Lug 24

Palermo, una città di storie terribili e meravigliose

(di NATALIA LIBRIZZI)

Eccomi all’aeroporto Falcone e Borsellino. Trattengo a pieni polmoni l’odore salato del mare e, mentre con lo sguardo accarezzo le coste sinuosamente rocciose della mia isola, la malinconia irrompe come vento di mezzogiorno a primavera. Ma è un attimo perché già butto fuori il catrame, spengo la sigaretta come placo la mia emozione.

Saluto nervosamente i miei genitori. Sbuffo perché “prima me ne vado, prima arrivo”, penso. Superati i controlli, interrompo il timido giro su me stessa perché il grandangolo dei miei occhiali dice che se ne sono già andati via. E così accolgo il senso di voragine. Ingoio, insieme al rospo, quell’altro pezzo di malinconia che mi rimane.

Ho tredici ore di viaggio davanti a me e devo scrivere un abstract. No, non devo andare a Miami. La destinazione finale è un altro indirizzo di casa, un’altra città che conta soltanto centotrentamila abitanti. 69 Boulevard Tonnellé, 37000, Tours – Francia. Due volte Bagheria e un decimo di Palermo. “Insomma, un pirtusu”, commenta la signora che mi siede accanto. E non ha tutti i torti a pensarlo.

Intanto sono atterrata a Linate e ho scritto quell’abstract. Ho ancora sette ore di viaggio da affrontare e sono sempre una dottoranda non borsista – iscritta al terzo anno del corso di Dottorato in “Studi letterari, filologici-linguistici e storico-culturali” (XXXII ciclo) presso l’Università degli studi di Palermo –, che sta andando a Tours. L’anno scorso, invece, mi trovavo a Grenoble. Le sue montagne innevate sono il bellissimo ricordo di un attimo che è già passato. A ogni modo, provo a chiamare la mia tutor per avere un suo parere su quelle milleduecento battute e, mentre mi parla, penso che sia davvero una donna molto paziente perché è sempre pronta a discutere con me ciò che scrivo. Mi ha pure augurato “buon rientro!”. “Buon rientro?” penso io. Già, lei sa sempre mettersi in sintonia coi cambiamenti.

Sono appena salita sul pullman. Devo ancora affrontare cinque ore di viaggio e comincio a essere stanca. Ho lasciato che fosse la terra ad accomodarsi intorno alle mie radici. Ho lasciato che partire, tornare, uscire e rientrare diventassero consuetudini regolari in cambio di un futuro migliore. Se non fossi partita, non avrei portato il mio progetto di ricerca al livello di avanzamento nel quale è oggi e non avrei mai creato una edizione digitale image based del “doppio” Sempione con il modulo della TEI-P5. Chi lo avrebbe mai detto! Scoprire un rifacimento di alcuni capitoli del Sempione strizza l’occhio al Frejus e riportarli alla luce da una materia testuale disorganica dal punto di vista archivistico e tormentata nella stesura. Proprio il modulo , infatti, ha permesso di rappresentare, con la possibilità di riordinarla, la geografia dell’affastellata Unità Archiviale e dell’affannosa scrittura vittoriniana, costantemente disseminata in più luoghi della pagina. Attraverso la scelta di questo linguaggio informatico, riusciremo quindi a visualizzare i facsimili dei testimoni e la loro successione, in modo da seguire il processo di composizione dell’opera letteraria. E penso che, se non ci fossero state la mia tutor, Domenica Perrone, docente di Letteratura italiana contemporanea, e il mio Virgilio ‘digitale’, Elena Pierazzo, docente di Digital Humanities, a supportarmi e sostenermi in questo viaggio conoscitivo, nulla di tutto questo sarebbe accaduto. Penso anche al titolo della tesi, “Elio Vittorini. Il doppio Sempione e Il barbiere di Carlo Marx. Genesi di due romanzi incompiuti”, e mi dico che devo finire di scrivere almeno le prime centocinquanta pagine entro fine maggio. Mi agito. Per rilassarmi, guardo fuori dal finestrino: il paesaggio è morfologicamente diverso: al primo castello penso al cartone animato La bella e la bestia, al secondo, invece, mi sono già abituata e riconosco la strada di quella che, almeno per ora, è casa mia.

E allora ripenso a cosa è cambiato in questi quattro anni, da quando cioè mi sono impegnata ad approfondire le discipline informatiche e la loro applicazione alle scienze filologico-letterarie. Effettivamente, squadernando gli eventi del mio passato, tutto ciò che è accaduto non sarebbe accaduto se non mi fossi formata a Palermo, in quel Corso di Studi, oggi soltanto “Italianistica”, che continua a promuovere e a incoraggiare la cooperazione tra le due discipline.

“Altro che classifiche!”, mormoro, tra me e me. La mia Università è stata una delle poche a rispondere alle improrogabili e pluridirezionali urgenze di innovazione di una società 3.0 e lo ha fatto proponendo saperi nuovi che si sforzassero di interpretare la complessità della realtà odierna. Nella convinzione che, come ama dire la mia tutor, «progettare, organizzare è l’esito della ricerca costante di un contatto col mondo», a rispondere a tali stimoli non poteva che essere la Cattedra di Letteratura italiana contemporanea.

Questo insegnamento, naturalmente vocato al presente, ha proiettato noi studenti in uno spazio di riflessione pluridisciplinare, in cui interpretazione letteraria e scienza informatica sono divenuti uno spazio di conoscenze condivise per una più completa comprensione dei testi e del loro dialogo con la contemporaneità, lanciando un’importante sfida metodologica per il Sud Italia.

Nella convinzione che le competenze scolastico-universitarie e, a fortiori, quelle sviluppate nel mondo della ricerca, non possano restare estranee al rinnovamento epistemologico che si è attivato in tutti i campi della conoscenza (pena altrimenti un terribile spreco di risorse!), il Corso di Studi di “Italianistica” ha reso i suoi studenti protagonisti attivi e consapevoli dell’attuale sistema mediale, offrendo loro la possibilità di consolidare metodi tradizionali per apprenderne di nuovi, come quelli della Filologia digitale. Tale innovazione favorirà, certo, un diverso accesso al mondo del lavoro degli umanisti che, con un più aggiornato bagaglio di conoscenze, potranno contribuire alla costruzione di un corretto ecosistema dell’imperante ambiente digitale in cui tutti siamo ormai profondamente immersi.

A partire dalla tenacia e dall’impegno di un giovane Dottore di ricerca, Luciano Longo, a Palermo si è cominciato a formare un agguerrito gruppo di studiosi in Digital Humanities, unico caso nel Meridione italiano. I contatti internazionali da lui avviati nel corso del suo Dottorato hanno portato me e una mia collega Alba Castello a intraprendere un percorso simile e ad andare all’estero per specializzarci, ognuno secondo le esigenze specifiche del proprio progetto di ricerca, in un campo diverso delle DH. Il percorso della Castello, formatasi anche lei tra Italia e Francia con un Dottorato (‘sempre’ senza borsa!) in co-tutela internazionale, si è appena concluso brillantemente con un’edizione critico-genetica digitale della raccolta poetica di Lucio Piccolo, intitolata Plumelia. La combinazione del parallel-segmentation method e del location-referenced method le ha permesso non solo di sperimentare modalità innovative, dinamiche e interattive di rappresentazione del testo poetico, codificandolo in un linguaggio elettronico (l’XML-TEI), ma anche di favorire l’instaurassi, per usare le parole di Ezio Raimondi, di un «colloquio sistematico, erudito e imprevedibile» con l’opera poetica nel suo costituirsi.

Tuttavia, tale patrimonio di competenze non è rimasto chiuso tra le mura dello studio 1.11 del primo piano dell’ex Facoltà di Lettere e Filosofia, oggi sede del Dipartimento di Scienze umanistiche. Nel mese di marzo, infatti, la nostra Università ha ospitato la prima Winter School (#DHWSPA19) di Digital Humanities in Sicilia e una delle primissime iniziative del genere nel Meridione d’Italia. Così, Palermo, confermando la sua vocazione di ‘città aperta’, ha accolto relatori di calibro internazionale e trenta corsisti provenienti da tutto il mondo (selezionati tra le settanta e più domande pervenute al Comitato scientifico). Grazie al nostro Dipartimento di Scienze umanistiche e all’AIUCD (Associazione per l’Informatica Umanistica e la Cultura Digitale), partner forte della Winter School, si è venuto a creare un virtuoso clima di vivace scambio intellettuale, cui si sono uniti anche il Dipartimento di Culture e società e il prestigioso Centro di studi filologici e linguistici siciliani.

Intanto, mentre le luci della Gare cominciano a rifrangersi sui sedili ‘anchilosati’ dei miei compagni di viaggio, penso nuovamente al mio caro Vittorini. Aveva ragione nell’affermare in un suo articolo giovanile, Gloria di un genere, che scrivere diari fosse salutare per la nostra mente. Non a caso, in queste mie note, grazie alle quali ogni cosa si incasella al posto giusto, risiede l’intima fibra della mia vita. Adesso riesco a comprendere come sia del tutto naturale ‘rientrare’ in terra straniera accompagnata dall’autore dei miei studi, lo scrittore progettuale e agitatore di idee che, per anni, si è battuto in favore di una “nuova cultura”, di un modello di umanesimo democratico e partecipativo. Un modello che oggi Palermo, emporio delle genti, contrariamente a un’Italia e a un’Europa sempre più murate ed impaurite, vuole in tutti i modi fare suo.

Parafrasando Anatole Broyard, che pure si riferiva ad altri luoghi, Palermo è una città di storie terribili e meravigliose. Tuttavia, bisogna leggerle come si legge un bel romanzo, ovverosia «lasciandosi istruire».

About The Author