GIUSEPPINA TORREGROSSA
Roma, 24 febbraio
Questa mattina ragionavo sulla necessità di smettere di fumare, poi sono andata a comprare i sigari. C’è un sole tiepido, non piove da mesi, nell’aria il solito puzzo di benzina. Campo de’ fiori fino alle 14 ha ancora le caratteristiche del quartiere, poi si trasforma in un organismo mostruoso, che parla tutte le lingue del mondo. Ma chi abita qui, in alcune ore del giorno, può ancora godere delle chiacchiere senza senso di una Roma d’altri tempi.
Il locale è stretto, affollato di cartoline e souvenir, ma si trova in una posizione strategica; qualunque cosa avvenga tra piazza Navona e il mercato di Campo lì si viene a sapere subito. Oggi c’è un insolito movimento di persone concitate. Mi inserisco in quella scia di nervosismo e aspetto il mio turno.
“Che volevi, Giusi?” mi chiede la tabaccaia, una donna giovane, belloccia, taglio alla moda e chiodo di pelle; mi appare stranamente agitata.
“Oh, come va?” mi informo prima di procedere all’acquisto. Lei è distratta, non mi risponde. “Come va?” insisto.
Maria, banco di verdure al mercato, il primo a sinistra, dopo quello dei vestiti e dei cappelli, entra in quel momento; è trafelata, salta la coda: “Oh, pare che se li so portati proprio mò. È arrivata l’ambulanza…”
Tutto intorno si leva un brusio. “Ma chi?” – “E ndove?” – “Ma tu dimme”
“Tu un sai gnente?” chiede poi a Rosaria che scuote la testa in segno di diniego
“De che?” chiede Adele, banco dei fiori, il terzo dopo l’edicola
“Du’ cinesi, proprio mò, al museo Barraco a corso Rinascimento. Se li so portati con l’ambulanza. È arrivata a polizia, ‘n macello. Ce stanno quelli co ‘e tute bianche; stanno a chiude tutto”
“Un po’ esse” dice Renato, l’operatore ecologico “Io vengo da lì e nun ho visto gnente. Dammi na Marlboro dura”
“Non ci credo” interviene Rossana l’edicolante “E poi non ho sentito sirene”
“Ma che sei sorda? Nun fanno altro che sonà da sta mattina, ce stanno più sirene che campane”.
Compro i sigari e faccio un giro di ricognizione. Il mercato è sonnacchioso, febbraio è un mese morto per il turismo. Arrivo fino alla piazza, tutto tranquillo. E invece i due cinesi ammalati di covid c’erano veramente, ma all’Esquilino, in un albergo, e davvero se li sono portati via con l’ambulanza; poi la polizia ha chiuso qualche stanza e controllato qualche dipendente. Lo apprendo dal telegiornale. Ecco così il virus è sbarcato a Roma; ma nessuno crede all’epidemia e/o pensa che corriamo qualche pericolo, nemmeno le istituzioni, perché ancora per due settimane alberghi, ristoranti, pub e negozi rimangono aperti.
29 febbraio
Smetto di andare in piscina. È vero che da giorni la mia pigrizia cerca una scusa valida per evitare quel noioso su e giù a respirare muffa; la sindrome cinese mi pare buona.
3 marzo
Chiudono le scuole. Il numero dei morti si moltiplica in modo esponenziale. Ci siamo, l’epidemia è qui. Ma Roma sonnacchiosa ancora non ci vuol credere. Ma poi perché allarmarsi? Per i due cinesi che stanno allo Spallanzani? “Ma noi semo forti, c’avemo er Papa, che ce deve succede?” si urla da un banco all’altro del mercato. I negozi sono aperti, pub e ristoranti pure. Esco e vado al bar per quello che sarà il mio ultimo caffè prima della chiusura totale. E’freddo e sono l’unica seduta al tavolo. L’ombrellone gira su se stesso per via del vento. Il barista mi chiede qualche informazione sul virus, sa che un tempo facevo il medico. “Sarà dura” concludo e mi sento un po’ Cassandra. Finisco i miei soliti giri mattutini. Roma è una città stralunata senza turisti. Si cammina senza inciampare, senza scontrarsi. Un signore dai capelli bianchi mi viene addosso, non mi ha visto, stava leggendo qualcosa sul telefonino. Si scusa. Io gli rispondo male. La sindrome cinese, un misto di ansia per il futuro e di fastidio per ogni forma di contatto umano, per quel che mi riguarda, inizia così. Mi spingo fino al supermercato, compro due scatole di guanti in lattice, tre confezioni di Amuchina; poi in farmacia per quattro mascherine fpp2. Potrei farne incetta, ancora gli scaffali sono pieni di dispositivi anticovid, ché ci sentiamo tutti immortali; ma mi vergogno e mi limito al fabbisogno per la mia famiglia.
7 marzo
Siamo in piena primavera. Mi fermo da Stefano, biondo e sorridente, fioraio. Con gesti gentili mi prepara un mazzo di peonie. “Sono in anticipo quest’anno, ché di solito fioriscono a maggio” mi dice con voce gentile. Devo sistemare i fiori nel terrazzo e alle finestre. Chiedo consiglio. “Aspetta” mi dice “Non sappiamo ancora come va a finire. Metti che chiudono tutto?”. Accolgo il suo consiglio. “Va bene, ma giusto una settimana; poi devo ripiantare i fiori alle finestre, i ciclamini, con questo caldo, sono morti prima del tempo”.
8 marzo
Hanno chiuso tutto il chiudibile. Comincia per me un lungo periodo dedicato a sventare le orribili manipolazioni dell’informazione. Potere e media martellano senza tregua. Assisto attonita all’insediamento di Bertolaso. Ma come, i vecchi rischiano di più e chiamano proprio lui a costruire il super lazzaretto? Il potere è coerente con il senso di onnipotenza, ma non rende invincibili. Dopo una settimana Bertolaso si becca il Covid e finisce ricoverato al San Raffaele, ché il super lazzaretto ancora non è pronto. All’ultima passerella del vanesio di turno, che dà numeri a casaccio, e al primo starnuto in diretta di Borrelli, prendo la decisione di estraniarmi e non seguire più telegiornali e aggiornamenti. Mi dedico ai Promessi sposi. Scopro che Manzoni conosceva benissimo i meccanismi del potere. E li vedo tutti lì, dal super commissario al commissario, al vicecommissario, descritti nelle loro debolezze, nelle loro vanità. Scrivo costantemente sui social, facendo dire a Manzoni quello che penso io. Ma dopo qualche rissa, abbandono per un po’ il mio profilo e mi metto fissa su Netflix, godendomi quattro serie di Breaking bad.
Tutto il resto è cronaca.