Mar 29

Diario in tempo di… Corleone, 25 marzo 2020

Inauguriamo con queste note il “Diario in tempo di …”.
Preferiamo non aggiungere alcun sostantivo… tempo di guerra? di coronavirus? o di emergenza? Nessuna di queste parole ci piace come insegna, anche se, in qualche modo, le sottintendiamo. I puntini stanno qui, invece, alla ricerca di una parola nuova.
Quest’anno il corso di Letteratura italiana contemporanea è dedicato a Elio Vittorini e all’importanza che la parola conversazione ha avuto nella sua opera. Se “conversazione” etimologicamente significa (cum + versari) “dimorare con”, ma anche “aggirarsi con” (versari < vertere), essa può allora, per una sua intrinseca affinità, includere anche la “conversione” (cum + vertere), la trasformazione.
Con l’auspicio che cominci un tempo di positive trasformazioni e rinnovamento che veda protagonisti soprattutto i giovani, il sito Lo Specchio di Carta aggiorna la sezione “Diario palermitano” per restituire nuove testimonianze di e su questo nostro sofferto presente.

 

(di GIUSY FERRARA)

Si plures habebit sententias metus,
nihilominus in hanc partem potius inclina
et perturbare te desine ac subinde hoc in animo volve
Seneca, Epistulae morales ad Lucilium, II, XIII

Corleone, 25 marzo 2020.
Piove sulle strade, dentro le case e nell’anima. Eppure non mi sento l’inverno. Mi giro, mi rigiro nel letto. Mi alzo, mi faccio il segno della croce: anche oggi ci sono.
Leggo sul telefono delle notizie, dei messaggi che portano vicinanza, amore. Preparo il tè caldo al limone senza zucchero e ascolto mio padre e mia madre. Quanto è premurosa e piacevole la loro compagnia!
Penso alle nonne, anche loro barricate in casa: le tengo strette a me attraverso le telefonate. Penso al mio amore lontano, sempre vicino.

Mi dirigo verso lo specchio. Da qualche giorno è diventata mia premura e mia occupazione osservare la mia cicatrice per vedere se è lì al suo posto, se sta bene dov’è che deve stare. I punti di sutura ancora vivi sembrano i caratteri del telegrafo. A tratti questi piccoli tratti neri impressi sulla mia pelle mi sembrano semi di papavero, da cui spero fiorisca qualcosa di buono, al di là del timore di vedere trasformata la mia vita in un racconto incompiuto. Quanto mi atterrisce questa mia giovinezza! E fuori dalla finestra scorgo i tetti bagnati, i comignoli fumanti pronti ad avvolgere il torpore della carne e delle ossa. Così come ogni giorno, dopo aver preso ed abbracciato il limite che è in me e fuori da me, mi metto in marcia.
Controllo l’ordine, “Niente di nuovo sul fronte occidentale” come direbbe il mio sgangherato professore di filosofia del liceo. Nessuna spedizione di libri in vista.

Mi siedo alla scrivania e osservo le mensole: una pienissima di libri, l’altra piena, l’altra semivuota. Quante cose ho ancora da imparare! Sistemo gli appunti. Riordino le idee. Va via per qualche istante la corrente elettrica. Mi annoio, mi lascio trasportare dai pensieri fantastici, come fantastici erano i bollori del mio carissimo Vittorio Alfieri. Mi consolo: “Ce la faremo! Supereremo anche questo momento di prova”, mi dico. Le ore proseguono in un susseguirsi di affetti, amici, amore che entrano nella mia stanza attraverso lo schermo del computer o del telefono. Che strana la vita di questi giorni! Eppure stare in casa mi dà un senso di sollievo, mentre attendiamo un tempo migliore.

Oggi è il Dantedì. Finalmente un giorno tutto al sommo poeta dedicato. E Virgilio e Ciacco e gli eterni Paolo e Francesca e Ulisse e nomi e tanti altri nomi ancora risuonano nella testa e preparano la strada al fulgido Paradiso, mentre le mura di questa nuova Dite ancora non ci abbandonano. Accendo il computer: tra poco inizia la lezione. La connessione c’è, penna e quaderno ci sono. Mi discosto per un’instante per la recita comunitaria del Padre Nostro. Si inizia! Ah Elio Vittorini! Da qualche giorno ho preso a conoscerti un po’ meglio. Sei schietto, impegnato, mi piaci! La lezione, come una trireme ateniese, viaggia veloce tra le increspature delle nostre giornate, naviga veloce sullo schermo e ci tiene tutti nella stessa stanza, spazio pieno di vita, di calore, di scoperta, di bellezza. Per un po’ ci dimentichiamo dei giornali paurosi, dei numeri che sono vite spezzate, non soltanto numeri.

La letteratura salva? La letteratura serve? Riflettiamo sul senso delle parole, sul valore della conversazione, dell’oggi, del confine. Già il confine, dal latino cum finis: essere confinati insieme nelle nostre stanze e al tempo stesso mirare lo stesso orizzonte, mirare allo stesso fine; essere confinati per volere di un’altra dittatura, di un altro fascismo che porta il nome di un virus potente, essere confinati non a Lipari, non a Ventotene o a Ponza, ma nelle nostre case, desiderosi di vita, eppure tenaci nell’obbedienza.

Pranzo: sono da poco passate le 14:00. A tavola ascolto i miei genitori, ma distratta, presa come sono da altri pensieri, i libri, i dubbi legati alla stesura della tesi. Prendo un biscotto a fine pasto e tutto si raddolcisce, compresi i miei pensieri. Un altro paio di messaggi e mi lascio avvolgere dal tepore della coperta. Ascolto il rumore vorticoso della lavatrice, posta nella stanza di fianco alla mia che fa da contrappunto al sovrumano silenzio quasi sacro dell’esterno.

Guardo i profili delle montagne, le strade deserte ed è come se la mia città dormisse in attesa della primavera. Giunge da lontano al mio schermo tutto il mio amore e mi rallegro un poco. Riprendo a leggere, a studiare, in un susseguirsi piacevole e affannoso di parole, parole da masticare e ricordare, parole da mettere sul cuore per proteggerlo dal male che ci attanaglia.

Ore 18:00 circa, l’ora del bollettino di guerra. Ancora una volta il giorno che sta per sfiorire dovrà seppellire i propri morti, crudelmente privati perfino dell’estremo saluto. Di colpo l’aria cruda e malarica raccontata dal nostro Vittorini sembra tornare a farsi viva, penetrando le pareti lacere delle nostre fortezze, dei nostri polmoni. Mi chiedo quando rinascerò, quando rinasceremo.

Ritorno alle parole e mi metto all’ascolto di una canzone, una tra le mie preferite: Windows in the skies degli U2, un omaggio alla vita che esplode tutto nelle frasi del ritornello: «Oh, can’t you see what love has done? /What it’s done to me?». Vedo che l’amore fa ogni giorno una corsa contro il tempo nelle corsie degli ospedali, vedo l’amore sui volti dei medici, degli infermieri, e di tutti quanti gli operatori sanitari, quei volti segnati dalla stanchezza, dal dolore, dall’orrore insopprimibile. Vedo l’amore di don Giuseppe Berardelli, arciprete di Casnigo, che sceglie di donare il respiratore che gli avrebbe salvato la vita ad un giovane per salvargli la vita. Vedo l’amore e l’impegno di tante comunità piccole e grandi che si stringono in una «social catena», come gli energici danzatori dipinti da Henri Matisse.

È sera e dopo l’amorevole pasto gli affetti cari dei libri e delle persone lontane tornano a pervadere benigni la stanza, la casa. Volge al termine il giorno e così volge al termine questa mia umile pagina di diario, il quale come ogni forma di testo autobiografico rappresenta un’auscultazione formidabile del nostro essere, un «salutare esame» di noi stessi, come annotava il mio carissimo Alfieri nel suo Giornale.
La letteratura salva? La letteratura serve? Salva e serve nella misura in cui ci rende capaci di convertire noi stessi, di migliorarci, di impegnarci attraverso l’uso di parole piene.

Sto per mettermi a letto. Penso ai luoghi, alle persone, alle parole che ho incontrato oggi pur rimanendo nella mia stanza. Osservo la mia cicatrice, mi faccio il segno della croce e penso: anche oggi sono qui e qui voglio esserci tenendomi stretta al petto una sola parola, una parola che sa di speranza.

About The Author