Mag 13

Tempo di… diari

(di NATALIA LIBRIZZI)

Faccio una pausa. Sono nel giardino di casa e sento il mio respiro libero di circolare, senza mascherina né autocertificazione.

Questi giorni sembrano dilatare e, al tempo stesso, comprimere una martellante sensazione di impotenza. Annotarla mi turba perché, in una conseguenza del tutto matematica, significherebbe fare ordine tra parole, opere e omissioni. Troppo personale. Un auto-sabotaggio annunciato, il cui anestetico sono rituali domestici omologabili sotto forma di hashtag e lievito madre.

Le mie labbra si curvano senza inibizione in un sorriso. Ecco cosa mi manca. Condividere un sorriso con la gente che incontro per strada.

La quarantena ha fatto affiorare ricordi sepolti dal peso dei giorni. Durante gli ultimi due anni di liceo, non tenevo un diario e neanche un’agenda sulla quale appuntare l’orario curricolare. Segnavo i compiti sui quaderni di ogni materia o nei fogli di risguardia dei libri di testo. Mi piaceva anche appuntare consigli di lettura, parole-chiave da memorizzare in vista di un’interrogazione o quelle sconosciute da cercare nel vocabolario e, ancora, scansioni podaliche che mi divertivo a riformulare sui nomi e cognomi delle mie compagne di classe. Piccolo gioco, quest’ultimo, che mi accompagna tutt’ora quando insegno ai miei allievi la metrica greca e latina, scatenando in loro grande ilarità e in me un orgoglioso senso di compiacimento.

Raccolgo una nespola dall’albero del vicino che trabocca di frutti anche nel mio giardino. La strofino sulla manica della mia maglia e la mordo. Un secondo dopo, la sputo. Siamo infette, io, la nespola e la mia manica. Penso che, se il respiro continua a essere libero di circolare, è il pensiero a essere infetto, corrotto.

Non ho mai tenuto un diario, per l’indolenza di chi non vuole espiare le responsabilità dei suoi peccati e la paura di dirli ad alta voce. Timore di uscire allo scoperto persino con me stessa e, peggio ancora, di non trovare un lieto fine alle mie peripezie. Perché un conto è sentirsela dire, la verità – gridata, sibilata, condivisa o sentenziata –, un conto è cercarla dentro di sé, tirarla fuori dall’eloquente silenzio della pagina bianca. Se la registrazione del quotidiano – per dirla con Elsa Morante – appare l’unica forma possibile per conoscere realmente se stessi, la mia penna allora preferisce tacere.

Entro in casa correndo. Escogito metodi che immediatamente rifiuto per disinfettarmi la lingua. Manipolo alcol, amuchina e limone. Li guardo, li fisso e li poso dov’erano. Penso a quegli idioti in America che se li sono iniettati. Mi dico che no, io sono ancora intelligente, un po’ paranoica ultimamente, ma sempre mediamente intelligente. Devo solamente dimenticare l’accaduto. Non è cosa facile perché ora mi prude pure la testa e tossisco.

Ha così inizio il primo “diario delle mie fobie in quarantena”. La prossima volta, invece di cercare un vero contatto con la natura, aprirò Instagram.

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