Mag 17

Diario in tempo di… (Diario di un giorno solo)

(di DAVIDE CAMARRONE)

Diario di un giorno solo

Dormo e mi risveglio nella stessa identica condizione. Come in uno di quei film tutti uguali che dicono del giorno che si ripete allo stesso modo, da qualche parte nel mondo. La sveglia al mattino, la radio e il protagonista che deve fuggire dall’incubo e smussa i lati peggiori della sua personalità finché non riesce a diventare amico di tutti, nel paese nel quale è piombato, avendone scrutato i desideri, le debolezze, le paure. Il lieto fine è doppio. Il buon uomo conquista la donna che lo respingeva e sfugge al ciclo di ripetizioni. È la faccenda del buon vecchio karma, insomma.

Il 9 marzo è la data di questo diario di un solo lungo giorno che si conclude provvisoriamente il 18 maggio. Dal giorno del mio isolamento dal mondo di fuori a quello in cui riprenderò a frequentarlo stabilmente.

Questa clausura famigliare deve avere degli aspetti positivi, mi dico. Per forza. I tempi conventuali, il refettorio e la chiacchiera, il silenzio del chiostro, la musica. Rallentamento. Ecco, la meditazione dev’esser questo. Tendere alla sosta, al dialogo degli sguardi. Ma a pensarci bene, il rallentamento è illusorio.

Persi i collegamenti fisici, bisogna moltiplicare i collegamenti virtuali. Tutti in famiglia hanno bisogno di un computer e di una linea veloce. Rinascono vecchi catorci, strappati al solaio e ripassati al vaglio delle applicazioni che li ringiovaniscono: nuovi sistemi operativi e via duplicazioni dei files e software fuori uso. Su Amazon, i tempi di attesa delle webcam sono già di settimane.
– Zoom è meglio di come me lo aspettavo, che ne dici?
– Io uso Meet, io Teams e io non so più cos’altro.

A casa si studia, si lavora, si scrive e si conversa. Online, vedo pure mia mamma che ha superato gli 80 ed è chiusa in casa come un gioiello in cassaforte. Conversazioni, aperitivi, feste di compleanno e sedute di fitness. Sedute?

Ho conosciuto le nuove postine. Un paio di ragazze, avranno 25 anni. Hanno sostituito quel signore di Lampedusa col quale di tanto in tanto ci incontravamo sul marciapiede e scambiavamo due chiacchiere. Sui migranti, sull’Isola e sul vento che la spazza. Ma l’estate, mi diceva, io torno sempre. E sul suo viso si dipingeva l’espressione di nostalgia che hanno tutti i profughi. Il ricordo dentro il rimpianto dentro il desiderio. Comunichiamo quel tanto che basta, con le postine. Citofono, buongiorno, arrivo. Lasci pure lì, ci penso io. Non si firma e non si parla. Compriamo tutti online e il loro lavoro si è moltiplicato. Nella città deserta.

In certe chat, tra parenti e amici, si ride come in una yeshiva. Non c’è catastrofe che non possa dar luogo ad un paradosso. Tutti danno sulla voce di tutti e da ogni argomento ramificano decine di divagazioni. Le consegne a domicilio. L’avventura della spesa al supermercato, una volta a settimana. Le mascherine reperite al mercato nero, a prezzi da rapina. I tutorial: tutto può esser trasformato in una mascherina: un calzino, un paio di mutande, una zucca e una vecchia pezza di cotone. Ci si scambiano ricette, ma l’argomento principe è il pane. Intorno a quel mistero che è la lievitazione, si esercitano neofiti e curiosi.

Quando non lavoro e non sono utile a qualcuno, cucino, faccio il pane, la pizza, il Big Mac e riscopro ogni isolato di quella periferia di noi stessi che è la nostra casa: restauro riaccomodo riparo sistemo innaffio pianto innesto tingo ricucio e getto via. Faccio ginnastica. Leggo, avidamente, confusamente. Nuovi romanzi, romanzi da catasta sul comodino e bozze di amici. Scrivo. I miei personaggi irrompono nella clausura.

In un certo senso, nonostante i morti, il dolore, il disastro economico, la perdita del lavoro, per tanti, il virus smette di essere il nemico, in certi commenti sui giornali e sui Social. Non che ci si affezioni, come in quella sindrome, e nemmeno che si impari a conoscerlo. Il mondo cambierà, leggo. L’assunto implicito è che accadrà per merito del Coronavirus. Questa cosa a forma di mina sottomarina che cambierà le nostre vite, sa di soprannaturale. Conta più una cosa che non si vede a occhio nudo, del degrado del nostro pianeta, delle guerre e delle migrazioni che fino a ieri abbiamo ignorato.

Il fatto diventa strumento di interpretazione del mondo, come una pagina scelta a caso dalla Qabbalah.

Mi sto disintossicando, penso. Dalla velocità, dal procedere ansioso, da me stesso alle prese col mondo. L’infinitamente piccolo contiene l’infinitamente grande, mi dico. Con mia moglie e i miei figli condivido il rifugio per un tempo che non ci sarà dato di ripetere, penso. Un giorno lungo quasi 1700 ore. Stabiliamo dei turni per apparecchiare e pulire piatti e stoviglie. Guardiamo insieme la tv. Riusciamo a non litigare. Non troppo, almeno: il giusto, quel che ci lascia umani. Cent’anni dopo la Spagnola che uccise la mia bisnonna e cambiò la vita di mia nonna, spedita in collegio da una zia cattiva, accettiamo il Fato e diamo ascolto al Coro che ci dice di chi sta peggio di noi. Molto peggio. Dopo un po’, però, spegniamo il Coro: la tv sempre sintonizzata sul canale del TG, con le immagini di Bergamo e dei morti portati via da una colonna di camion dell’esercito, di notte, e la parola onnisciente degli esperti sacerdoti.

Quando finirà, mi dico contraddicendomi, questo giorno si lascerà dietro una scia di interpretazioni controverse del mondo che non cambierà e che si limiterà ad accettare tutto quel che ieri pareva indigesto: una resa senza condizioni dinanzi alla precarietà, al dominio della tecnologia, ai libri elettronici e alla spesa a distanza.

In fondo, il virus è un addio al vecchio mondo, ma è anche un pizzicotto al collo. Sveglia, è ancora ieri.

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