Mag 18

Maria Attanasio. “Le colonne scellerate” [pt. 1]

Maria Attanasio, al posto di una pagina diaristica, ci ha inviato (e non a caso!) un suo racconto, Le colonne scellerate, tratto dall’antologia Cinquanta in blu. Storie, edita da Sellerio, nel 2019. Oggi ne pubblichiamo la prima parte. Prossimamente, le altre puntate.

Cholera morbo

Dalle sponde del Brahmaputra – dove nel 1817 per la prima volta apparve – il cholera morbo in vent’anni fece il giro del mondo: dall’India all’America, dalla Cina all’Europa.

La natura sconosciuta della malattia e l’impotenza dei medici a curarla accesero l’immaginario di dotti e ignoranti in cerca della causa scatenante: un conflitto astrale tra sole e mare che alterando l’aria generava vapori malsani; l’ira divina per i troppi peccati degli umani; ammassi enormi d’insetti in forma di nube, di cui talvolta i giornali tentavano di riprodurre le misteriose fattezze. E altre infinite varianti. Chi poteva fuggiva dalle città affollate, spesso abbandonate anche da sanitari, autorità, forze dell’ordine.

La malattia, che a causa delle scarse condizioni igieniche e alimentari colpiva prevalentemente i poveri, assunse una decisa connotazione di classe. E a prevalere fu l’ipotesi del colera veleno: l’origine identificata in sostanze venefiche diffuse nei cibi, nelle acque, e, in forma gassosa, nell’aria. Medici, governi, infernali sette, i mandanti di quella sofferenza senza speranza.

Accadde in modo più o meno violento in tutta Europa: nel Seicento gli untori, nell’Ottocento gli avvelenatori.

Un poeta in fuga

Chi ha guardato negli occhi la bellezza
è già preso da morte.
AUGUST VON PLATEN

Il grande drago, l’idra dalle mille teste. E da ogni testa un fiato ammorbante: vicino, sempre più vicino. Se lo sentiva sul collo, quel respiro pestilenziale, il poeta August von Platen; qualche sera prima in un ristorante aveva casualmente ascoltato la conversazione tra un napoletano e un giovane francese che gli raccontava di avere superato il colera, ma da allora non era più lo stesso.

Si era voltato a guardarlo: un volto cadaverico, e tutto un tremito di ciglia e mento. In quel momento decise: il più lontano possibile. Ormai il morbo era alle porte. E con il sudiciume e il sovraffollamento a Napoli sarebbe stata una strage.

Dopo dieci anni di quella città non ne poteva più: la volgarità del re, la grettezza politica dei pochi aristocratici che aveva frequentato e adesso non frequentava più. Ciechi alla storia che cambiava.

E pieni di cattiveria. Una sera un baronetto – un liberale gli avevano detto – a cui stava parlando degli insorti di Modena, e di un suo amico che era andato a combattere in Polonia, gli rispose con ammiccante ironia: «Amico!?».

Aveva gridato. Lo aveva insultato come il peggiore dei lazzaroni.

Quei mezzi sorrisini. Generalizzati dopo l’attacco di Heine, che col suo libro ne aveva diffuso la notizia per mare e per terra. Pederasta lo aveva chiamato. Un vizio, che per lui non era vizio ma natura.

Gli unici amici, con cui era libero nella parola e accettato nel pensare, erano i dottissimi Antonio e Giacomo, il poeta malato, che quotidianamente andava a trovare; lunghe ore a parlare del destino dell’uomo, di poesia: un appassionato dire che cancellava i ceppi del corpo offeso di Giacomo.

Per la seconda volta nel giro di tre mesi si accingeva a ritornare nell’isola. «In Sicilia, almeno la morte sarà più poetica» disse abbracciando il suo amico Haller, che non finiva di raccomandargli in caso di coliche di assumere il farmaco con cui alcune settimane prima l’aveva guarito. Arrivò a Palermo l’undici settembre restando quasi un mese e mezzo tra Bagheria e Cefalù.

Il 24 ottobre iniziò il suo secondo viaggio nell’interno della Sicilia, ancora più faticoso del primo, con brevi tratti in diligenza, qualche volta in lettiga, e la maggior parte a dorso di mulo; un continuo azzardo del corpo e della mente: l’orrore dei burroni, la paura dei briganti a ogni svolta della diligenza, a ogni oscillare della portantina. E il silenzio – come dell’inizio del tempo, o della sua fine – nello sterminato e monocromo succedersi di catene montuose e vertiginose vallate.

Cambiando cavalcatura a ogni stazione di posta, in dieci giorni di cammino attraverso le Madonie arrivò a Caltagirone, dove pensava di fermarsi una notte e il giorno dopo ripartire. Vi era rimasto invece ben quattro giorni, all’alba del quinto preparandosi a malincuore a riprendere il cammino per Siracusa, dove intendeva trascorrere l’inverno.

Il clima mite, il contagio lontano, e l’armonia del bello attorno a sé.

La cosa più fastidiosa durante il viaggio era cambiare mulo e mulattiere, caricare e scaricare bagagli: ceste, sacche, casse, cassettine. E lui ne aveva tantissime. Detestava la trasandatezza. Nella vita e nella scrittura tutto doveva essere bellezza, stile, ma a volte in quell’ideale modello di perfezione si insinuava un grumo di inquietudine. Fuga e abbraccio, paura e fascinazione, che lo spingeva ad andare, a cercare.

Seguiva con attenzione ansiosa i movimenti del giovane mulattiere, che lo avrebbe accompagnato fino a Lentini: resistente a ogni fatica, gli aveva detto l’amico, presso cui a Caltagirone aveva trovato accoglienza; un eclettico studioso che gli aveva fatto da guida in quella città tutta scale, conventi e fabbriche di stoviglie.

Era rimasto un intero pomeriggio in una di esse a osservare la metamorfosi dell’informe argilla in albarello tra le mani dell’artigiano al tornio, mentre in un retrostanza suo figlio decorava in un silenzio concentrato una burnìa ancora acroma. Ne aveva apprezzato la fattura. «Certo non come questa!» gli aveva risposto il ragazzo, da un ripostiglio tirando fuori un vasetto nero a figure rosse; si offrì di accompagnarlo nella zona dove l’aveva trovato. Una complicità d’occhi e un abbandono senza riserve – come da tempo non gli accadeva – quando il giorno dopo si erano appartati tra i ruderi di una casa di quella zona campestre.

All’improvviso un grido allarmato bloccò il gesto del giovane mulattiere: «Attento! Con delicatezza! Mettilo sopra, a portata di mano». Era pane quotidiano, quel nécessaire per scrivere, dove annotava impressioni, tracciava schizzi; i Reisen in Italia erano richiestissimi. E lui viveva con questo lavoro: diari, reportage, poesie, che poi rielaborava e alla fine del viaggio mandava al suo editore in Germania.

All’alba brumosa seguì un trionfante sole. August respirava a pieni polmoni, avrebbe voluto introiettare tutto: linee, colori, l’andatura del giovane mulattiere che lo seguiva a piedi tirando l’altro mulo con i bagagli. E il fumo dell’Etna, a filo d’orizzonte, che svaporava nel blu profondo del cielo novembrino. I versi che aveva scritto anni prima gli risuonavano come una dolcissima cantilena nella mente – tu sei il loto che nuota nell’oceano – mentre iniziavano la discesa tra ulivi e vigneti.

Una piacevole cavalcata fino alla piccola altura di Palagonia. E fame, molta fame. Una sosta per mangiare e rinfrescarsi. E riprese il cammino.

Il poeta August von Platen arrivò a Siracusa la sera dell’11 novembre. Si accomodò in un piccolo albergo nella strada della Malfitanìa – l’Aretuseo – modesto ma con una dignitosa cucina e una liquida luce marina. Un’armonia di bellezza di cui poco godette.

L’ultima pagina del suo diario risale al 13 novembre del 1835, e in una delle ultime annotazioni scrive: «Sono rimasto un paio di giorni a Caltagirone perché non avevo motivo di affrettarmi. Di questo mi sono convinto ancora di più una volta arrivato qua. Là ho visto un giovane di straordinaria bellezza»; l’immagine dell’ultimo amore della sua vita forse lo accompagnò nelle terribili sofferenze della malattia.

Il 22 novembre iniziano i sintomi: coliche e vomito. Ingoiò pozioni e pozioni di zucchero e canfora con cui l’amico Haller, ad agosto, l’aveva guarito. E altri farmaci che il cavaliere Landolina, a lui era stato raccomandato dagli amici napoletani, gli portò.

A stargli vicino, notte e giorno, un poeta esiliato in quella città, con cui era entrato in sintonia politica ed estetica.

Non ci fu niente da fare: debolezza di arti e mente, occhi infossati, cianosi.

Il cinque dicembre morì. Aveva trentanove anni. Di colera, scrivono generalmente i suoi biografi.

Un caso isolato, un’anticipazione dell’epidemia che arriverà a Napoli un anno dopo, e in Sicilia tra l’estate e l’autunno del 1837.

Mentre il poeta von Platen veniva a morire in Sicilia, un altro artista si lasciava alle spalle il colera, iniziando un viaggio lungo la penisola, anche lui diretto a Siracusa.

Non aveva con sé né il nécessaire per scrivere, né il cahier de route per disegnare, ma la grande arte dell’ombra e della luce che restituiva forma al passato, vita al lontano.

Il mondo nuovo in una lanterna
1

Bassorilievi di demoni, civette, misteriose apparizioni – nel cimitero parigino del Père-Lachaise – decorano la maestosa tomba, alta più di cinque metri, dove nel 1837furono deposti i resti mortali del conte Étienne-Gaspard Robertson. Scienziato e illusionista, atterriva e affascinava adulti e bambini, nobili e popolani, con le fantasmagorie della sua lanterna magica; uno strumento ottico, inventato intorno alla metà del Seicento, che diventò popolarissimo tra rivoluzione e restaurazione.

Variegati gli spettacoli, e grande il numero dei praticanti, colti o analfabeti, che in ogni città e sperduto villaggio per pochi spiccioli svelavano il mondo nuovo racchiuso nella lanterna; uno dei quali, a Tolone, riscuoteva un grande successo nelle piazze e nei palazzi di nobili e borghesi, dove di tanto in tanto veniva invitato, con abilità adattando il suo repertorio a cambiamenti politici e richieste di mercato.

Se avesse potuto prevedere il futuro, Giorgio Schwentzer, conte piuttosto decaduto, non avrebbe mai portato il figlio nel palazzo di un altro titolato per un evento riservato a pochi amici di assoluta fede nell’ancien régime.

Nel buio del grande salone, tra esecrazione e nostalgici sospiri, Joseph vide sul telo materializzarsi dame e cavalieri in sontuosi abiti settecenteschi; poi Danton, Robespierre, e la regina Maria Antonietta decapitata, mentre un asino a poco a poco assumeva le fattezze dell’usurpatore Napoleone. E dopo l’immersione in quel passato il lanternista disse che era tempo di speranza per la Francia, concludendo con una processione di uomini e bestie in cammino verso l’oro e il blu dello stendardo della salvezza.

Al ritorno il bambino tempestò di domande il padre, che restò estremamente sorpreso di quell’improvviso interesse; più che un conforto dopo la morte della moglie, un peso era quel figlio. Refrattario a ogni rigore di punizione, se ne stava tutto il tempo a disegnare su ogni foglio a portata di mano, riempiendo di stridi la casa se qualcuno cercava di distoglierlo; un discreto talento, lo riconosceva, ma per lui progettava un avvenire di dignitario nella restaurata corte.

Gli spiegò che non era magia, ma scienza – la grande arte dell’ombra e della luce – promettendogli una lanterna-giocattolo, se diventava disponibile agli studi e ai doveri dell’etichetta.

E ci riuscì. Il precettore non si lamentò più, e lui poté ritornare indisturbato tra gli amatissimi libri di scienza e le carte di famiglia. Che leggeva, rileggeva, appuntava, discutendone poi con un amico giurista: con il ritorno delle legittime maestà sarebbe rientrato in pienezza di titolo e di beni, lasciando in sicurezza quel bambino. Ne fu certo dopo la sconfitta di Lipsia, ma non seppe mai del restaurato Borbone morendo poche settimane prima dell’abdicazione di Napoleone; e il figlio affidato fino alla maggiore età a un istituto per giovani di alto nome ma di limitate risorse.

Quando uscì dal collegio Joseph Schwentzer si ritrovò libero e solo. Il palazzo gli sembrò enorme; e soffocanti i logori damaschi e gli sguardi supponenti della quadreria degli antenati, chiedendosi com’era possibile che un uomo intelligente e dotto come suo padre fosse rimasto ancorato a quel passato di etichetta e ingiustizia. Andava talvolta in biblioteca: tirava giù qualche libro, leggiucchiava; ma era la vita fuori da quelle stanze a chiamarlo. Passava interi pomeriggi al porto a seguire il movimento delle imbarcazioni che tornavano o partivano verso sconosciute geografie; o a indugiare davanti a ventriloqui, saltimbanchi, suonatori di gironda, ciarlatani di ogni specie, che popolavano le piazze di Tolone. Di ognuno subito individuando il trucco, la malizia, ma anche il talento. Come quello di René, un lanternista savoiardo; stentatamente sapeva leggere, ma sovrapponendo i vetrini dava l’illusione del movimento agli uomini e ai paesaggi che scorrevano sul telo. Studiando le leggi dell’ottica – in collegio era diventato un allievo modello, eccellendo soprattutto nelle scienze applicate – aveva compreso perfettamente il meccanismo di funzionamento della camera oscura, che tuttavia continuava ad essere per lui il cabinet delle meraviglie. Fu subito amicizia con René, e quando seppe che si preparava a partire per un lungo tour, affidò a un notaio la vendita del palazzo e si aggregò a lui.

Imparò a montare e smontare telo e casotto, a fare scorrere i vetrini in modo giusto nel portalastre; e a modulare con sapienza la parola. Cinque anni in giro per tutta la Francia, fino a quando René volle ritornarsene nell’Alta Savoia da dove proveniva.

Decise di proseguire da solo per l’Europa; i mezzi non gli mancavano, disponendo ancora delle risorse della vendita del palazzo. Si attrezzò di tenda, lanterna e lenti, dosando in modo perfetto la luce dentro la lanterna per rendere più nitide le immagini dei luoghi; si era infatti specializzato in paesaggi. Dovunque arrivava faceva schizzi di volti, costumi, fiumi, cattedrali, che poi disegnava e colorava sui vetrini, inserendoli nel passavedute in sequenze di storie d’amore, di guerra, di viaggi in luoghi lontani e misteriosi.

Un cosmorama di successo tra popolani e aristocratici. Non aveva più bisogno di andare di strada in strada, di casa in casa a bandire i suoi spettacoli; quando passava in un’altra città aveva sempre con sé qualche autorevole lettera d’appoggio su cui contare. Montava il casotto, e pane e libertà erano assicurati.

Dopo un decennio era tornato in Francia. Cambiato il re, e Tolone tutta cambiata: rimesso a nuovo il palazzo dove con suo padre era vissuto fino a tredici anni; e Antoine, l’unico amico degli anni del collegio – ardito più di lui nel progettare eroiche imprese e avventurose fughe – diventato un arrogante uomo d’affari che non era mai andato nemmeno a Lione. Ma nella città mezza svuotata dalla minaccia del colera – fuggiti sindaco, possidenti, autorità – gli spettatori invece di diminuire aumentavano: una muraglia di povera gente dietro la tenda, in attesa di respirare l’altrove del cosmorama.

Sentiva una profonda pietà per quella condizione senza scampo tra bisogno e paura. Dovunque la stessa cosa: la prepotenza dei ricchi e l’impotenza dei poveri. E il potere – ancien o nouveau – sempre lo stesso. Tanti ne erano passati nei suoi trentaquattro anni di vita: l’imperatore prima, poi il mediocre Luigi seguito dal violento Carlo; e da qualche anno Luigi Filippo: re dei Francesi per volontà della nazione. Ma sempre re!

Fossi vissuto durante la rivoluzione, spesso da giovane aveva pensato… Robespierre… Saint-Just… Ma anche loro cercando la giustizia si erano fatti ingiusti, era la conclusione a cui con gli anni era arrivato.

Perciò la politica non lo interessava. Era la grande arte dell’ombra e della luce, per lui, l’égalité: la sintonia di battiti, emozioni, di speranze, che anche nello sciancato, nell’umiliato, il cosmorama accendeva. Quel mondo nuovo che forse nel futuro sarebbe uscito dalla lanterna e si sarebbe fatto azione.

Era stato in quella Tolone accerchiata dalla paura del colera, che al suo unico e assoluto amore – la lanterna magica – un altro se n’era aggiunto, altrettanto assoluto.

Non aveva mai pensato a figli e matrimonio, che volevano casa e sicurezza in un luogo stabile del mondo. E all’improvviso, Anna Maria.

La prima volta che la vide in una strada vicino la vecchia darsena gli sembrò una dea vestita da amazzone, mentre a cavallo faceva ardite acrobazie, seguita da un banditore che annunciava lo spettacolo equestre di monsieur Lepik. In orario pomeridiano però, quando anche lui era impegnato. Gli dispiacque di non poterci andare.

Imprevedibilmente qualche giorno dopo la ritrovò tra la folla in rumoroso diverbio davanti al casotto, dove lui stava concordando col suo aiutante le strisce di vetrini per lo spettacolo; uscì furioso intimando la calma. Una giovane si staccò dal gruppo e gli si avvicinò, guardandolo dritto negli occhi come se volesse imporgli i suoi pensieri. Fece fatica a riconoscere in quel corpo minuto e giovanissimo – quasi una bambina – l’ardita amazzone. «L’equilibrista di monsieur Lepik?» chiese. «L’unica femmina, dopo cinque maschi» orgogliosamente gli rispose; e porgendogli determinata le monete: «Non posso aspettare. Tra un’ora inizia la giostra dei cavalli». La invitò a tornare uno dei giorni successivi, di mattina: sarebbe stato un onore, per lui, mostrare a lei e a tutta la famiglia Lepik il mondo nuovo; avrebbe aperto il cosmorama solo per loro. «Sono al suo servizio» concluse. Gli restò una sorta di inquietudine, come qualcosa di sospeso tra lui e lo sguardo di quella giovane che imponeva senza chiedere.

La ragazza tornò da sola due giorni dopo. Per lei scelse la striscia dell’Oriente: il deserto, le dune, una carovana in cammino verso una città di cupole azzurre e minareti, accompagnando le immagini con il racconto della disperazione di una figlia in cerca della madre rapita; con un felice finale che però non fece in tempo a raccontarle. «Basta!» gridò la ragazza, improvvisamente scoppiando in lacrime.

Le prese le mani mentre Anna Maria gli diceva di sua madre morta di colera un mese prima; dell’odore di mele e terra – intensissimo all’alba – nella valle tirolese della sua infanzia dov’era vissuta fino a cinque anni; dei cavalli, gli unici che la capivano. E lui a sua volta le raccontava delle stanze freddissime e cadenti del palazzetto di Tolone; di sua madre il cui volto non aveva mai conosciuto, ma che per tutta la sua infanzia aveva continuato a disegnare; del padre tutto libri ed etichetta, e della lanterna che gli aveva regalato, le cui immagini cancellavano il freddo di quelle stanze, lo sguardo arcigno degli antenati. Che però mai l’aveva abbracciato. Fu lei ad abbracciarlo.

Qualche giorno dopo Joseph si recò nel campo equestre. Nonostante le sue ascendenze nobili, monsieur Lepik lì per lì rifiutò la sua richiesta di matrimonio: sua figlia era una cavallerizza eccezionale, un’attrazione di cui non si poteva privare. Lo convinse, proponendogli di unire le forze. Cosmorama e cavalli: non avrebbero più avuto concorrenti nelle piazze del mondo.

2

Da lì a qualche mese lasciarono Tolone. Sempre più a sud, e il colera alle spalle. In un anno attraversarono tutta l’Italia, e alla fine del 1836 furono a Palermo, dove Joseph aumentò in modo consistente il numero delle sue vedute; tracciò schizzi su schizzi da riprodurre sui vetrini rammaricandosi di non poter dare forma visibile all’odore degli aranceti.

Ad Agrigento decisero di separarsi. Il suocero con i cavalli ammaestrati si spostò verso l’interno; lui, Anna Maria, con la piccola Natalie – nel frattempo nata – restarono lungo la costa. A loro si unì il giovane aiutante Tommaso, un vero talento con leve e tiretti. Meta ultima, Siracusa; da dove pensavano di imbarcarsi per Malta, procedendo poi verso l’Oriente.

Dovunque entusiastica accoglienza alle meraviglie del cosmorama, a cui la giovinezza di Anna Maria aggiungeva bellezza; che lui – alto, allampanato, con il doppio dei suoi anni – volutamente sottolineava, indossando una gobba finta. Grande la ressa di uomini e donne di ogni ceto ed età, che Tommaso riusciva a stento a tenere a bada. Sarebbero rimasti per ore a guardare, se non avesse trovato il modo di distoglierli: il giovane interveniva offrendo una presa di tabacco a chi sostava troppo, mentre lui lo distraeva aggiungendo immaginari dettagli sulle vedute. A Lentini fu un vero trionfo.

Ad Augusta ancora di più. Omaggi. Tanti omaggi per Anna Maria: fiori, profumi, persino sonetti. E inviti a pranzi, ricevimenti, a passeggiate a cavallo. Sempre circondata da gentiluomini lei si lasciava corteggiare… sguardi… ancheggiamenti…

Poteva batterla. Costringerla. Era nel suo diritto di marito. Ma se stringi troppo la briglia, si diceva, il cavallo si rivolta; e lei era una cavallina pazza, che non conosceva redini e padroni. Aveva finto di non vedere. Non voleva perderla.

Nell’intimità nulla era cambiato; fiduciosa si consegnava a lui senza riserve. «Raccontami di quella volta a Vienna…» gli diceva dopo l’amore. O Parigi, o la Foresta nera: i luoghi cambiavano sempre, e anche le immaginarie storie che le piaceva tanto ascoltare mentre a poco a poco scivolava nel sonno.

No. Non sarebbe mai andata via. Una certezza, però, che ogni tanto traballava.

Tirò un respiro di sollievo quando all’inizio di giugno si trasferirono a Siracusa. Si sentì subito a casa in quella città, piccola ma molto simile a Tolone, con la piazza d’armi, il castello, il respiro di mare e di passato, e la cordialità della gente.

Il giorno stesso del suo arrivo Peppino – il pittore conosciuto un mese prima – gli portò delle banderuole coloratissime da aggiungere a quella nera con la scritta Gran Cosmorama che sventolava davanti la sala ottica. Un piccolo presente, gli disse, esponendogli il programma che aveva preparato per lui: la mattina seguente nel suo laboratorio per mostrargli i suoi lavori, e nei giorni successivi in giro a vedere le antichità. Così avrebbe capito il senso di ciò che gli aveva detto la prima volta che si erano incontrati.

Circa un mese prima Peppino era venuto a Lentini con altri gentiluomini, dopo lo spettacolo fermandosi a chiedergli della fattura delle miniature dipinte sui vetrini. Quando aveva saputo che egli ne era l’autore, lo sconosciuto gli disse che anche lui era pittore; l’aveva nel sangue la pittura, da generazioni tutti artisti nella famiglia Politi, ma era suo fratello il vero genio, che lavorava a Girgenti e viaggiava molto. Lui invece non si allontanava mai per troppo tempo da Siracusa. «Lontano, non posso vivere. E nemmeno dipingere» concluse.

Erano rimasti a lungo a parlare di pittura e delle vedute del cosmorama. Pur non essendoci mai stato il pittore di ogni luogo conosceva costumi e linguaggi, che aveva perfezionato facendo da guida ad artisti e viaggiatori; e ogni volta per lui era la stessa emozione della prima volta. Fu come se si fossero aspettati per tutta la vita.

Peppino era tornato a trovarlo anche ad Augusta, portandogli una guida per i viaggiatori da lui scritta e completata con delle tavole; in ognuna di esse aveva profuso la stessa passione di un amante per ogni dettaglio del corpo amato.

Attraverso le parole e le immagini dell’amico aveva cominciato ad amare quella città prima di conoscerla. Che non lo deluse.

Era felice Joseph in quelle prime settimane siracusane: della gente, del lavoro, della ritrovata attenzione di Anna Maria, e delle ore che trascorreva in giro insieme a Peppino, che qualche giorno dopo lo portò alle cave di contrada Paradiso. Nella grotta della parola l’amico sussurrò qualcosa di impercettibile che si amplificò in dilatate sonorità.

Echi infiniti lo avvolsero.

Tutto avvolsero, la sua vita, quella di Peppino, le voci compresse nelle morte architetture, e il mare turbinoso alle spalle: «Chi ha guardato negli occhi la bellezza è già preso da morte».

Erano i versi di un poeta bavarese, che due anni prima Peppino aveva accompagnato, ma solo per qualche giorno: nel giro di due settimane era morto. Di febbri tifoidi era stata la diagnosi; di colera si sussurrava in giro.

«Forse per troppa bellezza è morto von Platen» mormorò quasi tra sé l’amico. Una pienezza di vita, che all’improvviso si spezzò.

Qualche giorno dopo Peppino cominciò a stare male. Nessuna medicina riuscì ad alleviare le sue sofferenze; inutile anche la pozione a base di rosmarino, noce moscata e canfora, che lui gli preparò.

Il colera che pensava di essersi lasciato alle spalle l’aveva raggiunto. Con la morte di Peppino e le grida disperate dei parenti di chi, colpito dal morbo, veniva portato a forza nel lazzaretto. E voci, in giro, di tossici.

Il Visitatore dei Regi Archivi

Più o meno nei giorni in cui il poeta von Platen moriva, e Joseph Schwentzer iniziava il suo tour in Italia, a Siracusa arrivava un uomo con credenziali liberali, che si faceva passare per un Visitatore dei Regi Archivi.

Fu organizzato un pranzo con un gruppo di vecchi liberali dell’ala moderata.

Si parlò a lungo della condizione di sottomissione in cui la Sicilia era ridotta: il luogotenente Leopoldo, richiamato a Napoli dal sospettoso e regale fratello Ferdinando; e svanita ogni speranza di un regno autonomo, mentre il morbo sconosciuto era vicino.

«Un’occasione da non perdere per sollevare il popolo. Non c’è paura più forte di quella della morte» concluse il Visitatore dei Regi Archivi alzando il calice di vino rosso.

Brindarono all’indipendenza della Sicilia, mettendosi al lavoro tra marinai e bordonari.

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