi nulla) e di una compiaciuta decadenza dei luoghi (della Sicilia che in fondo attrae così com’è, bella e triste allo stesso tempo). Stereotipi che, secondo l’autore, sono stati alimentati dalle inconsapevoli penne degli scrittori siciliani.
Leggendo il romanzo ritornano in mente le parole che già nel 1945 il critico Sebastiano Aglianò, ben 13 anni prima della pubblicazione del capolavoro di Tomasi, aveva espresso in un suo saggio:

Lo scrittore siciliano ha sempre un conto da risolvere con la sua terra nativa. […] L’astrattismo comincia dalla Sicilia e si perpetua sino all’ultima cima delle Alpi: così il settentrionale conosce molte cose, liete o tristissime, della vita isolana, ma attraverso una patina letteraria e sentimentale; come se si trattasse di fatti appartenenti non ad un luogo reale, ma ad una terra immaginata da un gioco di fantasia. (Sebastiano Aglianò, Cos’è questa Sicilia: saggio di analisi psicologica collettiva, si cita da Domenica Perrone, In un mare d’inchiostro. La Sicilia letteraria dal moderno al contemporaneo, p. 13, n. 7)

La storia segue le vicende di Andrea, Martina e Marco, i tre protagonisti di Piccola guerra lampo, tre giovani trentenni, appartenenti a quella generazione formatasi negli anni ’90 e costretta a migrare nel decennio successivo. Dal continente però continuano a pensare a Lortica, il piccolo comune dell’entroterra agrigentino in cui sono nati, al suo Sindaco e ai pidocchi (così vengono rinominati i mafiosi che per diversi anni hanno tenuto i lorticani assoggettati al loro dominio e hanno reso la piccola Lortica capoluogo agrigentino di Cosa Nostra).

Le minchiate proferite dal primo cittadino sulla morte dei fratelli Bonanno, barbaramente uccisi, proprio dai pidocchi, perché sognavano di poter vendere fiori lì dove gli era stato vietato, quelle minchiate sono la loro personale Pearl Harbor, il motivo scatenante che desterà le loro coscienze e li convincerà a tornare con un senso di civica responsabilità:

Il Signor Sindaco di Lortica ha provato a ricacciarli nella polvere. La storia dei Bonanno non è una storia che appartiene al nostro paese, ha dichiarato alla stampa, il paese non c’entra niente coi Bonanno, l’amministrazione si duole per quello che è accaduto ai due fratelli, ma sarebbe ora di dimenticarla quella storia. (p. 30)

Pianificano così una spedizione punitiva, una spedizione curata in ogni dettaglio ma che sarà destinata a portarli su tutt’altra strada. Una montagna di letame scaricata davanti l’abitazione del Sindaco, darà il via ad una serie di azioni incalzanti e conseguenze bizzarre non previste dalla compagnia, che li accompagnerà verso un finale del tutto inimmaginabile e inaspettato.

Così come era stato per il Vittorini di Conversazione in Sicilia, il tema del viaggio diventa il motore che anima e intreccia la narrazione. A differenza però dell’autore siracusano, che attraverso l’esperienza del viaggio andava alla ricerca dei ricordi e degli umori della Sicilia della sua infanzia, per riscoprire quei valori che erano stati di quel mondo originario e di quell’umanità autentica, Rizzo compie il gran ritorno all’isola per distruggere tutte queste esperienze narrative. Nessuna immagine ancestrale, nessun ricordo mitizzante, nessun pathos ad accompagnare il racconto. Il romanzo diventa così una sorta di pamphlet, un J’accuse rivolto ai lettori disattenti della sua isola. “La Sicilia non esiste, io lo so perché ci sono nato” è il leit motiv che ritorna incessantemente tra le pagine del suo romanzo.

La lotta contro i luoghi comuni si intreccia inoltre con la lotta contro i pidocchi. L’ironia è l’arma con cui l’autore decide di affrontare questo scontro apparentemente impari: sveste i pidocchi dalla loro aura sovrumana e con una sociologia che affonda l’analisi nella loro coscienza, ne animalizza i connotati fino a declassarli, denudarli, facendoli scendere nel ridicolo e nel paradossale.

Forte è l’elemento autobiografico, volutamente esibito, che nel romanzo si palesa attraverso i luoghi, i personaggi e alcuni fatti narrati.
Lortica altri non è che Santa Elisabetta, paese d’origine dell’autore. La toponomastica esita infatti un doppio effetto rappresentativo: se da un lato sono reali e riportati fedelmente i nomi dei luoghi e delle città che circondano Lortica, stessa cosa non avviene quando lo spazio d’azione è quello interno ad essa. Seguendo il concetto della geosofia di John Wright che coniugava, lì dove possibile, il mondo della finzione con gli spazi reali, questa duplice azione dell’autore crea un effetto di straniamento che sembra avere l’obbiettivo preciso di presentare le vicende come appartenenti a qualsiasi angolo dell’isola, lì dove ne esistano i presupposti socio-antropologici. L’autore sembra volerci dire che i fatti raccontati si sono svolti a Lortica come si sarebbero potuti sviluppare in ogni altro piccolo comune affine.

Un romanzo che si muove così tra le maglie già esplorate della realtà siciliana, dove l’autore, secondo la definizione di Maria de Fanis, diventa quell’artista “che si appropria del luogo, lo esplora con partecipazione attiva fuori dai tracciati consueti, lo decontestualizza, ne chiarisce le regole, ne inventa delle altre” (Maria De Fanis, Geografie letterarie. Il senso del luogo nell’alto Adriatico, si cita da Bertrand Westphal, Geocritica. Reale, finzione, spazio, p. 50, n. 68).

Fabula ed intreccio sono sapientemente gestite dall’autore mediante l’utilizzo di continui flash back che tagliano la narrazione e la arricchiscono: un passato che ritorna e si intreccia al presente del racconto. In alcuni casi l’autore riesce ad intrecciare periodo dopo periodo, due storie parallele e lontane indirizzandole verso un unico finale (per fare un esempio si leggano le pagine 172-175, dove Rizzo in una rapida sequenza narrativa alterna il tempo presente del racconto a ricordi del passato lontano, per descrivere dei giochi rudimentali della sua Lortica ad ascoltatori esterni).
La costruzione dei periodi segue il ritmo del racconto orale, con continue anafore che enfatizzano la narrazione e con costrutti che riprendono lo stile giornalistico proprio dell’autore (Rizzo è oggi una delle firme dell’Internazionale e in passato ha scritto per La Repubblica e l’Unità):

La paura che il signor comandante dei carabinieri di Lortica ha lisciato per tutta la durata del suo discorso, la paura che mi aveva ghiacciato durante l’aggressione di Gaga, la paura che di tanto in tanto s’attacca allo stomaco a ricordarmi il morbo, la paura che dopo l’incendio della Gru non mi ha fatto dormire per tre notti, la conosco bene, questa paura – è silenziosa, ulcera nell’intestino.
È la paura che per un certo periodo ha telefonato a casa mia, a Lortica, i miei pomeriggi ancora davanti ai cartoni animati, le notti passate a aspettare gli squilli che puntualmente rompevano nervi e sonno. (p. 198)

Il lessico è quello dell’italiano quotidiano, ma l’uso di una lingua standard viene animato dalla presenza di regionalismi e dialettismi presenti nei discorsi diretti (sia siciliani, dove l’autore è nato, sia del romanesco, dove l’autore vive e lavora). L’uso del siciliano è moderato e lo si nota maggiormente nella costruzione dei dialoghi tra i lorticani:

Passò il santo? Chiede Totò.
Nonzi, gli risponde la nonna, ancora no.
Ma per forza ce la devi tirare sta testa?, le chiede.
Certamente, fa lei. […]
Un gelato me lo posso mangiare?, chiede.
No, gli risponde Maresa. Sempre a mangiare gelati pensi.
Sono buoni i gelati, dice lui.
Pensa al santo, sdisanuratu, concentrati che la grazia ce la deve fare grande. (p. 108)

Una prosa che però si fa lirica lì dove l’autore si sofferma nella descrizione dei luoghi e dei paesaggi naturali. Ecco come, agli occhi del turista presenta uno dei luoghi emblema della costa agrigentina:

La Scala dei Turchi è questa cosa qua. Uno sperone di marna bianca lungo qualche chilometro su cui il vento e la pioggia e i capricci del cielo hanno disegnato una scalinata che a monte s’allunga nel blu del cielo, e a valle s’affoga in quello del mare. Di giorno abbaglia, di notte confonde – la luna e il sole a divorare il bianco miracoloso e a abbagliare gli occhi che vi si poggiano. I pirati ci attraccavano con le navi, prima di risalire i gradoni e fare razzia nei villaggi vicini. Per i disgraziati che si vedevano rubare femmine e animali e piccioli erano tutti turchi, anche se per la maggior parte si trattava di arabi. (p. 222-223)

Rizzo, da buon siciliano dunque, gioca con l’alternarsi della luce della luna e del sole che colorano l’isola nell’avvicendarsi delle stagioni (sul topos della luce nella letteratura siciliana del ‘900 rimando a Domenica Perrone, In un mare d’inchiostro. La Sicilia letteraria dal moderno al contemporaneo, p. 11-13). Lo si evince ancora in un altro passo dove si descrive la riserva naturale delle Macalube di Aragona:

Porto Lara alla riserva della Macalube, a Aragona, un paese vicino al mio, nome spagnolo, sangue saraceno. Una cosa fuori dal mondo, le Macalube, un pezzo di campagna verdissima a primavera, arancio in estate, con un buco grigio in mezzo, geyser e creta e crepacci dappertutto, uno specchio che riflette la faccia della luna sulla terra, una superficie di qualche chilometro quadrato che il silenzio l’ha disegnata. Non si vede subito, questo fazzoletto di terra lunare, ci si arriva dopo una camminata di un quarto d’ora per i campi, si lascia l’auto fin dove si arriva e poi si prosegue a piedi e Occhio ai serpenti, dico a Lara, c’è pieno di serpenti. (p. 151)

Sebbene rappresentato e modellato con stili narrativi e con intenti diversi rispetto al viaggio che compie Silvestro in Conversazione in Sicilia di Vittorini, il ritorno in Sicilia di Andrea, Pupetta ed Osso risponde dunque ad un richiamo forte d’amore che viene dall’isola.

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