Mag 03

Diario in tempo di… Palermo, 29 marzo 2020

(di FABIOLA VECA)

Palermo, 29 Marzo 2020

Ventunesimo giorno di reclusione. Sì! Per gli altri, non per me. Io, i miei, non li conto più. Mi sono persa. Così mentre gli altri affrontano il male del secolo, io affronto la mia estraneità. Forse scuseranno il mio deserto, la mia aridità. Ma davvero! Neanche questo fa crescere in me una qualche emozione. Vorrei tanto vivere con preoccupazione quello che sta accadendo, come tutti. E capisco anche la difficoltà che si possa provare nel sentirsi di colpo isolati. Direi agli altri: “Benvenuti nella mia ‘normalità’. Ora la credete possibile?” Ma non riceverei risposta.

Non ho mai compreso le regole della vicinanza. Mantenere a distanza è tenersi al sicuro. Al sicuro dall’essere feriti e dal non essere amati. Oggi, la legge del metro racconta il rispetto degli spazi, ma potrebbe non bastare.

Mi sono accorta di non aver mai avuto il mio spazio, neanche a casa. Così ho provato a crearlo. Ho spostato mobili, libri, fatto ordine. Ora chiudo anche la porta e, con questa, mamma e papà fuori. E tuttavia non basta. Possono aprirla quando vogliono! La mia stanza non sarà mai del tutto mia se non sarà in una casa tutta per me. Ma per questo devo ancora aspettare.

Copio gli appunti sul foglio bianco, tranne gli scarabocchi. I colleghi soffrono la mancanza delle lezioni in presenza, l’interagire. E in effetti l’online non sostituirà mai il tipo di relazione che si viene a instaurare all’interno di una classe, e più in generale nella vita reale. Ma se le lezioni fossero state in presenza, probabilmente io avrei avuto “difficoltà” a seguire. Non so se ce l’avrei fatta ad andare all’Università. Nell’aula digitale, invece, ci sto comoda. Il freddo schermo mi protegge dall’essere guardata. In fondo è l’ideale per me. Non avere alcun contatto.
Il susseguirsi delle lezioni, una dietro l’altra, l’esame che si avvicina, la tesi da scrivere, non mi permettono di abbandonarmi alla noia. Almeno ora, che ho le giornate così organizzate, la finirò finalmente di essere un tutt’uno col divano, in forma e colore. Studiare, studiare, studiare. Ecco, forse, la cura!

È come se si fosse messo in pausa la vita. Come se tutto fosse fermo. Anche il domani. Ecco! Voglio essere pronta quando ripartiremo. Perché ripartiremo vero? Tutto tornerà come prima, ma io non voglio che sia come prima. Allora studio, penso… no! Sogno, cioè progetto.
Mi lascio distrarre da Astro, la mia ombra, il mio unico amico. Con lui la casa sembra più grande e i fantasmi si disperdono. L’aria è più pulita.

Quando sono tra le mura domestiche potrei perfino pensare che non sia successo niente. Riduco al minimo le informazioni che provengono dall’esterno. Ma poi, quando esco con il mio labrador, mi accorgo del silenzio. Il silenzio mi fa paura, come il buio. Velocizzo il passo. Occhi spalancati, mi guardo attorno. In cerca di un saltar fuori, di una ragione per cui scappare. In cerca di un girar l’angolo, di una possibilità di salvezza. Costringo Astro al fiatone e subito le chiavi nel portone.

Anche oggi è finita una giornata durissima e, mentre ingoio la mia illusione in pillola, eccone già spuntare un’altra. Un’altra domenica d’inverno. Siamo in guerra e combattiamo, anche se su diversi fronti. Andrà tutto bene. Non oggi. Non ancora. Raggiungo il letto e i miei mostri. Astro dorme ai miei piedi. E mentre lui sogna di correre libero nei suoi spazi verdi, anche io sogno. Sogno la libertà, che raggiungerò quando sarò padrona di me stessa e dei mei spazi. Sogno un giorno coraggioso in cui uscirò dalla mia stanza e abbatterò le pareti che mi separano dalle infinite possibilità.

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