(di ALESSIO MARCHICA)
Diario del silenzio: pensieri di tenebra e speme in periodo di quarantena
Agrigento, 29 Marzo 2020
Giorno di quarantena numero…non lo ricordo più. Mi accorgo di come anche i più piccoli gesti mi risultino complicati. Mi sembra di trovarmi in un limbo dalle pareti color nocciola. Voci rimbombano fuori dal televisore a schermo piatto posto all’interno della parete a scomparsa, che si trova nel grande salone. Voci che raccontano di presagi funesti e notizie di morte. Quello è il luogo in cui la mia unica fonte di compagnia, mio padre, suole passare ormai la sua intera giornata. Lo osservo ogni giorno, osservo sempre tutto. È un po’ come se volessi registrare tutto ciò che ho intorno. È il mio modo di conoscere il mondo, di leggere il mondo. Lo vedo con tutti i suoi acciacchi, i suoi malanni trasformarsi sempre più in un bambino impaurito e io sono il solo che può prendersene cura. Nel suo caso impaurito è il termine adatto. D’altronde potrebbe essere altrimenti. Mentre al di fuori della nostra casa il mondo combatte un nemico invisibile contro il quale non è pronto, lui ormai da tempo combatte il suo personale nemico invisibile. Un nemico che ti attacca da dentro. La sua è una guerra di trincea. “L’esercito” ostile avanza cercando di penetrare le difese da ogni parte, ma le forze alleate riescono ad arginare temporaneamente il suo incedere lento ma inesorabile. Quell’uomo un po’ bambino ha già vinto le prime battaglie e siglato un temporaneo patto di non belligeranza, ma ancora non sa, né quando crollerà l’armistizio, né quando questa si tramuterà in una guerra lampo. Uscire per lui significa rischiare di arrendersi ad un ulteriore avversario altrettanto implacabile. Un nemico che potrebbe condurlo a sicura disfatta. Potrebbe condurlo verso la sua personale Caporetto. Penso sempre che la vita abbia una grande vena di ironia. Nasciamo bambini per tornare bambini prima di lasciarci alle spalle questo mondo. Non parliamo più molto. Ci consoliamo a vicenda ma sembriamo esausti, svuotati da tutto. Tutto intorno è dominato da un profondo silenzio. Un silenzio che ti lacera e ti penetra fin dentro ai tuoi apparati, fin dentro i tuoi organi. Vivere la vita è come fare un grosso girotondo. C’è il momento di stare su e quello di cadere giù nel fondo. E allora avrai paura perché a quella notte non sei pronto. Ma al mattino ti rialzi e provi nonostante tutto ad essere il più forte del mondo. Ogni giorno è uguale all’altro. Praticamente un fottutissimo loop che si ripete di continuo e che sembra non voler finire mai.
Le mie giornate sono scandite sempre dalle stesse azioni. Invero è necessario che ceda il passo all’onestà. Sono un privilegiato. Posso godere della natura che imperiosa si staglia oltre le soglie di questa lieta cella. In questo antro sperduto del mondo, in questo sepolcro di vitali spoglie, le città sono da sempre invisibili, sono da sempre lontane. In questo idillio bucolico il panta rhei è un concetto che difficilmente si esplica agli occhi di chi lo scruta, lo “subisce”. In questo moto immoto, vedo svelarsi libri meravigliosi nascosti nel silenzio di chi vive immobile. Mi rifugio quotidianamente in loro. Intesso conversazioni silenti con coloro i quali sento miei simili. Il silenzio muta in qualcosa che si ascolta. Niccolò, William, Haruki, sono solamente alcuni rappresentanti di una lunga lista. Traggo da loro preziosi insegnamenti, che come fulgenti diamanti custodirò gelosamente finché non si possano a loro volta tramutare in ammaestramenti per i veri possessori di questo mondo, le giovani speranze, le giovani vite che un giorno dovrò indirizzare lungo le recondite vie del sapere . Uccido la musica strimpellando le corde di una chitarra, la quale più che produrre un suono armonioso, sotto le mie inesperte dita, sembra produrre il rumore causato dai rebbi che sfregano contro l’acciaio. In cotanta mestizia dei tempi riesco a tenere a bada quella specie di misantropia di cui sono vestito. Adulazione, ambizione che sfocia in degenerazione e vanità sono tutto ciò che più temo rispetto ad una pandemia di siffatta portata. Mi stringo al cordoglio dei caduti, l’umana decenza alberga ancora nel mio animo, ma guardo con pietà chi, solo per paura, finalmente si accorge della caducità del tempo, si accorge di esser debole, si accorge dell’importanza dei gesti, preferiti in “illo tempore” a parole vacue e prive di senso. A chi si accorge solo adesso del senso profondo che alberga nel termine umanità. Si accorge solo adesso della bellezza insita nelle piccole cose, negli affetti. Ne piange sol ora la mancanza. Dunque perché lamentarsi, questa per me non è una punizione, non è un supplizio prometeico. I paraggi della morte, le menzogne e la vacuità mi hanno spinto a disprezzare troppe cose intorno a me, ma “l’agricoltore dato i tragici incendi dell’Australia, ha il dovere di piantare almeno un albero e curarlo con la fede, la conoscenza e la verità”. Considero questo evento nefando, che sollazza il ghignante e sempre famelico tristo mietitore, un banco di prova in cui le sementi e il frutto del mio raccolto prendono il nome di virtù e conoscenza che coltiverò con tutto l’impegno che posso profondere. Una crypteia utile ad affrontare il mondo quando potrò tornare a solcare le sue antiche e sacre sponde. Anche in questo lungo peregrinare tra, doveri, pensieri ed espedienti per scacciare il tedio sopraggiunge la sera. Come ad una profonda tenebra segue sempre un sole che irradia e rischiara le coscienze afflitte da un profondo timore, da un profondo livore. È una sera come le altre. Esco nella veranda, accendo l’ennesima sigaretta del giorno (si può dire che ho incrementato più io gli introiti delle lobby del tabacco in questo periodo che tutti i fumatori della provincia di Agrigento) e mi metto a pensare. Sorseggio nel frattempo del vino. È un rosso, un vino corposo. Lo sento accarezzarmi il palato. Prende una forma, un ordine particolare, come se fosse una materia a tre dimensioni, che si evolve in bocca e diventa un’architettura. Berlo riesce a sollevare il mio animo schiacciato come Atlante sotto il peso del mondo. Mi distendo sul muretto.
È una sera fredda per essere una delle prime del periodo primaverile. Con il naso all’in su guardo il mio tetto di stelle. Mi piace guardare il mondo da questa prospettiva, è quella di chi ancora a trenta anni non ha smesso e non vuole smettere di sognare. La coltre di fumo salendo accompagna il mio sguardo. Lì, sul tetto del mondo riposa una luminosissima e candida luna crescente affiancata da Venere, che brillando intensamente si erge splendente al suo fianco. Lo spettacolo della natura si palesa a me. Lo spettacolo del cosmo. Così freddo, così immobile, così silente. Attivo la playlist spotify sul mio cellulare e lascio fluire la musica che si diffonde nelle cuffie bianche e ingarbugliate come il mio io interiore, un io che vede scontrarsi in una perenne lotta due figure ancestrali, sognatore e misantropo. Le riconosco, sono loro. Sono le struggenti note dei Manchester Orchestra con la loro “The silence”. Ottima per descrivere quella ritrazione al silenzio che ho imparato a conoscere e con la quale sto imparando a convivere. Comincio così il mio soliloquio. Mi chiedo perché non riesco più a scrivere. Mi sono trovato ad abbozzare delle favole di dubbio gusto tutte con lo stesso soggetto. Riesco però a scrivere solo quando viaggio. A lungo ho provato a farlo durante il corso della mia vita, solo che non avevo capito che non dovevo essere io a cercare le parole, ma erano loro che avrebbero trovato me. Ho deciso, mi siedo e aspetto, magari mi trovano anche qui. Abbasso le palpebre come abbandonandomi in un lungo sonno. Vedo comparire di fronte a me una panchina, la stessa di sempre. La stessa che ho imparato a conoscere durante la permanenza nella mia amata Palermo. È lì, proprio dirimpetto al mare, proprio di fronte alla barca dal nome Siddhartha. Lo stesso nome che Hermann mi sussurrò alla mente durante l’infanzia. Ormai perso nei ricordi, d’un tratto scorgo due sagome sedute su di essa. Sembrano due giovani amanti. Uno sembra me ma non lo è. Non lo è più da molto ormai. Prendono forma, prendono vita e a me spetta il compito di raccontarli. Non avrei mai detto che dietro una brutta copertina, in una testa così mal costruita come la mia ci fosse l’ordine e il disordine di una storia. Provo allora a narrare dell’Odissea che mi ha portato all’oggi come un Ulisse oscurato, ora che maggiormente vedo la verità, ora che la realtà si confonde col sogno. Provo ad incidere quella nenia che a lungo si è incistata nella mia testa. Scrivo ma non col piglio di chi mente. Lo faccio a modo mio. È un esercizio per evolvermi, un esercizio per superare me stesso, un esercizio per imparare. E allora scrivo. Nessuno mai leggerà la mia storia ma non è importante. Il dottor S. non potrà schernire le mie parole, i miei pensieri, ma scrivere aiuta a liberarmi. Mi sento leggero, è come se buttassi tutto il dolore dentro le pagine. Lo chiamo effetto placebo, fase Saba. Il mio corpo è insediato dal freddo, è arrivato il momento di deporre le armi. Decido dunque di accantonare temporaneamente lo “scrittodattilo” come quell’irriverente di Stefano con la sua grande ironia mi suggerisce di chiamare ciò che invero dattiloscritto deve esser nominato, conferendogli però così un fascino animalesco, un fascino primordiale(seppur ancora non ne ha assunto la forma ma è solo una serie di bozze, di stralci da incastrare come i pezzi di un puzzle contenuti nel grembo di uno schermo portatile). Rientro in casa, do un bacio a mio padre che è ancora posizionato sul suo trono di fronte la sua, ahimè, amica più fedele. Glielo do sulla fronte. E’ il mio modo di dirgli che gli voglio bene, che lo proteggerò, nonostante tutte le intemperie del mondo. Sarò il suo riparo, la sua forza e se un giorno mi vorrà scacciare, allontanare, ferire, calpestare, io non smetterò di lottare per lui, non smetterò di prendermi cura di lui. Salgo nuovamente nella stanza. Mi distendo nella speranza che Orfeo possa rapirmi tra le sue braccia e possa condurmi facilmente alla fase REM. È la fine di un giorno come tanti, di un giorno uguale agli altri. Come ogni notte aspetto il momento di poter dire: Esci di casa, sorridi, respira forte, sei vivo, Cretino!