(di CLAUDIA SPATOLIATORE)
Palermo è una città che ha sempre avuto bisogno dell’altro per definirsi, per capirsi e apprezzarsi, riuscendo, però, a non stigmatizzarsi mai, a non darsi mai una identità univoca. Proprio perché l’univocità non le appartiene. Gesualdo Bufalino ha detto che «soffre, la Sicilia, di un eccesso di identità». E di questa esuberanza facciamo esperienza, da sempre, quotidianamente, a livello individuale e collettivo.
Io, – nata negli Stati Uniti, con nonna tunisina e nonno toscano, e cresciuta e formata a Palermo, seppur siano le mie origini sicilianissime ma con esuberanti intromissioni di cultura franco-araba e della più poetica (mi piace viverla così!) vernacolarità aretina –, plurale come lei, mi sono chiesta quanto senta di appartenere a questa città, a questa Palermo ‘una, nessuna e centomila’.
Il sentimento condiviso è un sentimento di contrasto. Un vincolo di Odi et Amo, un amore che in qualche modo ti incatena. Perché, sì, Palermo apre i porti, ma le porte è solita chiudertele.
La mia generazione, pasciuta dall’idea meravigliosa di essere cittadina del mondo, di appartenere a ogni luogo, specchio della non appartenenza a nessuno, non ha mai percepito – e lo dico a malincuore! – Palermo come città del futuro. Perché, come è ovvio, c’è futuro dove c’è progettualità, e c’è possibilità di progettualità dove c’è lavoro. Non è un difetto di percezione, non è un’incrinatura di pregiudizio: ogni anno, 11 mila giovani emigrano dalla Sicilia. Palermo esperisce la mancanza di qualcosa o di tutto, di qualcuno e di tutti, quotidianamente.
Mi armo di brevitas. Siamo una delle regioni con il maggior tasso di migrazione interna, con una stima di un milione e 147 mila siciliani in meno entro il 2065. Una città a crescita economica zero (perfettamente in linea con le tendenze del Paese!) e seconda, in Italia, per numero di famiglie indigenti.
Il gusto mediatico di elargire classifiche e statistiche come noccioline, perché un numero tira l’altro, qui, temo possa cedere il passo alla sapidità dei grandi titoli e possa indurre a una loro vorace assimilazione, che impedisce, così, di assaporarne del tutto il senso.
Sì, la preminenza accordata alla cultura, fautrice della rinascita della città, è stata una scommessa vinta. Una piccola prima rivoluzione, di cui è impossibile non andare fieri. Un atavico ‘pensare umanitariamente globale e agire locale’, la nostra ben nota politica dell’accoglienza, di cui Palermo si fa paladina. Ma, in certi momenti, potrebbe rischiare di cadere nella retorica dell’accoglienza, e depoetizzarsi.
Ecco, mi piacerebbe che, fuori da ogni retorica, perno del dibattito politico e mediatico potesse anche essere come la città, questa meravigliosa Palermo plurale, inclusiva e non refrattaria alle sfide, reagisca e resista a questo depauperamento de facto.
La mia generazione credo chieda questo alla città. Le chieda di diventare una Fimmina ribelle (cito il suggestivo titolo del libro di Lirio Abbate) che scommette sul suo capitale intellettuale, affinché finalmente si resti qui, senza alcuna remora.
E se con una mano incrocio le dita affinché, stavolta, nessun buon proposito sia vano o cada in prescrizione, con l’altra mi unisco alla voce di Bufalino, e non smetto di contare le tante, altre, esuberanti Sicilie che ci fanno vivere l’eccedenza come ricchezza, indagando costantemente i dubbi che mossero il suo disarmante «non so se sia un bene o sia un male».