Mag 03

Diario in tempo di… Partinico, 5 aprile 2020

(di ANDREA CASTROVINCI ZENNA)

Partinico, 5 aprile 2020

E chi lo avrebbe detto che ci sarebbe toccata anche questa? E che ne avrei scritto in questa forma, proprio come avrei fatto oltre dieci anni fa? Mi sarei atteso, da un evento epocale e comunitario come questo, di poter tirare fuori una poesia immediata, da limare poi con calma in questo tempo lento; mi sarei atteso una poesia netta, che arrivasse al cuore delle cose in maniera diafana, che non suonasse banale ed esprimesse la smania torpida per la sospensione a fin di bene cui siamo sottoposti, che finalmente parlasse in prima persona plurale… E invece la poesia non giunge, e tentativi forzosi di darne alla luce mi sembrano astrazioni velleitarie. Oggi è tempo di prosa, di diari, come tanti anni fa.

È il 5 aprile 2020, sono passati i miei trent’anni, sono vecchio! Sono vecchio! Passò la giovinezza prima!, diceva il caro Gozzano… Ma a differenza sua, alla sua stessa ultima età, di poesia non riesco a tirarne fuori, chiuso a parlare con micio, a meno di rischiare inutilmente, per ottenere risultati sentiti come inadeguati. E allora si torni a torchiarsi.

Sto in casa come tutti, a Partinico, in un monolocale con Teodoro, il micio. Ci sto perché devo. È come essere ovunque e in nessuno luogo. La luce sibila dalle persiane. Non parlo molto, se non con gli alunni in videoconferenza la mattina. E con chi mi imprigiona: lei che un tempo nemmeno tanto lontano aliava da una stanza all’altra leggera, trillando canora al mattino; e tutto era lieve. E dovrei imparare a odiarla, e invece ne rimango prigioniero, la ascolto, mi abbandono al rimpianto. Così trascorro le giornate qui, dopo l’orario scolastico frantumato, tra afasia e velenose conversazioni.

Ho provato a scrivere qualcosa, ma non riesco a convincermi che non sia retorica, che non suoni banale, che non stoni, che non rimanga ancorata a un vissuto. A stento leggo, pur avendo il tempo. Avverto il rischio di sfociare incontrollatamente in tutto l’orizzonte egoistico della noia. Godiamo il lusso di annoiarci, mentre fuori si soffre e muore. E dire che era così anche prima, che è così da sempre.

Ho provato a fare il verso a un paio di crepuscolari, con una ironia che neppure mi convince. Ho provato perché sento che qualcosa dovremmo, dovrei dire. Come Silvestro di Conversazione in Sicilia, agitato in sé da furori inesprimibili, sento la vita in me come un sordo sogno e che non ho nulla da dire, da affermare, negare, nulla di mio da mettere in gioco, e nulla da ascoltare, da dare e nessuna disposizione a ricevere…

E veramente parlare mii pare fuori luogo, mi pare un egoistico cavalcare l’onda per ridire ancora IO, IO, IO. Io interprete del male fuori, del male dentro, dell’epoca, dell’emergenza, IO! Ma che? Si muore senza parole, che scrivere a fare? Inoltre un dubbio spezza ogni voglia e mi punge: come riuscire a non essere, quando tutto sarà finito, ridicoli? O lontani lontani, come fosse stata una favola o un incubo? E che mai avremo imparato se il supremo, comune desiderio è quello di tornare in corsa a chinare la testa?

Che dire di nuovo? Non lo sapevamo forse di essere fragili? E nulla siamo riusciti a imparare, né dalla vita né dai maestri? Non era la catena solidale della Ginestra un’alternativa a una società dell’oro? Cosa potremmo aggiungere? Di essere stati testimoni “privilegiati”, quando non lo furono altri, del nostro essere inermi? Del nostro essere umani, mortali?

Forse dovremmo rimodulare ancora una volta il nostro pensiero, forse semplicemente avremmo dovuto ascoltare e prendere esempio, forse non è tempo di cantare, ma di agire: ristrutturare una volta e per tutte (siamo nel 2020, mannaggia!) una humanitas fondata su una certezza: che siamo nuvole protese ai baci del vento.

Nel frattempo guardo ore e ore di niente, come i gatti, alla finestra.

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