(di CHIARA ANTINORO)
Bagheria 25/03/2020
Diario di una giornata ai tempi del coronavirus
Un suono continuo ed intenso penetra nelle mie orecchie, è la sveglia che immancabilemnte ogni sera prima di addormentarmi, è mia cura puntare. Come se dentro di me avessi paura di svegliarmi tardi la mattina successiva e non fossi invece consapevole che il mio sonno è così leggero che persino un sospiro di vento, che passa dalla fessura di una finestra, è in grado di turbare il mio riposo. Quindi stacco la sveglia, apro gli occhi e mi stupisco di non essermi svegliata prima nonostante il forte rumore della pioggia che batte sulla ringhiera del balcone, strano ma vero. È una giornata invernale a tutti gli effetti, la primavera sembra tardare ad arrivare, forse si sta invertendo il ritmo delle stagioni, penso. Quest’anno l’inverno è stato un po’ particolare. Niente pioggia dal mese di ottobre, un avvenimento davvero inedito per me. Non una goccia di pioggia o chicco di grandine, per non parlare di neve che a Bagheria, essendo una cittadina che si affaccia sul mare, non è consueto vedere persino nei “normali” inverni. Soltanto vento, un vento di scirocco fastidioso, accompagnato da temperature tipicamente autunnali.
Mi alzo, mi reco in cucina per preparare la mia spremuta di arancia mattutina, che in questo periodo non può proprio mancare. Infatti, voci più o meno fondate, sostengono che assumere una buona dose giornaliera di vitamina C, possa ridurre il rischio di contrarre il coronavirus. Prendo il mio cellulare e rispondo a qualche messaggio di amici che mi augurano una buona giornata. Sorrido, anche se il sorriso in questo periodo può apparire ad alcuni una nota stonata. E invece io ho i miei buoni motivi per sorridere. E nessuno che si permetta di giudicare! È un sorriso che scaturisce dal piacere di poter sentire l’affetto e la vicinanza delle persone a cui voglio bene attraverso semplici parole, che tuttavia acquistano un significato speciale nell’eccezionalità della situazione ed equivalgono al gesto di una carezza o alla stretta di un abbraccio. Dopo aver occupato la mia postazione quotidiana davanti la scrivania, il mio sguardo si perde tra le innumerevoli fotografie che mi circondano sulle pareti. Più volte al giorno infatti, anche distrattamente mi ritrovo a rievocare attraverso di esse, dolci ricordi di momenti spensierati e felici, che mi riportano come la madeleine di Proust indietro nel tempo a rivivere la mia adolescenza, gli anni trascorsi al liceo insieme ai miei compagni e ai miei cari professori. Ha ragione Elio Vittorini che in Conversazione in Sicilia scrive più volte del ricordo e di come esso unitosi «all’in più d’ora» diventi «due volte reale», ovvero acquisti un nuovo senso e una nuova consapevolezza.
Il tempo scorre in fretta, ma prima di mettermi a lavoro sulla tesi, decido di sbirciare nella nuova stanza virtuale che da circa due settimane mi tiene compagnia. Et voilà, scopro che un nuovo ospite si è aggiunto al gruppo per dialogare insieme a Giorgio Fontana, Vitaliano Brancati, Elio Vittorini, Charles Baudelaire… incuriosita mi accingo a cercare notizie su di lui: si tratta dello scrittore contemporaneo cinese Yan Lianke e di un suo articolo pubblicato sul quotidiano Il manifesto dal titolo molto forte e spiazzante, Impotente e inerme: la letteratura ai tempi dell’epidemia. Mi immergo nella lettura e annoto le riflessioni più significative e provocatorie alla luce delle conversazioni svolte durante le lezioni di Letteratura contemporanea. Tra le tante, una voglio riportarla proprio in questa pagina di diario:
Sono gli scrittori i veri carnefici della letteratura. Il vero sconforto risiede nel fatto che quando il popolo è avvolto dalla gelida morsa del freddo, la maggior parte degli scrittori ha a disposizione giacche imbottite per superare i rigori dell’inverno. La soluzione è semplice: basterebbe che coloro che indossano una giacca in più se la togliessero. Altrimenti non c’è via d’uscita. La letteratura rischia di divenire futile, se non financo malvagia.
Lianke ricorre a un’immagine forte per porre sotto accusa gli scrittori. Questi pur essendo testimoni consapevoli di ciò che accade, preferiscono ovattare la realtà dei fatti e descrivere: «i colpi e le fucilate come petardi di giubilo, presagio di un trionfo immediato».
Ricevo una telefonata che mi ricorda che oggi è il 25 marzo e la mia cara nonna che ci ha lasciati cinque mesi fa avrebbe compiuto ottantott’otto anni. Il mio pensiero non può che andare a lei sono sicura che prega per tutti noi, affinché vada tutto bene.
Manca poco all’inizio della lezione e io mi ritrovo nella mia camera davanti al pc in attesa che la professoressa avvii la riunione. Un mese fa non avrei mai immaginato di dover seguire la mia ultima lezione universitaria a casa da sola, senza possibilità di contatto umano, senza essere circondata dalle voci dei miei colleghi tra uno scambio di battute e una pausa caffè. Ne sento inevitabilmente la mancanza, consapevole che quei momenti che avrei voluto godermi pienamente non torneranno più. Non ci sarà data la possibilità come in una partita di calcio, di giocare anche i tempi supplementari per poter recuperare il tempo perduto. La lezione inizia, e a prendere subito la parola è il protagonista dei nostri incontri: Elio Vittorini, uno scrittore alla costante ricerca di nuove esperienze letterarie, straordinariamente attuale, che si serve della parola come di un’arma non violenta per testimoniare il presente. Trascinata dal fiume di parole dello scrittore siciliano, dagli interventi della professoressa e dei colleghi, mi ritrovo di colpo alla conclusione della lezione.
Pranzo, guardo l’orologio, sono le ore 14. Da circa venti giorni, questa è l’ora del bollettino di guerra per la Sicilia. Preoccupata cerco notizie. Nessun dato positivo. Aumenta il numero dei morti e il numero dei positivi. Quanto stiamo facendo ancora non basta, mi chiedo quando si placherà questa tempesta che ci ha colpiti all’improvviso, trovandoci tanto impreparati e fragili. Abbiamo cambiato le nostre abitudini, rivalutato le priorità, invertito la rotta della nostra vita.
Mi rimetto all’opera cercando di mantenere quanta più concentrazione possibile tra letture di saggi e testi, ed ecco che arrivano le ore 18. Oggi è un giorno particolare, è il Dantedì, si celebra Dante, il padre della letteratura italiana. Quest’anno la società Dante Alighieri ha lanciato per l’occasione un flashmob in tutta Italia, invitando a leggere dal proprio balcone due terzine del quinto canto dell’Inferno, decido di partecipare anch’io. Queste terzine in cui si racconta dell’amore di Paolo e Francesca, sono un modo insomma per “dichiarare il nostro amore per l’Italia con Dante”, per rimanere uniti nonostante la lontananza, grazie al potere dell’amore che come afferma Francesca «ancor non m’abbandona».
Ceno, vorrei che fosse un momento di serenità, ma chiedo forse troppo. Basta un battito di ciglia e vedo ancora immagini frastornanti alla televisione, accompagnate dai commenti dei giornalisti che ci dicono che siamo in guerra e stiamo combattendo contro un nemico invisibile. I medici sono i nostri guerrieri e ogni giorno lottano allo stremo delle loro forze per salvare quante più vite possibili. Così mi torna in mente un articolo condiviso oggi da un mio caro professore sulla sua pagina facebook, tratto dall’enciclopedia Treccani: Sul «nemico invisibile» e altre metafore di guerra, scritto dal linguista Federico Faloppa. In questo articolo Faloppa, in modo anche un po’ ironico, riporta le varie espressioni metaforiche utilizzate dai giornali e dai giornalisti a proposito dell’epidemia. Egli fa riferimento in particolare ad un articolo scritto da Daniele Cassandro su Internazionale, il quale a sua volta interrogandosi sui possibili motivi per cui si ricorre alle metafore di guerra cita Susan Sontag: «Trattare una malattia come una guerra, ci rende ubbidienti, docili e, in prospettiva, vittime designate. I malati diventano le inevitabili perdite civili di un conflitto e vengono disumanizzate appena… perdono il loro diritto di cittadinanza da sani per prendere il loro oneroso passaporto da malati».
Chiamo un’amica al cellulare, ci raccontiamo la nostra giornata, ridiamo, ci lasciamo trasportare dalla fantasia e immaginiamo tutto quello che faremo quando riprenderà la “normale” vita, che di certo non tanto normale sarà. Indosso gli auricolari e ascolto una parte della puntata odierna di radio Fahrenheit. Ospite del giorno è lo scrittore Paolo Giordano che, mosso dall’interesse di scoprire nuovi aspetti dell’attuale epidemia, ha adoperato il tempo a sua disposizione in modo proficuo, scrivendo un breve testo dal titolo Nel contagio. Vado a letto, chiudo gli occhi, mi addormento, ma dentro la mia testa risuonano ancora le parole di Giordano. Egli ci esorta a prender coscienza che adesso più che mai, dobbiamo sentirci parte di un unico organismo, come tante molecole che perseguono un unico obiettivo comune ed ha proprio ragione.