Set 25

Diario palermitano. Fermi sulle scale mobili

(di FEDERICA DI SALVO)

Nata e cresciuta a Palermo, ho vissuto due anni a Torino, due a Treviso, e qualche mese a Praga. E poi ho scelto di tornare.

Nel tempo trascorso lontano da qui non sono mai riuscita a smettere di parlare della mia terra. Bene o male che fosse. E ho scoperto che tutti coloro che raccontavano di essere stati a Palermo se ne erano innamorati. E non si trattava del solito “mi è piaciuta la città”, quel tipo di entusiasmo a tratti anche veemente che ho avvertito nelle decine di persone con cui ho condiviso racconti di viaggi. Era amore. Mi sono chiesta, allora, cosa fosse questo quid capace di scatenare una passione tanto irruente, quello stesso qualcosa che mi aveva spinta così prepotentemente a tornare. Al di là dei soliti “il clima, il mare, il cibo, le persone”.

All’improvviso mi sono ritrovata a pensare alle scale mobili. A Torino, a Milano, a Praga, perfino a Roma, sulle scale mobili è un frenetico brulicare di gente che corre su e giù, la corsia di destra lasciata inderogabilmente libera per consentire al flusso in corsa perenne di raggiungere la propria meta nel minor tempo possibile. E mi sono ricordata che, prima di trasferirmi per la prima volta fuori da Palermo, io non concepivo nemmeno l’idea che ci si potesse muovere sulle scale mobili. Si lascia che ti trasportino, pensavo. Ricordo quel primo spintone e l’espressione sospesa tra fastidio ed esasperazione del ragazzo in camicia a righe e messenger Piquadro che cerca di farsi largo in quella corsia che io avevo indebitamente occupato, ignara della sua funzione.

Quel ragazzo non capiva come potessi restare lì, in attesa, proprio come io non comprendevo la sua ansia. Fuori da questa città, nell’accelerazione vertiginosa del mondo, nella prospettiva economica totalizzante della società contemporanea, il tempo è denaro, è contabilizzato, e tutto è vissuto in funzione di uno scopo: tutto il tempo che non viene dedicato all’utile, alle cose che crediamo di dover fare, è sentito come sprecato. Giuseppe Montesano, in un prezioso libretto intitolato “Come diventare vivi”, sostiene che il fine sia diventato il mezzo, e che non sia più l’economia al servizio della felicità degli uomini ma l’infelicità degli uomini al servizio dell’economia.

E, dopo quel primo spintone, tra le deadlines di Praga e Torino e quella “Silicon Valley italiana” dove ho lavorato in comunicazione in Veneto, io questa realtà l’ho vista, l’ho vissuta, ed è esattamente quello da cui sono scappata. E sono tornata perché invece ancora qui, a Palermo, stiamo fermi sulle scale mobili. Ancora abbiamo “tempo da sprecare” in cose “inutili”, come può essere leggere o addirittura rileggere un libro semplicemente perché ci è piaciuto, perché crediamo che abbia ancora qualcosa da dirci, e non per velleità narcisistica e necessità accumulatoria; o come può essere, come mi è successo l’altro giorno con alcuni colleghi, decidere di vedersi per lavorare ad un compito e ritrovarsi a trascorrere l’intera mattinata semplicemente a chiacchierare, a conoscersi, a scambiare idee. Ancora, qui, riusciamo a goderci il tempo, invece di monetizzarlo.

Ed è vero che questo porta anche a tragiche conseguenze negative: perché, fuori dai luoghi comuni, davvero regna quell’inerzia che fa sì che non funzionino quei tanti aspetti della città che conosciamo bene e che è di ostacolo all’attivazione di un cambiamento. Ma, d’altra parte, credo che qui siamo ancora in tempo perché il cambiamento si attui in una direzione diversa rispetto a quella verso cui il padre capitalismo ci sta conducendo.

Marta Nussbaum, in “Non per profitto”, parla della necessità di recupero di una dimensione umana. È vero che Palermo in questi anni ha subito dei cambiamenti grazie ai quali ha migliorato tanti aspetti di sé, ma io non sono sicura che mi piaccia la direzione in cui stanno andando questi cambiamenti, che sembrano adeguarsi al macrosistema dominante più che muoversi preservando i sopracitati valori. Ma, lo ripeto, qui siamo ancora in tempo. Siamo in tempo perché il nostro tempo umano si ribelli al tempo economico del sempre più esteso Occidente.

Io credo che questa via alternativa esista, che non siamo fatalmente condannati a un nuovo 1984, a far parte di un meccanismo a cui ci adeguiamo anche se non ci sta bene perché crediamo sia l’unico possibile. E la mia strada è questa: prendere un respiro, guardare all’altro che mi sta a fianco e cercare di scoprirlo, invece di tenere la testa bassa in direzione del mio obiettivo, l’attenzione rivolta solo su me stessa. Stare ferma sulle scale mobili.

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