(di DONATELLA LA MONACA)
Palermo, 26 aprile 2020
Ho sempre amato leggere i diari ma non sono mai riuscita a scriverne e ancora non so, in questo pomeriggio domenicale di fine aprile insolitamente uggioso, dove mi condurrà l’impulso che mi spinge alla tastiera del pc e che pur con la consueta ritrosia ho voluto assecondare.
Mi ha sempre affascinato il modo in cui il vissuto, le esperienze reali del passato e del presente si riversano sulla pagina “cristallizzando”, direbbe il vegliardo sveviano, accadimenti, riflessioni, ripensamenti, rimpianti, sensazioni sottratti così all’inarrestabile flusso erosivo del tempo. Ogni pagina diaristica, anche la più referenziale, nel suo addensarsi quotidiano rivela in filigrana i grumi, le inquietudini, le paure, i desideri, le pulsioni inconfessate che la trincea dell’agire di ogni giorno dissimula e comprime sotto il governo di un salvifico istinto di protezione. Scorre tra le pieghe delle scritture diaristiche, la voce delle coscienze anche laddove essa si faccia strada ad “insaputa dell’autore” con “stupore”, “negazione” o “scandalo”, per far mie le parole di Elsa Morante che di un diarismo acuminato ma vitale ha nutrito tutta la sua “avventura” umana e artistica.
Inoltrarmi tra le pagine dei diari, che fossero diari in pubblico o quaderni intimi ha sempre significato per me accedere con trepidazione e discrezione, alle ‘stanze’ nascoste, alle pronunce inedite delle vite di ciascuno e attraverso esse alle quinte degli scenari epocali sulla cui ribalta ognuno di noi consuma il suo cammino terreste. Forse per questa ragione ho patito sin da giovanissima una forte inibizione ad affidare alla pagina un ‘racconto’ di me, fatta eccezione per quei momenti irripetibili in cui l’idea del diario si lega alle prime accensioni vitali, alle passioni di quegli istanti in cui ti sembra di essere immortale, di traboccare di sensazioni in tumulto che riversi sui fogli di un libriccino segreto con la foga di un’infatuazione fugace come quell’entusiasmo. Almeno per me è stato così e sempre più con lo scorrere degli anni è diventato un angolo della mia mente e del mio cuore l’unico diario in cui si incidono, ben custodite ed opportunamente vigilate le emozioni più profonde, le riflessioni più scomode e soprattutto i dolori e le paure. Una su tutte la paura della fine, il senso di impotenza nei confronti di un tempo che incalza sempre più vorticoso, ti divora le radici, che agisce sempre più per sottrazione lasciando il ricordo struggente di attimi che non potranno più tornare e il rimpianto per esperienze rinviate che non avranno più lo stesso sapore del presente sfuggito (quella gita a Gardaland, quel viaggio ad Eurodisney, quella pizza con i genitori, quella cena a due per sottolineare un anniversario…..) Ecco, come immaginavo vira verso un’intonazione mesta questa paginetta che non avrei mai iniziato se la mia appassionata e infaticabile maestra e amica Mimì non mi avesse catturato tra le testimonianze vere del suo diario palermitano, una coralità di “corrispondenze” dal confino tormentato dell’emergenza sanitaria.
Proprio questi giorni immersi in una durata, per necessità non compulsata dagli impegni esterni, ma traslata sui ritmi virtuali della didattica a distanza hanno amplificato ancor di più in me la divaricazione tra l’immobilità spaziale e il vorticare di un tempo ancora più rapace. Tra compiti da inviare, verifiche on line, piattaforme scolastiche, le ore si sciolgono e le mie figlie sembrano attimo dopo attimo un passo oltre quell’infanzia magica che ho assaporato istante per istante vestendola come l’abito più prezioso che mi fosse stato concesso in dono. Sì in dono, quando tutto sembrava un regalo tardivo e inatteso, dalla loro nascita, al loro crescere fecondando intorno a sè come per incanto un rigoglio di affetti familiari, in grado di restituirmi, rinnovandolo, anche il mio rapporto di figlia con genitori adesso nonni.
Ecco nel mio diario nascosto quel tempo magico dell’acquisto collide ogni istante di più con questo inesorabile tempo della perdita, impossibile da arginare, anzi manifestatosi in questi giorni con il volto vorace della malattia, della sofferenza che accorda in un unisono dolente il mio microcosmo con il destino collettivo.
“Mamma ma non hai scritto niente di te”! esclama Aurora con i suoi undici anni, immersa in questi giorni nel ciclo dei romanzi di Louisa May Alcott da Piccole donne ai Ragazzi di Jo, sbirciando le prime righe di queste mie pagine al computer da cui peraltro io, per pudore, la induco a distogliere lo sguardo. E ha ragione lei che sullo specchio di carta ha letto con interesse alcune tra le pagine diaristiche pubblicate, a farmi notare come di tutto il ‘pieno’ delle mie giornate non affiori nulla. Eppure in queste poche riche, con fatica, si traduce la condizione che mi accompagna: prensile al dolore perchè forse troppo abbarbicata al senso terreno dell’esistere e alle presenze fisiche di chi amo. Tra pochi giorni la mia bimba più piccola compirà nove anni e dinanzi a lei deve ancora schiudersi quel tempo dei diari che io, dalla sponda del mio amore per istinto esclusivista, non posso che auspicare felice.