(di MARIA MOSCATO)
Raffadali, 27 marzo 2020.
Le parole… l’unico modo per poterci abbracciare.
Filtra una luce timida, fioca, tendo l’orecchio ma stamattina non mi sembra di sentire l’inconsueto cinguettio cittadino. Da quando la città si è addormentata, dal momento il cui si è zittito il brusio umano, la natura ha ricominciato piano piano a ridestarsi, a riprendersi il suo spazio, e così l’orecchio torna a sentire il melodioso canto degli uccellini.
Apro lentamente gli occhi, mi prendo tutto il tempo che serve, come succede ormai da diversi giorni; mi sto svegliando a poco a poco, stiracchio la schiena, allungo le braccia e piego leggermente le gambe. Ecco che distinguo un suono chiaro: pioggia.
Inizia così questa giornata che sa di immutata domenica, preoccupazione e speranza.
Apro le imposte e inspiro lentamente cercando di assorbire l’aria frizzante, l’odore di pioggia, il suono delle gocce che si poggiano gentilmente sull’asfalto, come se non mi trovassi dentro le mura di questa casa che è ormai diventata una fortezza.
Lancio lo sguardo dalla finestra e non mi faccio domande sul domani, quello che posso vivere è oggi, e va bene.
Comincia così il rito delle abitudini che sono diventate sacre: la colazione, i letti da rifare, la casa da arieggiare. Richiede poche ore che diventano tuttavia per me un esercizio di calma e pace spirituale in cui è possibile rimettere ogni cosa al suo posto, scandite dal mio respiro e dai movimenti sapienti di mia madre.
Penso a cosa avrei potuto fare oggi se le circostanze fossero diverse, se non temessi un nemico tanto invisibile quanto pericoloso. Forse sarei andata a consultare gli antichi, facendo una passeggiata alla Valle dei Templi, immersa in quel silenzio solenne e pieno di suggestioni, di storia, di sacrifici e di responsi oracolari. Forse sarei andata ad ascoltare la voce del mare, distante pochi chilometri da casa mia. Il mare, sì, il mare è la forma di libertà più vera e potente, la forma di mistero più affascinante ed è il posto in cui più mi manca respirare. Ma va bene anche così. Il mio mare personale saranno gli occhi grandi e sinceri di mia sorella, che è ormai diventata quasi una donna ma che a me sembra sempre la stessa bambina immortalata nella foto della sua stanza.
È il momento del nostro incontro, da un paio di giorni a questa parte io e il Principe di Salina abbiamo preso l’abitudine di salutarci in salotto, sulla poltrona, accanto al balcone centrale. Così entro in un’altra storia che finisce per mescolarsi con la mia, indosso gli abiti di Concetta, mi confesso anch’io con padre Pirrone. Comincio a sfogliare le pagine e scopro che anche nei territori di Donnafugata sta piovendo. Don Fabrizio consulta i suoi astri e guarda il suo mondo tramontare lentamente, nobilmente. Chissà come avrebbe reagito al cambiamento del mio tempo, forse avrebbe detto che i suoi astri lo avevano previsto, o forse no.
C’è un’atmosfera surreale: dal cuore di questa piccola cittadina nella provincia di Agrigento non si sente più niente, nessun rumore, nessun suono di vita.
Ma fino a poche settimane fa le strade erano piene di venditori ambulanti che animavano le vie e attiravano a sé gli acquirenti mostrando la loro invitante merce: pesce, pane, frutta, formaggi.
I bambini che tornavano da scuola, le macchine che calpestavano l’asfalto, le vicine di casa che si scambiavano ricette e segreti, ragazzini annoiati che portavano a spasso i loro cani, i bar che attiravano per i loro cornetti appena sfornati, i ragazzi riuniti nei pub.
La vita non si riversa più nel mondo. Sembra di vivere dentro la pagina di un romanzo distopico dal titolo “Pandemia: cambiano le regole”. Queste regole non sono nient’altro che le nostre abitudini, i nostri modi di vivere: gli abbracci spontanei quando ci si incontra, le strette di mano quando ci si conosce, le sere al cinema e al teatro, le passeggiate in gruppo, la spesa con la famiglia. Tutte consuetudini che adesso sono vietate perché pericolosissimo mezzo di contagio.
Allora la città rumorosa, frenetica, indaffarata, indisciplinata diventa silenziosa, calma, composta.
La vita è dentro le abitazioni e: si reinventa un ritmo lento e placido fatto di pazienza e attenzioni.
Così prepariamo il pranzo: il pane è fatto in casa e profuma di tenerezza e amore materno, l’impasto lasciato a lievitare la sera prima è cresciuto, al buio e in silenzio. Spianiamo la pasta per le lasagne: ci consultiamo circa le dosi degli ingredienti e mia sorella lo sa: le ho sbagliate anche questa volta, dice che alla milionesima volta riuscirò ad azzeccarle. Ride, ridiamo. Siamo sospese in un’altra dimensione. Forse, prese dai nostri impegni, dalle nostre vite, dalle scadenze, avevamo dimenticato quanto fosse bello e semplice e rassicurante condividere il nostro tempo. Combiniamo gli ingredienti, inforniamo tutto, ci siamo. Speriamo forse di aver sfornato un antidoto per questo nostro tempo infetto.
Riunite attorno a questa tavola troppo grande, con un posto vuoto che non riusciamo a guardare facilmente, disponiamo le pietanze. Anche oggi, così come da diversi mesi a questa parte, avremmo voluto apparecchiare per quattro, ma siamo solo tre. Indosso la sua vestaglia, mi sta grande: mi cade sulle spalle, è troppo lunga, ma è rassicurante sentire di avere una connessione, fingere di ingannare la morte, credere che esista la possibilità che questo mondo non possa recidere il filo che ci terrà uniti oltre la morte, nonostante la morte.
Consultiamo le notizie, ci aggiorniamo cercando quotidiani on-line, finestra sul mondo, ma le informazioni per adesso sono sempre le stesse, questo non comporta necessariamente il fatto che bisogna lasciarsi sopraffare dai pensieri negativi.
Prendo la chitarra, imparo nuovi accordi, perfeziono quelli che ho già imparato nei giorni precedenti, procedo cercando di imitare la melodia della mia canzone preferita, con costanza, senza fretta. Chiamo i miei amici, geograficamente vicini e lontani, mi assicuro che stiano bene, sdrammatizziamo, scherziamo, ci consoliamo e ci facciamo forza perché “appena ci vediamo dobbiamo salutarci come se fosse festa grande”.
Oggi ho ricevuto un regalo, la mia amica avvia una videochiamata da Cefalù: mi mostra il mare, che da casa sua si vede benissimo, e anche se piove non importa.
Poi alle 18.00 assisto a una profonda lezione e partecipo, marginalmente, a una pagina di storia. C’è il Papa che prega nella piazza deserta. Quello che sta accadendo a San Pietro, e contestualmente nelle case di milioni di persone, è un evento epocale. L’atmosfera in cui il Pontefice è immerso è allo stesso tempo spettrale e suggestiva: piove forte, il crepuscolo è rischiarato dalle braci accese e lui, con il respiro affannato e l’aria assorta, prega per la fine della pandemia e pronuncia la benedizione urbi et orbi, concedendo l’indulgenza plenaria. La sua omelia mi lascia senza parole “la tempesta smaschera la nostra vulnerabilità e lascia scoperte quelle false e superflue sicurezze con cui abbiamo costruito le nostre agende, le nostre abitudini, le nostre priorità”, dice con tono solenne. Continua imponendo una riflessione di altissima caratura morale che non può sfuggire alla coscienza e all’attenzione di chi in questo momento lo ascolta e non può fare a meno di ascoltarlo.
Rimango scossa e assorbita dall’evento e penso che non potevamo continuare a far finta di vivere in un mondo che abbiamo continuato ad ammalare e in cui dovremmo considerarci ospiti e non padroni indiscussi.
Mentre continuo a riflettere compare davanti ai miei occhi un videomessaggio del presidente della Repubblica Sergio Mattarella: per un errore di trasmissione l’ufficio stampa del Quirinale ha inviato ai media un file sbagliato in cui si vedono alcuni fuori onda. Si vede il Presidente fermarsi a metà discorso perché non riesce a leggere, richiama affettuosamente il suo amico Giovanni quando gli dice di aggiustarsi i capelli, ma dichiara di non andare dal barbiere per ovvie ragioni. Ecco che sento il Presidente più vicino a me, mi trovo su una nave in tempesta, ma dentro questa imbarcazione un po’ malconcia non sono sola. Ci siamo tutti, c’è la mia famiglia, i miei amici, il Principe di Salina con i suoi vicini di scaffale, la speranza, la lotta e, chi lo avrebbe mai detto, Papa Francesco e il Presidente della Repubblica.
Cala la sera e la città sembra un film muto. Accenno quasi un sorriso mentre me ne rendo conto e vedo, da dietro il vetro della mia finestra, le luci delle abitazioni altrui. In esse e nel silenzio esterno vedo una resistenza, vedo una comunità che non smette di lottare e che si stringe rispettosa e speranzosa. Chissà cosa succede dentro ciascuna di queste case illuminate, chissà come scorre il tempo per le altre vite, chissà se oltre a tenersi fisicamente distanti, le persone hanno distanziato anche le parole, proprio le parole che sono rimaste l’unico modo per poterci abbracciare.