ELVIRA SEMINARA. La quarantena, un ipertesto che abbatte i muri di casa
Aci Castello, aprile 2020
Innanzitutto mi costituisco, per onestà. Io non leggo. Da quando è iniziata la quarantena, io che l’ho sempre fatto per lavoro, passione e felice automatismo, ho smesso di leggere romanzi. Ne ho aperti tanti, assaggiati e piluccati, ma poi ogni volta, con mio stupore, abbandonati. Sentivo un vago disagio, tra l’insofferenza e un oscuro senso di colpa, come se immergermi in altre storie fosse una specie di diserzione dal mondo, o segno d’ignobile distrazione.
Le mie giornate – seconda confessione – all’inizio della quarantena si sono lungamente e ottusamente articolate sul divano, davanti alla tv, braccando con ansia e voracità ogni aggiornamento sull’epidemia.
L’ho capito solo dopo, perseverando nello strano rifiuto, cosa c’è alla base. È la percezione – prima opaca e struggente, ora chiara e cosciente – di vivere già, con l’arrivo del virus, in una grande narrazione. Una narrazione potente e coinvolgente, policentrica, che non solo ci riguarda tutti, ma si dispiega sotto i nostri occhi con una pluralità di piani, una varietà di voci narranti e un’alterazione dei paesaggi da trasformare ogni romanzo già scritto in una storia ristretta e monotonale.
Siamo dentro un ipertesto. L’avvento del Covid 19 ha cancellato e riscritto i nostri connotati sociali, le nostre consuetudini, il nostro modo di abitare il mondo. Ha smembrato le nostre strutture temporali, i codici di accesso all’altro, la dinamica relazionale, la nostra postura nello spazio. La prossemica consolidata dalla nascita. Anzi ha proprio reimpaginato le nostre coordinate elementari, costringendoci ad attivare nuove modalità di lettura e consumo del tempo e dello spazio, laddove il primo è appiattito in un presente continuo e frantumato, senza previsioni o facoltà di progetto, e il secondo si è ridotto nello spazio di casa.
È cambiata la nostra minima mappa personale, di spostamenti e attese, azioni e microgesti domestici. Quando mi aggiro per la casa, il paesaggio intimo e familiare rivela ombre sconosciute, perché sovraesposto a uno sguardo e un ascolto mai così presenti. Diventa perturbante. Senti la voce del frigo che cambia nelle ore, brusca e poi lenta, si impenna il verso della lavatrice, in giardino gli uccelli sono più estroversi. Vedo polvere e ragnatele con uno sguardo (per fortuna) mai così acuto, anzi predittivo. E pulisco, lavo tappeti, disinfetto, con una smania depurativa, e un’ossessione ai limiti dell’euforia, che mi spingono a rinfrescare, bonificare, sanificare. Mi piace attivare verbi dell’emendamento, come smacchiare, scrostare, sfrondare, svuotare. Ma stavolta non in omaggio a Kafka, che scrive con l’ascia per spaccare la crosta delle cose – no, io penso a una provvida sottrazione. Non c’è rinascita senza decrescita – di produzione, di consumi, di parole, di rifiuti e scorie. Simone Weil la chiama “decreazione”, e l’attribuisce a un Dio intenzionato ad aiutarci.
Vorrei togliere l’eccesso – lo ammetto – rimuovere ogni velo di sporcizia e usura dalle cose, anzi le cose stesse con tutte le loro testimonianze inutili o moleste. Tutti gli oggetti di casa (ma è un sentimento che ho già espresso, cioè ante-Covid), hanno quel vizio feroce di testimoniare contro di te, e di fare spesso memoria non richiesta. Non credete?
La verità è che io non mi sento reclusa. Mi sento, e vedo intorno, vita aumentata. Non mi è facile, come si vede, raccontare la mia giornata scandendola in orari e azioni. Li ho persi e scompaginati entrambi, con mio sollievo. Capisco forse compiutamente solo adesso quella leggerezza spietata e prodigiosa che Calvino, nella sua lezione americana, attribuisce ad Amleto.
Io non mi posso sentire confinata quando il mondo sinora conosciuto si sgretola e decompone, si rinnova e assume nuove prospettive, altre forme di relazione e di sguardo. Un nuovo immaginario.
Perché è cambiato tutto lo scenario intorno. E io faccio come John Berger, che ne ha fatto un manifesto artistico: leggo il mondo. Come il testo dei testi. Leggo e ammiro, senza il peso dei simboli e del senso, leggo e basta, arrestandomi alla meraviglia.
Io abito ad Aci Castello, e per fare la spesa costeggio il mare. È sontuoso, ma in fondo non ha un aspetto diverso da sempre (forse è più pulito, e odora in modo più intenso). Ma poco dopo, davanti al supermercato, il mondo slitta e si deforma. In fila, guardinghi e sospettosi, con quella maschera e i guanti, sembriamo alieni in transito, venuti in terra per prelevare scorte e rifuggire altrove. Misuriamo muti, in apnea, sillabe e distanze.
In tv guardo le strade vuote del mondo, le piazze attonite, i negozi chiusi. Il cronista dice che sono spettrali, esanimi, ma intanto la topografia urbana, nelle riprese dall’alto, rivela con spietata grazia la perfezione della nostra architettura, queste meravigliose piazze italiane sprofondate in una soporosa inerzia, in un‘attesa metafisica. Tristissime, dice la gente. Ma io, a dire il vero, non le ho mai viste così belle, le piazze italiane del centro storico, mai così pulite, definite, liberate dal peso di un’umanità in corsa, dalla massa ingorda di turisti e consumatori per nulla commossi o distratti dalla bellezza intorno. Io non mi sono mai commossa tanto, con gratitudine e meraviglia, dinanzi all’opera maestosa degli artigiani, artisti e operai, che hanno fabbricato nei secoli l’Italia.
Sarà anche che amo Magritte e De Chirico, ma a me queste quinte cittadine esterrefatte e limpide non appaiono affatto “desertificate”, ma al contrario più sacre. Perché la bellezza è sospensione, cura, e non consumo predatorio.
Spero che a fine quarantena, appresa una nuova sobrietà e un’altra misura nei contatti, saremo meno entusiasti di ogni antropizzazione. Il deserto è un luogo meraviglioso, non l’epigramma della fine. E forse dovremmo smetterla di ritenere che uno spazio ha valore quando è riempito di gente, un libro vale quando vende di più, e un film merita perché riempie le sale.
Il vuoto, come il silenzio, è un valore in sé, e il pensiero Zen lo suggerisce da millenni. È il contrario dell’anestesia, come si crede invece in Occidente. È semmai un pieno diverso, fatto di compassione e di dettagli.
Ci sono altre cose nella mia giornata che vorrei raccontare – ad esempio gli incontri collettivi on line di storytelling – ma dopo aver magnificato la sobrietà e il vuoto mi sa che devo astenermi, e concludo.
A trasformare questo tempo in un varco spazio-temporale, il nuovo scambio sul web ha un ruolo estremo. Quando lavoriamo in gruppo e guardo nelle finestre allineate i nostri volti e le vite connesse, coi gatti e i nonni che fanno capolino, la torta in tavola o il caffè, io vedo gli inquilini del palazzo-romanzo di Perec, La vita istruzioni per l’uso. Parliamo di storie e letteratura per due ore, connessi, ma in realtà è già questo, che costruiamo on line e sui social, un romanzo collettivo, anzi connettivo, come un tessuto lavorato insieme, fra strappi rammendi tagli e ricami.
Non so se avrà senso domani raccontare il Backdown in un romanzo, perché sarà un déjà vu. Ma ha senso cercare nuove parole, reinventare forme di linguaggio, offrire nuove visioni. È quello, penso, che dovrebbe fare ogni scrittrice, ogni scrittore. Farsi contagiare – sì contagiare – da un nuovo soffio del tempo.