(di CHIARA SPITALERI)
Diciottesimo giorno di quarantena
In un qualunque sabato di un qualsiasi mese, a quest’ora, mia sorella ed io, per la gioia dei prossimi avventori, staremmo per lasciare il tavolo di una delle nostre pizzerie preferite, per poi dirigerci da Ribaudo, lo storico chioschetto di piazza Verdi, pronte ad incontrare il mio fidanzato e gli amici e a stare fino a tarda notte con loro, tra sorrisi, abbracci, qualche selfie e tante chiacchiere.
Ma oggi, come già i due trascorsi sabati, eccomi nel mio salotto, con indosso una tuta e una vestaglia, dopo aver mangiato una pizza, che ho fatto io però…
La tv è accesa e sento:
“LAVATI SPESSO LE MANI CON ACQUA E SAPONE O USA UN GEL A BASE ALCOLICA, NON TOCCARTI IL VISO CON LE MANI, EVITA LE STRETTE DI MANO E GLI ABBRACCI, EVITA CONTATTI RAVVICINATI MANTENENDO LA DISTANZA DI ALMENO UN METRO, EVITA I CONTATTI FISICI COMPRESI I SALUTI, USCIRE DI CASA SOLO IN CASO DI NECESSITÀ! INSIEME CE LA POSSIAMO FARE BASTA ESSERE PRUDENTI”
Decido di prendere una boccata d’aria in balcone, scosto le tende ed ecco davanti a me lo splendido rosone della chiesa di S. Agostino, i suoi gradini vuoti. Niente ragazzini rumorosi che bevono birra. La strada vuota e il silenzio… Entro.
Mi siedo sul divano e decido di continuare la mia lettura, iniziata la sera prima, di “Conversazione in Sicilia” di Elio Vittorini:
[…]mi addormentai mi risvegliai e tornai ad addormentarmi, a risvegliarmi, infine fui a bordo del battello-traghetto per la Sicilia. […]
[…] avevo comprato a Villa San Giovanni qualcosa da mangiare, pane e formaggio, con gusto e appetito perché riconoscevo antichi sapori delle mie montagne, e persino odori, mandrie di capre, fumo di assenzio, in quel formaggio. […] e io di nuovo dissi: << Non c’è formaggio come il nostro.>> perché ero d’un tratto entusiasta di qualcosa, quel formaggio, sentirmene in bocca, tra il pane e l’aria forte, il sapore bianco eppur aspro, e antico, coi grani di pepe come improvvisi grani di fuoco nel boccone. […]
Alle tre, nel sole di dicembre, dietro il mare che scoppiettava nascosto, il trenino entrava, piccoli vagoni verdi, in una gola di roccia e poi nella selva dei fichidindia. […]
[…] Cominciarono a passare le stazioni, casotti di legno col sole sul cappello rosso dei capistazioni, e la selva si apriva, si stringeva, di fichidindia alti come le forche. Erano di pietra celeste, tutti fichidindia, e quando si incontrava anima viva era un ragazzo che andava o tornava, lungo la linea, per cogliere i frutti coronati di spine che crescevano, corallo, sulla pietra dei fichidindia. Gridava al treno mentre il treno gli passava davanti. […]
La lettura di questi passi non può che risvegliare in me il piacevole ricordo di una vacanza estiva a fine anno scolastico (quarto anno di liceo), insieme a mia sorella e alle mie amiche. Anche noi, come Silvestro, eravamo dirette nella parte orientale della Sicilia in treno, per la prima volta.
Ricordo ancora le tre ore di viaggio, il rumore del treno, il panorama che scorreva veloce fuori dal finestrino, il susseguirsi delle stazioni e il sentirsi ancora sballottate dopo essere arrivate alla stazione di Furnari.
Questo flashback non può che scatenare in me un improvviso desiderio di libertà! Libertà di muovermi senza un valido motivo da giustificare con un’autodichiarazione! Uscire di casa per andare a lavoro o all’università! Studiare a Villa Trabia! Fare una passeggiata e guardami intorno! E infine partire e scoprire luoghi mai visitati!
Lo spettro del covid19, mi ha confinato tra le mie quattro mura! Ma non gliela do vinta! Lo raggiro e viaggio lo stesso!
Frugo nella mia libreria e, all’improvviso, un libro dal titolo “Sicilia” cattura la mia attenzione!
Fisse immagini di maestosi monumenti, tra limpidi cieli blu e acque azzurrine, si susseguono , una dopo la’altra, tra le grandi e lisce pagine illustrate… giro ancora una pagina… sono arrivata quasi alla fine del libro.
Di colpo, pittoreschi paesaggi rivelano alla mia vista un incantevole gioco di colori!
Larghe e vigorose foglie di color verde intenso avvolgono tondeggianti e odorosi agrumi, facendone risaltare i colori brillanti, il giallo e l’arancione.
Sono gli agrumeti di Milazzo! Quasi mi sembra di sentire il loro profumo!
Il promontorio, color perla brillante, risalta immerso in una paradisiaca atmosfera azzurrina, creata dal perfetto connubio tra il cielo e il limpido mare.
Una dolce sensazione di pace e tranquillità mi pervade!
Ho deciso. Comincerò il mio viaggio proprio da qui! Da Milazzo, la città della luce che avrei voluto visitare durante le mie vacanze…
Sistemo la sedia davanti al computer, e di colpo, come risucchiata da un vortice spazio- temporale, mi ritrovo nella penisola aurea… dove il dio Sole pascolava gli armenti, patria del gigante Polifemo e delle più disparate civiltà che vi abitarono.
È mattina, mi trovo nel borgo marinaro di Vaccarella, dedicato al commercio del pesce.
Passeggio e vedo attraccare le barche dei pescatori che, di ritorno dalla pesca notturna, si accingono a scaricare il pesce e a metterlo sui banchi… pronto per essere acquistato dalla gente, tra contrattazioni, pesate e vociare di venditori.
Nel frattempo altri pescatori, sulla spiaggia, districano le reti utilizzate durante la notte, e un po’ più avanti, seduto sull’uscio della sua bottega, il signor Nino Spinola sistema una nassa in rete di plastica, un antico attrezzo da pesca di forma cilindrica e dalle basi forate, che si getta in mare insieme a tante altre nasse, legate da un unico filo di nylon chiamato “u capu”; all’interno della bottega si possono vedere nasse tradizionali in rete di giungo, che rendevano l’attrezzo di gran lunga più pesante rispetto alla plastica.
Continuo la mia passeggiata fino al lungomare Garibaldi, così denominato in ricordo della famosa battaglia di Milazzo (1860), scoppiata tra borbonici e garibaldini.
Si dice che durante la spedizione dei Mille, Giuseppe Garibaldi si sia seduto sui gradini della vicina chiesa di S. Maria Maggiore a mangiare pane e cipolle.
Prima di proseguire il mio giro, decido di entrare in un bar lì vicino e di ristorarmi con una buona granita di gelsi! Vedo in bella vista, negli espositori, anche i piparelli, biscotti alla mandorla e miele tipici di Milazzo, ne compro un piccolo vassoio!
Uscita dal bar, mi avvio verso la cittadella fortificata, simbolo di Milazzo.
Il cammino si fa più faticoso… l’imponente Castello, sempre più fortificato dai normanni e in seguito ampliato da svevi, aragonesi e spagnoli, sorge proprio sulla sommità del borgo antico della città.
Dopo un quarto d’ora, eccomi finalmente arrivata.
E’ maestoso!
La fortezza e tutta l’area compresa all’interno delle mura costituiscono la più estesa cittadella fortificata di Sicilia, con una superficie di 7 ettari!
Il panorama è fantastico, offre una vista mozzafiato, riesco a vedere anche le Isole Eolie!
Mi godo un po’ il panorama, rubo qualche scatto con il mio cellulare, e dopo essermi riposata mi concedo l’ultima visita della giornata… la grotta di Polifemo! che si trova proprio ai piedi della rocca del Castello.
Pare che sia costituita da un ampio ingresso che conduce ad una sala circolare, in cui spicca un dipinto raffigurante il gigante Polifemo che osserva, con il suo grande occhio, la barca di Ulisse in lontananza.
Le credenze popolari dunque la vogliono dimora del Ciclope che, secondo la leggenda, governava gli armenti del dio Sole proprio in questa terra, conosciuta come Chersoneso d’oro.
Purtroppo la grotta non è più visitabile al suo interno… ma affascinata dall’episodio di Ulisse che approda nella terra dei Ciclopi, narrato da Omero nel IX libro dell’Odissea, mi accontento di contemplarla davanti ai miei occhi.
[…]
Poichè cibasti umana carne, vino
Bevanda carreggiava il nostro legno.
Questa, con cui libar, recarti io volli,
Se mai, compunto di nuova pietade,
Mi rimandassi alle paterne case.
Ma il tuo furor passa ogni segno. Iniquo!
Chi più tra gl’infiniti uomini in terra
Fia, che s’accosti a te? Male adoprasti.
La coppa ei tolse, e bebbe, ed un supremo
Del soave licor prese diletto,
E un’altra volta men chiedea: Straniero,
Darmene ancor ti piaccia, e mi palesa
Subito il nome tuo, perch’io ti porga
L’ospital dono, che ti metta in festa.
[…]
Nessuno è il nome: me la madre, e il padre
Chiaman Nessuno, e tutti gli altri amici.
Ed ei con fiero cor: L’ultimo, ch’io
Divorerò, sarà Nessuno. Questo
Riceverai da me dono ospitale.
Disse, e diè indietro, e rovescion cascò.
[…]
Ciclope, io dissi con lo sdegno in petto,
Se della notte, in che or tu giaci, alcuno
Ti chiederà, gli narrerai, che Ulisse
D’Itaca abitator, figlio a Laerte
Struggitor di cittadi, il dì ti tolse.
Egli allora, ululando, Ohimè! rispose,
Da’ prischi vaticinj eccomi côlto.
[…]
Così Polifemo, avendo appreso di essere stato accecato dall’uomo dal multiforme ingegno, lo maledisse e, invocando il padre Poseidone, lo pregò di non farlo più tornare in patria, se non dopo molti anni di tristi sciagure.