Ott 25

Insolita evasione – Diario palermitano

(di GIORGIA PRESBURGO)

Scorgo dal finestrino un cartello stradale che segnala l’ingresso in una frazione di Custonaci: Purgatorio. Resto sbalordita perché ho percorso quella strada fin dall’infanzia e  quel tratto mi era sempre passato inosservato, forse a causa della mia abitudine di sonnecchiare in auto da passeggera. Purgatorio, un nome parlante: come se ci si stesse addentrando in un limbo, che chiude le porte dell’Inferno che si lascia alle spalle e spalanca l’arco di un Paradiso chiamato San Vito Lo Capo.  San Vito è un paese sul mare in provincia di Trapani, invaso da molti turisti. Per i palermitani San Vito è una tradizione. Per alcuni in particolare lo è dal 13 al 15 luglio: i giorni del festino di Santa Rosalia, protettrice della città.  Sono nata a Palermo e ho sempre vissuto a Palermo, tuttavia non ho mai partecipato ad un festino. Da quando ho memoria, la tradizione familiare è sempre stata andare a San Vito. Il weekend nel trapanese nei giorni della Santuzza è quasi un obbligo, anche se il 15 cade di mezzo alla settimana e dunque si prolunga la vacanza.

Sarà che mio padre è originario dell’entroterra siciliano e il festino non lo sente per niente, sarà che il rapporto con la religione e le feste religiose non è proprio ben definito. Fatto sta che io evado dal festino, mentre i palermitani DOC si immergono tra luminarie dai colori contrastanti dal dubbio gusto, babbaluci e luppina, fuochi d’artificio, processioni, spettacoli, folklore. Nel frattempo io mi godo il solito panorama dalla mia sdraio, a cui per nulla al mondo rinuncerei: il faro luminoso a sinistra, la montagna sempre annebbiata da qualche nuvola a destra, il mare cristallino di fronte. Attorno tanta gente: stranieri, siciliani, ma soprattutto miei concittadini. Si riconoscono subito: quasi mi diverto a scovarli. E infatti, accanto a me c’è un signore sulla settantina che racconta ad un san vitese della tradizione del festino, mentre a mare un bambino si diverte a giocare con le onde con il fratello e grida “pigghiala!”, con una pronuncia inconfondibilmente palermitana stretta, strettissima. Una signora discute della scuola della figlia:  alla Magione, dove abitano, non ci sono scuole “all’altezza”. Il marito legge un giornale, il Giornale di Sicilia. È lo stesso quotidiano che mio padre compra da una vita la domenica e quando va al mare. Leggo lo speciale sul festino: quest’anno il miracolo di Santa Rosalia è un po’ particolare. Si dice che ci libererà dalla munnizza, che come ogni estate ha sommerso ogni angolo di Palermo: Palermo bene, centro storico, periferie. La munnizza non fa distinzione di ceto. Tutti lo pensano e lo scrivono come se fosse vero, come se il miracolo accadesse veramente: il deus ex machina che risolve i problemi senza occuparsene davvero, perché poi nessuno sembra in grado di trovare una soluzione efficace. Nel giornale del 16 luglio torna tutto cupo come prima: si legge con dispiacere che la munnizza c’è sempre, neanche la santuzza c’ha potuto!

Faccio un giro sui social nelle principali pagine di informazione e cronaca palermitana. Nei commenti è solo il sindaco ad essere messo alla gogna: “troppo impegnato a pensare all’immigrazione”, “ad organizzare gay pride”, “a importunare gli automobilisti con ZTL”. Mai nessuno che si faccia un esame di coscienza: mai nessuno che pensi che il personale è politico e che anche piccoli singoli gesti possono cambiare il volto della città.  E’ la città delle colpe altrui, mica delle responsabilità proprie!

Da palermitana di nascita, è forse un affronto negare il festino a priori, senza viverlo per davvero: so cos’è per sentito dire, per le incessanti pubblicità, per le dirette televisive. Perché irrimediabilmente è un evento che muove la città.
Quest’anno sono capitata per caso proprio in mezzo alla processione al rientro da San Vito. Mi aspettavo più affluenza, ma era già l’ultimo giorno di festa dei cinque solitamente previsti. I palermitani preferiscono la vucciria dei festeggiamenti ebbri e con i fuochi d’artificio. Erano pochi fedeli, probabilmente quelli autentici. Di quelli che si fanno l’acchianata a Monte Pellegrino in ginocchio e a piedi scalzi il 4 settembre o che lasciano la banconota gialla al santuario insieme alla reliquia dell’organo che la santuzza ha salvato loro o a persone care. Tutti gli altri è come se rimanessero perennemente immobili lì, sotto il carro addobbato ogni anno, quando per una volta, invece di abbanniare (gridare, ndr) contro Orlando, ritrovano finalmente la pace. Orlando urla ripetutamente “Viva Palermo e Santa Rosalia!” e la folla in coro risponde entusiasta.

Allora, proprio in quell’istante, in quel solo istante, è La Palermo Felicissima.

Qualche minuto dopo e ancor più l’indomani, quando le grazie della santuzza sono dimenticate, i miracoli non pervenuti e ci si rivede il successivo 14 luglio, tornano ad essere tutti cornuti e vastuniati, da una città che regala gioie proporzionate a tutti i suoi dolori. E io, guardando le immagini al telegiornale, mi riprometto ogni volta: “Il prossimo anno, giuro, che ci vado!”.

 

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