(di VITO CIPOLLA)
Il seme è una storia letta sul giornale, avvenuta a Palermo una ventina di anni fa e venuta a galla solo di recente. Ho ruminato la storia per un paio di anni e poi l’ho sputata via come una palla di pelo di gatto, scrivendola nel giro di sei mesi (cfr. Letteratitudinenews, 2016)
Roberto Alajmo spiega così la genesi del suo ultimo romanzo, Carne mia, edito da Sellerio nel 2016. L’autore infatti, partendo da un episodio di cronaca e combinando sapientemente invenzione e realtà, torna ancora una volta a mettere al centro della sua narrazione, come in Cuore di madre ed È stato il figlio, la famiglia. Carne mia è dunque il terzo capitolo di una ideale trilogia dal vago sapore noir.
C’è innanzitutto il racconto in sé, che ha origine negli anni novanta del Novecento. In un quartiere popolare della città di Palermo, Borgo Vecchio, il fruttivendolo abusivo Calogero Montana scompare misteriosamente lasciando la moglie Mela e i due figli Enzo e Franco ad affrontare da soli le difficoltà della vita. Una volta divenuti adulti, Franco compie un atto estremo, uccidendo Enzo e la sua compagna, sotto stretto consiglio di un boss, il signor Pino, proprietario della carnezzeria del quartiere. Il motivo è l’esasperante condotta dei due, fatta di droga, violenze domestiche e furti, che mettono in pericolo soprattutto il loro bambino, Calò. Il racconto dunque inizia cronologicamente in Sicilia e finisce in Spagna, con in mezzo un boss mafioso, un fratricidio e un bambino ignaro di tutto, che crederà fino all’adolescenza di essere figlio di Franco.
Se si limitasse solo a questo, però, Carne mia sarebbe mera letteratura di consumo, volta a mettere in scena il teatro della sicilianità connivente o dinamiche familiari particolarmente cupe e travagliate. La storia narrata, al contrario, è un’efficace chiave per descrivere la realtà complessa dei comportamenti umani e familiari, diversi e multiformi in relazione ai luoghi in cui essi maturano. I luoghi da cui la storia si dipana sono dunque consustanziali alla narrazione stessa.
Il Borgo è in effetti un quartiere particolare, una zona franca in cui le regole normali della società civile non attecchiscono. Quella descritta da Alajmo, dunque, non è una famiglia qualsiasi che vive in un luogo qualsiasi. Probabilmente, o quasi certamente se accettiamo i principi della psicologia ambientale, i protagonisti della vicenda non sarebbero stati così se non fossero nati e vissuti per buona parte della loro vita nel quartiere Borgo Vecchio di Palermo, descritto come un habitat ideale per criminalità e abusivismo:
Anni Novanta, Sicilia, Palermo, Borgo Vecchio. Una enclave all’interno della zona più prestigiosa della città. Duecento metri separano Napoleon, negozio di scarpe extralusso, da una sacca di sottosviluppo che si muove su ritmi e regole diversi, tutti propri. Un paesello ritagliato in pieno centro urbano, che resiste alle infiltrazioni della modernità, rinunciando ai benefici dell’integrazione in cambio dell’indipendenza morale e amministrativa (p.11)
In questa ‘isola urbana’, dunque, a prevalere sono leggi non scritte, ma che tutti conoscono, le quali non afferiscono alla sfera morale e giuridica dello Stato, ma a punti di riferimento ufficiosi delegati dalla riverenza popolare. L’unica autorità degna di essere chiamata tale, qui, è il signor Pino, il solo che sappia cosa fare, in grado di manovrare azioni e coscienze. Quando Calogero scompare, Mela si rivolge a lui per continuare ad esercitare in maniera remunerativa l’attività di famiglia. Il vuoto di potere è dunque colmato dalla presenza qualificante del macellaio sotto casa, eletto al rango di giudice di pace, di ufficio licenze e quant’altro. Le scelte della famiglia Montana sono quindi figlie di questo contesto culturale. Un mondo in cui la scuola è considerata un inutile orpello, in fin dei conti sacrificabile, in cui non esistono psicologi, assistenti sociali, polizia o anche sacerdoti per poter affrontare problemi gravi come quelli di Enzo, e in cui i disagi vengono coltivati tra le mura domestiche. L’unica via percorribile, quando viene superato il limite di sopportazione e si teme anche per l’incolumità del bambino, appare l’appello al boss, figura quasi totemica rivelatrice di possibilità. Franco segue il suo consiglio, ma poi capisce che quello non è più un posto dove può trovarsi a proprio agio, e con un tardivo scatto di razionalità e autodeterminazione, decide di ricominciare una vita lontano da Palermo e dalla Sicilia.
È l’altra ambientazione, quella della cittadina spagnola di Murcia, ad offrirci una dimensione completamente diversa, uno scenario, oseremmo dire, ‘normale’. La normalità, seppur apparente, per un uomo dal passato come quello di Franco, è una conquista. In Spagna ha un lavoro stabile, è uno stimato cittadino, pratica saltuariamente sport e si occupa della famiglia. Incontra anche una bella ragazza di origini ungheresi, Helena, e la sposa, allevando Calò come fosse suo figlio. Insieme avranno un loro bambino, Kevin, e i due cresceranno serenamente, nella convinzione di essere fratelli.
La maestria di Alajmo, in queste pagine, si avverte soprattutto nella capacità di rendere quasi filmicamente, attraverso una ideale macchina da presa, la vita quotidiana della famiglia, fatta di piccole cose semplici. Una serena routine insomma, che prima, a Palermo, i Montana non avrebbero potuto vivere. La narrazione, in alcuni di questi capitoli, si fa cronaca, e dà vita a uno spaccato antropologico a tratti giocoso, in cui attraverso frasi brevi, tutte al presente, l’autore ci introduce direttamente nel focolare domestico, accompagnandoci mano nella mano tra le stanze di una famiglia che ora, solo ora, in un altro Paese, sta vivendo un po’ di tranquillità, e può perfino permettersi il lusso di pensare e dire cose futili:
Calò che impara a gattonare. Franco che s’iscrive a un corso serale di spagnolo. Mela che si rifiuta di iscriversi al corso serale di spagnolo. Calò che impara grossomodo a pronunciare la parola queso, formaggio. Franco che intanto riesce meglio a farsi capire a gesti. Mela che coi vicini non riesce a farsi capire nemmeno a gesti. Calò che assaggia il formaggio. Franco che compra un paio di pantaloni a vita bassa e gambe a sigaretta, scoprendo che gli fanno il culone. Mela che litiga per la prima volta con una vicina, cominciando a gesti e finendo in dialetto siciliano, e pazienza se quella non capisce. Calò che gattona sempre più veloce, guadagnandosi il nomignolo di Schumacher. (p.110)
La raggiunta tranquillità della famiglia Montana sfiora la banalità. Una banalità che fa quasi tenerezza, se pensiamo all’infanzia e alla giovinezza negata di Franco. In Spagna egli trova la possibilità di costruirsi una vita diversa e riprendersi tutto quello a cui fino ad allora aveva dovuto rinunciare. Quando però, a distanza di anni, i retroscena del delitto Montana vengono a galla, Franco viene immediatamente arrestato. Arriva il conto da pagare, è il passato che ritorna. Calò, scoperta la verità sulle sue origini e sulla sua famiglia, è sconvolto, accecato dalla rabbia. Quello che cerca è la vendetta, una vendetta trasversale che, colpendo Kevin, punisca Franco per averlo privato dei veri genitori. Tutto nella sua testa sembra orientato all’omicidio, un omicidio che possa riscattarlo dal suo senso di frustrazione, chiudendo il cerchio di violenza innescato nella sua famiglia.
Il lettore accompagna Calò nel suo errare, fisico e mentale. Ne segue i ragionamenti, ne avverte l’ansia, mascherata da cinico autocontrollo. Kevin, bendato con la scusa di un gioco d’avventura, non avrà forse nemmeno il tempo di capire. A lui il compito di contare fino a sessanta. Questa elucubrazione è quindi apparentemente lunga e tortuosa, ma si articola nel corso di un minuto. Un minuto per decidere cosa sarà della sua vita e di quella del bambino. Calò vaga col pensiero, scandaglia le più remote pieghe della sua anima. Guarda l’abisso dentro di sé. Arriva a sporgersi, è magneticamente attratto da quello che può succedere cadendovi dentro. Alajmo tratteggia sapientemente questa sequenza interiore, scandita dalla conta:
Assapora il potere assoluto che è in condizioni di esercitare sulla vita di una persona. Gli piace molto perché è totale, nei confronti dell’ex fratello. Può vendicarsi senza difficoltà, senza nemmeno doverlo guardare negli occhi. Basta un primo colpo ben assestato, e gli altri serviranno eventualmente a completare il lavoro […]. Afferra il punteruolo con la desta.
– …Undici, dodici, tredici, quattordici…
È una bellissima sensazione: armato, un passo alle spalle di una creatura inconsapevole. Di più: fiduciosa. Kevin si fida di lui. Non può nemmeno concepire un epilogo come quello che lo aspetta. (p.285)
Nel corso di quell’inarrestabile minuto l’autore con grande abilità dà voce alla coscienza del protagonista. Mette in luce un flusso di pensieri articolato, ma ad un certo punto la direzione di questi pensieri sembra cambiare. Inizia a rischiararsi una possibilità ulteriore, un motivo per continuare la propria esistenza diversamente, non compromettendola con un’azione estrema come quella:
Forse si riconcilierà con la nonna, probabilmente con Helena. In fondo quelle persone sono state la sua famiglia per molto tempo. Magari un giorno incontrerà da qualche parte Franco, e bisognerà trovare qualcosa da dire, e poi stabilire una reazione da opporre alle sue scuse. In questo momento è inconcepibile poterlo perdonare, ma fra qualche anno magari le cose saranno cambiate. Di qui ad allora si sarà messa di mezzo la vita. (p.289)
In questa meditazione zigzagante Calò, dopo aver esplorato le oscurità del suo Io, ripensa alla sua famiglia, al suo cane, tentando di proiettarsi nel suo incerto futuro. Gli si pone davanti una vita difficile, certo, ma pur sempre una vita da vivere. Forse può anche arrivare a perdonare Franco, in un futuro lontano, chissà. I sessanta secondi che si è dato a disposizione scadono. Il romanzo si conclude. Non sappiamo con esattezza se al bivio davanti a sé Calò abbia scelto di non macchiarsi della stessa colpa di Franco. Possiamo immaginarlo. Possiamo immaginare che abbia spezzato la catena, rifiutandosi di fare da anello di congiunzione fra due sciagure.
Il romanzo inizia con due ragazzini che camminano tenendosi per mano su una strada diritta, nella Spagna del sud. Sono Calò e Kevin. Il piccolo parla ininterrottamente al fratello maggiore, guardandolo ogni tanto con occhi di ammirazione, mentre lui è immerso in altri pensieri. Se crediamo al ripensamento di Calò, quei due ragazzini ai margini della strada starebbero facendo ritorno a casa, dopo la parentesi del gioco d’avventura. Con grande efficacia narrativa ed una ingegnosa chiusura ad anello, Alajmo avrebbe reso inaspettato ed enigmatico il finale, dandoci però il prezioso suggerimento contenuto nell’incipit. Un fotogramma posto ad apertura del romanzo che potrebbe ricongiungersi con la parte finale, appagando la speranza del lettore.
Alajmo, in questo ultimo capitolo sapientemente giocato sul crinale del dubbio e dell’introspezione interiore, sembra indicarci un’alternativa. I propri demoni si possono combattere, se solo se ne ha il coraggio e la capacità, ma anche la possibilità, come nel caso di Calò. Pur trovandosi in una situazione in cui è facile cadere, la sua capacità introspettiva, il ricordo dell’ambiente familiare e la capacità di soppesare le conseguenze delle proprie azioni potrebbero aver avuto il sopravvento. Sempre accettando per vera quest’ipotesi, è come se l’autore volesse ricordarci che la parte oscura di noi è sempre in agguato, ma la rassegnazione tipicamente siciliana, di cui la vita del Borgo è estrema sintesi e rappresentazione, può essere mitigata o del tutto annullata.
Franco, nel momento in cui si è trovato davanti alla scelta di uccidere suo fratello, non è riuscito togliersi di dosso quell’ancestrale e indomabile desiderio di vendetta, e tantomeno a trovare una soluzione alternativa alla giustizia fai-da-te, suggerita dal signor Pino. Alajmo non lo giudica, per lui forse c’è solo compassione. Emerge dal suo personaggio quel dolore dei carnefici tanto caro a Carver, l’autentico Carver, non quello mutilato oltremisura da Gordon Lish. Calò, invece, è ancora in tempo, e il suo non iterare l’errore, forse, affonda le radici proprio nel contesto familiare e culturale in cui è cresciuto, un contesto che gli ha fornito gli strumenti per costruirsi una diversa architettura del pensiero.
In questo romanzo, che potremmo a buon diritto definire un ‘noir mediterraneo’, al contrario del Kurtz di Conrad, uno dei protagonisti si trova di fronte all’orrore ma probabilmente riesce a sfuggirne, e Alajmo, con grande chiarezza, con una prosa semplice, lineare, quasi cronachistica nei punti in cui ci informa delle attività quotidiane della famiglia, mette in scena un dramma umano e sociale mostrandoci quasi il volto di due uomini, Franco e Calò, in preda ai propri istinti e alle proprie passioni. Ma, forse, a salvare Calò dall’oblio è il contributo non secondario fornitogli dalla propria cultura. Una cultura in cui non ci si abbandona al fatalismo e all’ineluttabilità degli eventi, ma in cui l’autocoscienza e la capacità di discernimento giocano un ruolo attivo nella determinazione del proprio destino. Del resto, sarebbero le stesse parole di Alajmo a confermarcelo. Alla domanda di come mai avesse scelto la Spagna come ulteriore luogo d’ambientazione del romanzo, luogo che non è mero sfondo, ma evidentemente esso stesso protagonista, lo scrittore risponde:
Mi interessava mettere a confronto due sud. A parità di condizioni climatiche, sociali e storiche (anzi, in Spagna la dominazione araba durò molto più a lungo) nella Spagna del sud non esiste questo senso di rassegnazione al destino e al sottosviluppo. Il destino del sottosviluppo che noi in Sicilia conosciamo bene (cfr. Letteratitudinenews)