(di GIACOMO CROCE)
Balestrate, 11 maggio 2020
Oggi ho deciso anch’io di scrivere la mia pagina di diario. Non è stato semplice scegliere il momento giusto nonostante, a pensarci bene, il tempo a disposizione non mancasse. Anzi!
Ho tergiversato non poco, quasi a voler attendere che le immaginarie particelle che formano il nostro tempo – dilatato fino all’inverosimile – mi rapissero nella pratica della scrittura. La cosa che più mi viene spontanea è la preparazione, meticolosa: sono già le 23.15. Mi sistemo come se la giornata dovesse ancora cominciare. Pantaloni e camicia non possono mancare. Per me è importante che sia tutto in ordine: non riuscirei a studiare e scrivere in pigiama né in alcun altro modo che non sia quello dettato da un bisogno interiore di ordine. Decine di fogli sopra i quali scrivere appunti sparsi sulla scrivania e quattro, cinque penne a disposizione sono la condizione necessaria per potermi sentire pronto sebbene debba scrivere al computer.
Perché non è stato semplice scegliere il momento giusto per iniziare a scrivere la mia pagina di diario? Ho ripensato a questa giornata, adesso che sta per terminare. Mi sono rivisto, stamattina, appena alzato dal letto. Ho ripercorso con la mente i momenti trascorsi davanti al computer per seguire la lezione di Temi e forme della Letteratura Contemporanea, poi sono affiorate nella mia mente il ricordo di alcune parole annotate durante quella stessa lezione del mattino. Mi sono rivisto seduto a tavola, a pranzo e a cena, come se per un momento non ricordassi più niente del lungo pomeriggio in qualche modo volato via. Qualche minuto prima di cena stavo sfogliando le pagine di un libro che ho sottomano, un piccolo prontuario di sintassi che mi serve per la mia tesi di laurea. Continuerò dopo, pensavo. Questa la mia giornata. Tutto qui? È possibile che queste ventiquattro ore si risolvono così?
Eccomi qui, a cercare di salvare qualche pezzetto di questa giornata anche se non riesco a formalizzare nella carta le mie idee e forse ho capito anche il motivo. Ogni giorno mi alzo dal letto, ogni giorno leggo qualcosa, ogni giorno da sempre mi siedo a tavola quando è il momento di pranzare e cenare. Ma, in un periodo dove l’ascolto del silenzio è diventata la mia attività più frequente, percepisco che azioni come queste non hanno più lo stesso valore, non si inseriscono più come piccole cesure di una giornata qualunque. Ogni giorno mostra il suo lato nascosto, esibisce tutti i minuscoli frammenti temporali in cui è composto. Sì, il tempo…il tempo che non si rileva più con le lancette dell’orologio, né il calendario scandisce i giorni con quella forza perentoria che spesso lo rende un inquilino un po’ invadente, rimane lì, appeso in quella parte di muro che il sole al mattino fatica ad illuminare. Non mi chiedo più cosa farò dopo aver pranzato perché lo so già. Non mi pongo neanche il problema di riuscire a capire se stasera ho voglia di uscire o iniziare un timido dialogo con uno degli scrittori che, appoggiato comodamente sulla mia libreria, sembra guardarmi in modo un po’ più annoiato del solito, come se anche lui avesse difficoltà a liberare il mio pensiero dalla contingenza più cruda.
Ecco che le giornate si trasformano. Al ticchettio dell’orologio si è sostituito il rumore delle mie dita, con il loro ipnotico picchiettare sui tasti del pc. Le pagine dei libri diventano granelli di sabbia, vengono giù da un’immaginaria clessidra e finiscono con il diventare un tutt’uno con il tavolo che li sorregge.
Solo adesso mi rendo conto che è già passata qualche ora da quando ho pensato di scrivere questa pagina. E ora che è sera inoltrata, della giornata trascorsa permangono chiare nella mente poche immagini. La prima è un vociare che viene dall’esterno, al risveglio. Un uomo con un bastone, sopra il quale sembra poggiare tutto sé stesso mentre urla a un conoscente qualcosa che non riesco a capire. Più per un atto spontaneo che per reale voglia di comprendere mi avvicino alla finestra e riesco a sentire soltanto alcune parole, in dialetto molto stretto. Dalle parole che riesco ad afferrare intuisco l’argomento della discussione. Mi sembra di capire che l’uno dia la colpa ai Cinesi, mentre l’altro attribuisca agli Americani qualsiasi responsabilità attinente al Covid 19. Mi ritraggo, quasi subito.
È una bella giornata e dal balcone di casa mia si vede il mare. Decido di salire le scale e osservare quello che mi sembra essere rimasto del mondo esterno: una strada, il cielo e il mare che in lontananza fondono i loro colori. Sono attratto da un’importante crepa sulla parte alta del muro della casa di fronte; due tegole appollaiate, solitarie lì in alto, donano la loro ombra pomeridiana ad un piccolo nido di rondini. Mi soffermo a pensare che quella crepa è lì, tale e quale, da anni, ma solo adesso io la rivedo di nuovo, per la prima volta dopo tanto, troppo tempo… questa ferita di un muro che vedo ogni giorno da sempre. Penso quindi che l’osservazione dei particolari, di quelle cose, anche insignificanti, che adesso mi sembra prendano nuova consistenza, come ombre gigantesche, è una delle capacità che forse meglio ho sviluppato in questo periodo. L’attenzione al dettaglio, ai momenti, anche quelli già trascorsi. Forse solo ora mi rendo conto che avevano un di più di significato, di senso. Poi ripenso ad altre occasioni, altre trascurabili minuzie. Con delicatezza cerco di entrare con l’immaginazione tra i pensieri opachi di chi non ha potuto più salpare per le onde della vita, gli ultimi momenti di chi ha tenuto stretto il battello prima di lasciarlo per sempre. Ed è allora che anche quella crepa assume un suo profondo significato, ecco che la riconosco e a guardarla mi sembra forse un po’ più profonda, come fosse la linea disegnata da un bambino che, per la prima volta, tiene in mano una matita.