(di CLAUDIA CARMINA) Palermo, 3 aprile 2020
Tempo di… diari
Prima. L’adrenalina da urgenza è il mio carburante. Ho sempre un obiettivo da centrare, corro al rilancio. Faccio programmi a lunga scadenza, a breve scadenza, a media scadenza. Mi spendo, mi stanco, sono irrequieta. Vado in continuo sovraccarico: impegni che rincorro uno dopo l’altro, consegne da rispettare, scadenze da aggiungere ad altre scadenze. La mia giornata è una corsa contro il tempo che ogni mattina parte con mezz’ora di ritardo; poi avanza nello sforzo di recuperare quel ritardo originale.
Amo i piccoli interstizi in cui rubo qualche momento al programma. Immagino una scena impossibile o chiacchiero o bevo mezzo bicchiere di birra la sera in terrazza, con la furbizia colpevole e l’adrenalina di chi commette una trasgressione, come quando da piccola baravo al solitario. Amo appunto questa natura trasgressiva degli interstizi, a patto che il resto sia movimento solido. Devo agire, devo pensare, va bene anche rimuginare, fare, desiderare. Volere è come un dovere.
Ogni tanto, di colpo, mi fermo a ripulire con la manica del maglione il quadrante dell’orologio. Dimentico così la sensazione paurosa di girare a vuoto come un criceto in una ruota. So che fermarsi è un errore. Se tutto questo si fermasse, se io mi fermassi, se tutto fosse immobile, che cosa resterebbe delle mie urgenze, delle mie ansie, della mia volontà, delle mie scelte, dei desideri da rincorrere, delle passioni per cui mi spendo? Che cosa resterebbe di tutta una vita? E se guardando attraverso un tempo rallentato, avvertissi, come nella vertigine di un risveglio improvviso, l’estraneità delle cose, dei gesti, degli affetti?
Nuoto quando posso. Amo del nuoto la monotonia. Nuotare è monotono, come vivere, è un andirivieni ritmato, una bracciata dopo un’altra, avanti e indietro per la vasca senza pause. Le pause spezzano il ritmo.
Amo gli aeroporti. Amo la folla degli sconosciuti che non si incontrano, tutti casualmente nello stesso terminal, in cammino, per una buona ragione, con una storia diversa, sul punto di spostarsi in un altro luogo. Amo essere una dei tanti, indistinguibile nel viavai avventuroso dei viaggiatori stanchi.
Dal diario di Nanni.
Palermo 29 marzo 2020
Caro diario,
oggi è il giorno del mio compleanno. E per festeggiare abbiamo fatto una torta e io e Anna abbiamo mangiato tutto l’impasto. La torta era al cioccolato. La torta era buonissima. E io ho fatto dieci anni.
Palermo 1 aprile 2020
Caro diario,
oggi io, Anna e mia madre purtroppo non abbiamo potuto vedere le stelle per colpa del brutto tempo. Per fortuna pochi giorni fa avevo già compiuto questa esperienza, guardandole non con il telescopio grande ma con uno piccolissimo. Però mi è servito a capire tante cose: una tra queste è stata capire quanto le stelle siano grandi anche al confronto della Terra.
Palermo 2 aprile 2020
Caro diario,
oggi ho notato quanto il panorama sia isolato e triste. Dai balconi nessuno si affaccia e molte case sono costruite solo a metà. Molte piante sono ormai secche. E nella mia strada non passano le macchine e neanche le persone passeggiano tutte insieme. E ho visto dalla finestra dei cani che vagano per strada. Molte persone stanno diventando povere perché non possono lavorare e guadagnare. Il clima oggi è nuvoloso e le mie sensazioni tristi: queste giornate mi fanno pensare a com’erano le cose in passato e a come saranno in futuro.
Adesso. Il tempo è rallentato, lo spazio si è ristretto. O forse no. Il tempo rotola via, un’azione dopo l’altra: videolezioni, compiti di quarta elementare con mio figlio Nanni, compiti di seconda elementare con Anna, cucina, calze antiscivolo da rammendare, giocattoli da mettere a posto, tesi da leggere, ultime notizie da leggere, poche telefonate, mezz’ora di yoga la sera, poche ore di sonno, la notte spostata sempre un poco più avanti. Lo spazio si dilata. La casa si allarga. Le mura sono la misura del mondo. Ci sono stanze da percorrere, un fuori e un dentro. Il soggiorno è un campo di calcio, nell’acqua della vasca pigramente navigano barchette, si tuffano barbie e playmobil, la scrivania è una stanza di lavoro in bilico tra ordine e disordine, lo schermo del computer si spalanca oltre la soglia verso un di là intangibile, il tappeto persiano sdrucito diventa una palestra.
I 192 metri di strada tra la casa e il panificio sono la mia esplorazione dell’altrove. Prima di uscire, mi guardo allo specchio, mi pettino, indosso un maglione pulito, preparo la borsa, controllo il borsellino, cerco la carta dell’autocertificazione in bianco, prendo una penna. Cammino e all’orizzonte si slargano pezzi di mare che galleggiano lontano tra le sagome degli alberi e i volumi sbilenchi dei palazzi. Discendo nel cerchio della piazza tra volti imbavagliati in mascherine bianche o verdi. Gli occhi del fruttivendolo agganciano i miei in uno sguardo che brucia d’ironia, «Che cos’è tutto questo?». Il panettiere dirige il traffico degli ingressi scaglionati con la solennità di un Minosse.
Che cos’è tutto questo? Non più occorrono i programmi dettagliati, le prenotazioni, le attese, gli scorni, i desideri ostinati. Tutto è fermo, il presente è un tempo stabile. Guardo senza fretta me stessa. Osservo le cose così come sono. La realtà è al suo posto, le cose non hanno perso sostanza. Raddrizzo le spalle, cammino, respiro senza fretta.