(di LAURA PARIANI)
Orta, 18 maggio 2020
Non passa ora senza che il telefono squilli: “Carissima, mi fai un videino sulla fine del sconfinamento?” oppure “Potresti scrivermi otto cartelle per un’antologia che stiamo mettendo insieme sulle conseguenze del coronavirus? Dài, cosa ci hai d’altro da fare?”… E il tentativo di smarcarsi fallisce il più delle volte, perché non sono brava a dire di no.
Così la richiesta di stamattina – un’intervista sul mini saggio “Di fronte alla pandemia”, che ho scritto con Nicola per gli studenti – l’ho presa sottogamba. “Questione di dieci minuti” mi assicurano al telefono due voci, maschio e femmina, giovani.
Vabbe’ facciamola.
E allora cominciano domande a raffica, ma quasi subito non si parla dei romanzi presi in esame dal nostro piccolo saggio. Le domande virano sul personale e comincio a innervosirmi. È una situazione in cui mi piacerebbe essere come il signor di La Fontaine che in pubblico era sempre accompagnato da un segretario che rispondeva al posto suo alle domande che riteneva fastidiose; oppure saper ribattere come quel tal personaggio di Karen Blixen. “Consentitemi di rispondervi secondo la regola classica: raccontandovi una storia”.
Quando poso il telefono, la giornata è rovinata.
Cosa faccio quando sono inversa? Disegno. È un modo tutto mio di concentrarmi su altro: temperare le matite, scegliere i pastelli, abbandonare la mano al gesto, non pensare che a linee e colori.
Verso sera per fortuna c’è l’orto che a maggio – il “maggio odoroso” – è una magnificenza. Sul pendio le insalate e le file in bell’ordine dei ravanelli; i piselli rampicano sui sostegni; le patate crescono a vista d’occhio. I gatti se ne stanno beatamente spaparanzati sul fieno che Nicola ha tagliato: tengono sott’occhio due merli che a loro volta studiano il ciliegio carico di frutti che – basteranno ancora due giorni di sole – stanno per diventare rossi.
Mi ritrovo a ripulire dalle erbacce l’angoletto dove crescono menta e camomilla. Che sollievo lavorare con ste mani atrofizzate, cerebralizzate, che si sono adattate a non fare altro che battere sui tasti del computer o gesticolare mentre parlo… Come detesto quando mi dicono: “Sai che hai delle bellissime mani da pianista?”. Vorrei che le vedessero adesso, con le unghie orlate di terra nera. Quale stralunato poeta parlò di “unghie chiare come perle”? Non ricordo, del resto proprio non mi interessa la lirica bigiotteria delle unghie.
Dal bosco in cima al pendio viene il verso ripetuto del cuculo. Da bambina mi dicevano che la somma dei “cucù” indicava all’ascoltatore il numero degli anni che gli restavano da vivere. La tentazione è di tappare gli orecchi per non sentire. Invece non lo faccio. “Cucù, cucù, cucù”… poi il silenzio. Possibile che siano solo tre?… Tendo l’orecchio ma dal bosco non viene altro che lo sghignazzo di un corvo.